Particolare del pannello di una mostra sul cervello
umano al Mit (Massachusetts Institute of Techlology)
La tappa berlinese del Cortile dei gentili.
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Dal Municipio Rosso al Bode-Museum. Pubblichiamo l’intervento pronunciato il 27 novembre dal presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura presso il Deutsches Theater in occasione della tappa berlinese del Cortile dei Gentili (26-28 novembre), promosso in collaborazione con la Conferenza episcopale tedesca. Un’occasione di dialogo ospitata da diverse sedi, dal Municipio Rosso alla Charité, fino ad arrivare alla suggestiva scenografia del Bode-Museum.(Gianfranco Ravasi) Nel suo film del 1987, Wim Wenders ha fatto volare nel cielo grigio di Berlino un angelo, pronto a perdere le ali della sua immortalità per stare vicino a un’artista di circo, ripetendo la vicenda di un altro ex angelo, anch’egli sceso in questa città che è un grande emblema di vitalità artistica e culturale, soprattutto teatrale. Infatti, come non ricordare in questa sede la figura di Bertolt Brecht la cui opera conobbi nella mia città, Milano, attraverso le mirabili regie di Giorgio Strehler?
Nella religione ebraico-cristiana la metafora estetica o ludica è divenuta una via analogica per rappresentare Dio stesso. È quella che già nel Medio Evo era chiamata la via pulchritudinis, ossia l’analogia della bellezza per cui — come si legge nel libro biblico della Sapienza — «dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia (analógôs) si contempla il loro Artefice» (13, 5). In un altro testo scritturistico la Sapienza divina creatrice è rappresentata come una fanciulla che «gioca [o danza] in ogni istante, gioca [o danza] sul globo terrestre ponendo la sua felicità tra i figli dell’uomo» (Proverbi 8, 30-31).
Così come esiste l’homo ludens, cioè la persona umana che libera le sue potenzialità creative, artistiche, culturali e sportive, attraverso le sue opere estetiche e atletiche condotte nella gratuità, libertà e creatività, così Dio crea l’universo e, come suggerisce il libro della Genesi nella sua pagina d’apertura, si ferma stupito a contemplare la sua opera: «Dio vide che era cosa bella/buona». L’aggettivo ebraico tôb ha, infatti, un’accezione sia estetica sia etica: è espressione del “bello” ma anche del “buono” e dell’“utile”.
In questa luce fede e arte sono sorelle perché di loro natura — come diceva Paul Klee per l’arte — «non rappresentano il visibile ma l’Invisibile che è nel visibile». Henry Miller, lo “scandaloso” autore del Tropico del cancro, in suo saggio, La sapienza del cuore, affermava che, come la religione, l’arte «non insegna nulla, tranne che a mostrare il senso della vita». E non è certamente poco. La stessa liturgia ha una dimensione “drammatica”, come è evidente nella sua ritualità, nella scenografia del tempio, nell’apparato degli oggetti, delle vesti, degli atti. Essa è contemporaneamente numen e lumen, cioè mistero, trascendenza, sacro; ma è anche luce, visibilità, spettacolo, coinvolgimento dei sensi.
Si comprende, perciò, perché nel “secolo d’oro” della letteratura spagnola le rappresentazioni di un Calderón de la Barca o di un Lope de Vega venissero classificate nel genere degli Auto sacramental, con chiaro rimando al sacramento liturgico. Un altro celebre personaggio di quell’epoca storica, Francisco de Quevedo, allargava teologicamente il simbolismo teatrale: «La vita umana è una commedia, il mondo un teatro, gli uomini sono gli attori, Dio è l’autore. A lui tocca distribuire le parti, agli uomini recitarle bene».
Come accade nell’esistenza e nella stessa esperienza di fede, due sono i registri fondamentali del teatro: il dolore e la gioia, il dramma e la commedia. Per usare la mitologia greca, Dioniso e Apollo procedono insieme sulla strada della vita, della musica, dell’arte, del teatro. In modo folgorante Dostoevskij dichiarava che «la tragedia e la satira [commedia] sono sorelle e vanno di pari passo e tutte due insieme si chiamano verità». L’arte autentica cerca di esprimere questa verità anche nel suo aspetto oscuro.
