martedì 26 novembre 2013

Così ghiotta di Vita che sono interessata anche alla morte, che di essa è il finale, e non è detto...



«Sono così interessata, appiccicata, morbosamente ghiotta, obesa della vita che sono interessata anche alla morte, che di essa è il finale, e non è detto». La famosa attrice comica Anna Marchesini (faceva parte del trio con Solenghi e Lopez) è stata ospite su Rai Tre alla trasmissione “Che tempo che fa” di Fabio Fazio. Chiamata per presentare un suo libro di racconti (“Moscerine”), l’artista ha parlato del suo viscerale attaccamento alla vita. Marchesini da qualche anno soffre di una grave forma di artrite reumatoide.

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Riporto dal Corriere della Sera di ieri, 25 novembre, a firma di Anna Marchesini.

Basta bullismo linguistico perchè ridere è una cosa seria

Il settimo giorno Dio riposò. E rise, tanto, rise per tutto quello che aveva combinato traendo dal caos un mondo così perfettino che per forza a qualcuno sarebbe venuta la tentazione di sfasciarlo. Diavolo e acqua santa insieme, una miscela irresistibile. Infatti egli rise, rise e ride ancora.
Era facile ridere, una volta. Da piccola ridevo quando guardavo in tv gli spettacoli teatrali con Gilberto Govi, non sempre capivo ma ridevo, così ridevo con i De Filippo, con Rina Morelli, Sara Ferrati e Ave Ninchi nelle Sorelle Materassi; ho riso quando la tv era in bianco e nero e non conoscevo il teatro; anche il babbo rideva, rideva così tanto e così forte che insorgevamo tutte: io e mia sorella e la mamma per intimargli uno shhh! — non volevamo perdere il filo di quei racconti, neanche un gesto di quel ricamo prodigioso, di quella costruzione magistrale di una trama in cui un semplice accidente o un equivoco si trasformava in un guaio paradossale, innescava una serie compulsiva di incidenti, inciampi, sottintesi, malintesi, sorprese, colpi di scena, strategie riparatorie, intonate, urlate e poi soffocate in quella miriade di squittii-ciarle-botte-e-riposte, pause tenute ad arte e poi sbuffi lasciati andare dentro quella musica di bassi e alti, di battere e levare, di sussurri e urla dentro quella esagitata iperrealtà più vera della realtà, perché quei comici possedevano l’arte — il dono — di dire la verità, su di noi.
C’è una data a cui risale il mio primo incontro carnale con il comico. Allieva dell’accademia, fui scelta per una piccola parte nello spettacolo Il borghese gentiluomo allestito nell’anfiteatro di Pompei e interpretato da Tino Buazzelli. E qui ci starebbe un «non ci sono parole»; invece io voglio trovarle le parole, per descrivere la forza la potenza espressiva la grandezza il talento che ho visto sprigionare da quel corpone sedentario e in affanno durante il giorno, eppure così forte, così efficace, così feroce in palcoscenico. Ogni sera restavo dietro le quinte non per guardarlo, ma perché non potevo fare a meno di farlo. Interpretava un borghese grossolano cafone cialtrone sgrammaticato e borioso che si mette in testa di diventare un aristocratico dai modi eleganti, conoscitore di musica e danza. Usava il suo corpo mettendo in scena un insignificante ammasso di grasso flaccido dall’aspetto bovino, sonnolento e lamentoso, una specie di mobilio ingombrante, un bradipo cui lui stesso si atteggiava; alla fine delle lezioni di raffineria, ballo, canto, portamento e dizione, veniva sottoposto a una sfilata. Attraversava il palcoscenico tutto parato a festa con la giacca infiocchettata e piena di nastri, la camicia con le rouches, un parruccone bianco in testa pieno di boccoli, due codazzi di cannoli che sventagliavano schiaffeggiandolo, i calzettoni bianchi e le scarpe con i tacchi; sbuffava con goffa e inadeguata disinvoltura, si guardava attorno feroce e presuntuoso sbruffone e gabellato, zimbello lui di se stesso; sembrava una fiera ambulante, il camion dei giocattoli e casalinghi, sembrava un bue sui tacchi; anzi non «sembrava», era proprio quello che voleva diventare. Si trascinava un corpo carico di significati, era lui stesso la fiera delle vanità.