Infatti, nella prima delle sue Elegie duinesi Rainer Maria Rilke ricordava che das Schöne ist nichts als des Schrecklichen Anfang, il bello è solo l’inizio del tremendo. E a lui faceva eco Virginia Woolf nella sua opera Una stanza tutta per sé (1929) quando affermava in modo lapidario che «la bellezza ha due tagli, uno di gioia, l’altro di angoscia e taglia in due il cuore». L’allora cardinale Joseph Ratzinger in un testo del 1992 andava oltre affermando che «la bellezza ferisce, ma proprio così richiama l’uomo al suo destino ultimo».
La ferita si rivela, allora, come una feritoia che — similmente a quanto accadeva per i tagli delle tele di Lucio Fontana — si affaccia sull’infinito e sull’eterno, sull’assoluto, sul mistero, sul divino, a prescindere dalla fede o meno dell’artista. Purtroppo, a partire dal secolo scorso, si è assistito a un divorzio tra arte e fede. Da un lato, in ambito ecclesiale si è spesso ricorsi al ricalco di moduli, di stili e di generi di epoche precedenti, oppure ci si è orientati all’adozione del più semplice artigianato o, peggio, ci si è adattati alla bruttezza che imperversa nei nuovi quartieri urbani e nell’edilizia aggressiva innalzando chiese simili a garage sacrali ove è parcheggiato Dio e vengono allineati i fedeli.
D’altro lato, però, l’arte ha imboccato le vie della città secolare, archiviando i temi religiosi, i simboli, le narrazioni, le figure e tutto quel “grande codice” che era stata la Bibbia. Ha abbandonato come pericolosa ogni proposta di un messaggio, considerandolo un capestro ideologico, si è consacrata a esercizi stilistici sempre più elaborati e provocatori, si è rinchiusa nel cerchio dell’autoreferenzialità, si è affidata a una critica esoterica incomprensibile ai più, e si è asservita alle mode e alle esigenze di un mercato non di rado artificioso ed eccessivo.
Ora si sta registrando un avvicinamento. Il Pontificio Consiglio della Cultura da me presieduto ha presentato, proprio quest’anno, un Padiglione della Santa Sede alla Biennale d’Arte di Venezia — che si è chiusa la scorsa domenica — con una trilogia tematica che si lega alle pagine di apertura della Genesi biblica, affidandole alla libera rielaborazione di tre artisti dalle diverse esperienze anche personali: l’italiano Studio Azzurro, il boemo Josef Koudelka, l’australiano Lawrence Carroll. I temi proposti sono stati la creazione, la de-creazione, la ri-creazione.
Persino certe espressioni blasfeme o dissacranti che hanno recentemente avuto una forte eco rivelano, in ultima analisi, non solo l’impatto forte che i grandi simboli e i temi religiosi conservano anche in una società secolarizzata, ma manifestano forse la nostalgia di segni e immagini che hanno costituito una straordinaria fonte d’arte e di cultura per due millenni. Come confessava Chagall «per secoli i pittori hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato che sono le Sacre Scritture». Anche se discussa e non aliena da rischi, accettiamo l’esaltazione della gratuità dell’arte presente in una considerazione che ancora Bertolt Brecht — la citazione in questa sede è obbligatoria — faceva nel suo Breviario di estetica teatrale: «Da che mondo è mondo, compito del teatro, come di tutte le altre arti, è ricreare la gente. Questo compito gli conferisce sempre la sua speciale dignità».
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Riporto da "Avvenire" di ieri
Le nuove tecnologie del genoma aprono a prospettive esaltanti e pericolose. L’intervento del cardinale Ravasi domani al «Cortile dei gentili» di Berlino.
Uno dei poeti di Israele, il Salmista, si era fermato stupito davanti al mistero dell’essere umano e aveva esclamato: «Tu, o Dio, hai fatto l’uomo di poco inferiore a un dio, di gloria e di onore lo hai coronato» (Salmo 8,6). In forma meno lirica e religiosa, ma con la stessa ammirazione, uno dei sette sapienti dell’antichità greca, Democrito di Aldera, contemporaneo di Socrate, aveva coniato questa definizione: ánthropos mikròs kósmos, «l’uomo è un piccolo universo» (frammento 34). Questo «microcosmo» contiene in sé gli estremi dell’infinito col suo pensiero e il suo spirito, ma anche della creaturalità fragile e mortale.