Dentro, dentro la parte, ogni sera raccontava con tutto il corpo, sudava, la sua voce tuonava nell’anfiteatro. Quello che mi incantava era che mentre raccontava la storia, lui diventava la storia, l’anima, il motore, la locomotiva; mostrava a noi (parti piccole e senza battute) la Terra dei Giganti e io mi rendevo conto di quanto in alto si potesse arrivare.
Una sera in una scena in cui litigava con la moglie durante la cena, lo scontro cresceva insieme agli insulti; al culmine dell’esasperazione lei gli urla in faccia: «bifolco!» e poi esce di scena. Fu tutt’ uno, Buazzelli si guardò intorno e poi le lanciò dietro una bistecca di plastica e la beccò pure in testa. Il personaggio agiva per lui. Bello, carnale , riusciva a far raccontare la sua furia pure alle narici, pure con le mascelle che faceva traballare agitandosi; sembrava un toro che caricasse e contemporaneamente i suoi occhi erano quelli di un uomo malinconico e perdente. Era un vero paesaggio. Un talento comico privo di narcisismo. Del resto il talento è il contrario del narcisismo, che è autoreferenziale. Il talento è il prodotto di una sorta di intelligenza morale che spinge a fare bene le cose per se stesse.
Ecco, a questo penso quando penso al comico, penso alla scrittura di alcuni testi di Pirandello, penso alle Cosmicomiche di Calvino, a Palazzeschi. Nutro particolare ammirazione per Pirandello, autore di sottosuolo che racconta l’indicibile, squarcia la retorica; come scriveva egli stesso, l’umorismo è un modo di vedere le cose attraverso chissà quale occhio che vede il corpo e la sua ombra, la realtà e il suo doppio. La retorica si veste al guardaroba della convenzione, l’umorismo svela, scopre, affonda l’ispirazione nel profondo delle storie, delle vite di tutti noi, acchiappa il senso invisibile e ingiudicabile; il viaggio di un intronauta solo, e poi lo riporta a galla e scopre e rivela il ridicolo del tragico e il tragico del ridicolo. Altro che superficiale. Altro che facile, il Comico.
Ho in mente tante pagine dell’irresistibile Il fu Mattia Pascal. La situazione in cui ci immergiamo è quella di un giovane uomo, Mattia, infognato in una vita che non avrebbe voluto — orfano di padre, derubato dell’eredità, senza lavoro, costretto a vivere con la suocera, madre della ragazza che ha messo incinta per procura di un amico che non aveva il coraggio di corteggiarla. La suocera non lo sopporta, spadroneggia e lo umilia; a rincarare la dose la vecchia madre di Mattia ridotta in miseria sola e malata va a vivere con loro, terrorizzata dal dare disturbo rimane ferma tutto il giorno rincantucciata vicino al fuoco. Dunque la situazione è al culmine, la suocera vedova Pescatore sta impastando il pane, si spalanca la porta, entra Zia Scolastica venuta a riprendersi la vecchia sorella, armata di un piglio che innesca la miccia: «La scena che ne segue — dice l’autore — merita di essere rappresentata».
Ecco all’incirca come andò. «”Subito, via, vèstiti! Verrai con me”. Parlava a scatti. Il naso adunco, fiero, nella faccia bruna, itterica, le fremeva, gli occhi sfavillavano. La vedova Pescatore, zitta. Finito di abburattare, intrisa la farina e coagulatala in pasta, ora essa la brandiva alta e la sbatteva forte apposta, sulla madia: rispondeva così a quel che diceva la zia. Questa, allora, rincarò la dose. E quella, sbattendo più forte: “Ma sì! Ma certo! Ma come no? Ma sicuramente!”. Poi, come se non bastasse, andò a prendere il matterello e se lo pose lì accanto come per dire: ci ho anche questo. Non l’avesse mai fatto! Zia Scolastica si tolse furiosamente lo scialletto e lo lanciò a mia madre: “Via subito!”. E andò a piantarsi di faccia alla vedova Pescatore. Questa si tirò indietro minacciosa come volesse brandire il matterello; e allora Zia Scolastica, preso a due mani il grosso batuffolo della pasta, gliel’appiastrò sul capo, glielo tirò giù su la faccia e, a pugni chiusi, là là là, sul naso sugli occhi in bocca dove coglieva coglieva. Quindi afferrò per un braccio mia madre e se la trascinò via. Quel che seguì fu per me solo. La vedova Pescatore, ruggendo dalla rabbia si strappò la pasta dalla faccia, dai capelli tutti appiastricciati e venne a buttarla in faccia a me che ridevo, ridevo in una specie di convulsione;m’afferrò la barba, mi sgraffiò tutto poi come impazzita, si buttò per terra e cominciò a strapparsi le vesti addosso, a rotolarsi, a rotolarsi, frenetica, sul pavimento; mia moglie intanto receva di là, tra acutissime strida, mentr’io: “Le gambe! Le gambe!” gridavo alla vedova Pescatore per terra. “Non mi mostrate le gambe per carità!”. Posso dire che da allora ho fatto il gusto a ridere di tutte le mie sciagure e d’ogni mio tormento. Mi vidi, in quell’istante, attore d’una tragedia che più buffa non si sarebbe potuta immaginare: mia madre, scappata via, così, con quella matta; mia moglie, di là , che… lasciamola stare! Marianna Pescatore lì per terra e io, io che non avevo più pane, quel che si dice pane, per il giorno appresso, io con la barba tutta impastocchiata, il viso graffiato, grondante non sapevo ancora se di sangue o di lagrime, per il troppo ridere. Andai ad accertarmene allo specchio. Erano lagrime; ma ero anche sgraffiato bene. Ah quel mio occhio (strabico), in quel momento, quanto mi piacque! Per disperato, mi s’era messo a guardare più che mai altrove, altrove per conto suo».
Eccolo, eccolo il senso profondo della natura del Comico! Niente a che vedere con il ridicolo, il buffo, l’intrattenimento spiritoso, la barzelletta, lo sberleffo e la parolaccia, l’invettiva contro i falsi padroni, lo sfottò, i vaffa e gli ammiccamenti volgari: esempi moderni di bullismo linguistico ispirati da una osservazione superficiale prêt-à-porter. Che meraviglia! L’autore affonda dentro un dramma, ne afferra il contenuto e lo trasforma, gli fa fare una capriola, un salto mortale carpiato fino a riuscire a restituirgli il senso comico del tragico: quello che sta sotto, sotto, sotto la gonna! Che spessore ciccioso!
Mi rendo conto che ho parlato con la testa voltata all’indietro, ho parlato al passato. Forse i giganti sono scomparsi e tutto quello che per me è stella polare si è estinto; ma io non mi arrendo, continuo a tenere la mia fiaccola accesa, anche se intorno molte luci si sono spente; io non mi rassegno e continuo a leggere, a scrivere a studiare a raccontare le mie storie in teatro, perché la Vita mi vive dentro così intensamente come fossi sempre gravida (caruccia!). E io non posso fare a meno di rischiare di sporgermi oltre il bordo che affaccia sull’abisso.
Mi sento plurale e più penso e più sento e più sento e più ogni cosa dentro di me diventa un paesaggio. Tengo la fiaccola accesa.
Anna Marchesini