Uno dei poeti di Israele, il Salmista, si era fermato stupito davanti al mistero dell’essere umano e aveva esclamato: «Tu, o Dio, hai fatto l’uomo di poco inferiore a un dio, di gloria e di onore lo hai coronato» (Salmo 8,6). In forma meno lirica e religiosa, ma con la stessa ammirazione, uno dei sette sapienti dell’antichità greca, Democrito di Aldera, contemporaneo di Socrate, aveva coniato questa definizione: ánthropos mikròs kósmos, «l’uomo è un piccolo universo» (frammento 34). Questo «microcosmo» contiene in sé gli estremi dell’infinito col suo pensiero e il suo spirito, ma anche della creaturalità fragile e mortale.
Se Hölderlin in uno dei suoi Abbozzi di inni rimandava alla Bibbia interrogandosi: «Was ist der Menschen Leben? Ein Bild der Gottheit» («Che cos’è la vita dell’uomo? L’immagine della divinità»), Goethe nel Faust metteva in bocca a Mefistofele questo crudo ritratto dell’essere umano: «Der Mensch, die kleine Narrenwelt» («L’umanità, il piccolo mondo dei folli»). La cultura moderna ha smitizzato la grandezza della creatura umana, ma ne è rimasta pur sempre affascinata, a partire da Cartesio che, nel Cogito ergo sum, ha posto nel pensiero l’identità trascendente della persona. Intanto, però, la scienza puntava sulla corporeità materiale e caduca di quell’essere dalla spiritualità gloriosa. Nella cultura contemporanea l’atteggiamento è ulteriormente mutato e lo stesso uomo non si è più accontentato di essere un passivo osservatore della sua identità strutturale, ma si è eretto a ricreatore di se stesso modificando la sua natura, sia nelle profondità dell’organismo umano attraverso l’ingegneria genetica, sia negli strati esterni trasformando attraverso la chirurgia estetica il proprio apparire.
Questo nuovo orizzonte è stato percorso con entusiasmo dalla scienza nei primi anni del XX secolo, con le rischiose e fin pericolose avventure dell’eugenetica originaria che assumeva anche finalità ed esiti sociali. Essa ha, poi, lasciato spazio all’attuale genetica dallo statuto metodologico più rigoroso e dalle risultanze certamente rilevanti nei confronti della terapia e della prevenzione delle malattie. La diagnosi molecolare, lo screening e la mappatura del genoma umano, le proteine terapeutiche, la medicina predittiva e rigenerativa, le biotecnologie in genere sono alcune delle componenti importanti di questo nuovo e complesso approccio. Un approccio che non è, comunque, esente da interrogazioni di taglio etico che costituiranno certamente la sostanza del dibattito che ora si aprirà in questa sede prestigiosa. Intervenire sul testo genetico di una persona, per scoprire e liberare il «linguaggio» interno ad esso è positivo, ma è anche delicato perché l’operazione ha confini fluidi e prospettive ignote.
Le frontiere possono essere varcate e generare problemi di tipo etico e sociale, conducendo a possibilità di manipolazione e di prevaricazione nei confronti della stessa identità e autonomia della persona. In questa linea si colloca il transumanesimo, elaborato da Julien Huxley in chiave sociale e trasferito negli anni ’80 del secolo scorso in ambito scientifico con l’apertura di panorami spesso vertiginosi: pensiamo alle nuove tecniche dell’ingegneria genetica, alla nanotecnologia, all’intelligenza artificiale, alla neurofarmacologia, alla crionica, alle interfacce tra mente e macchina, insomma a quanto viene riassunto nell’acronimo inglese Grin (Genetics, Robotics, Information Technology, Nanotechnology). Come affermava Robin Hanson, «il transumanesimo è l’idea secondo cui le nuove tecnologie probabilmente cambieranno il mondo nel prossimo e nel successivo secolo al punto tale che i nostri discendenti non saranno più, per molti aspetti, umani». Saranno appunto «transumani» e persino «post-umani», comunque «post-darwiniani».
È facile intuire quanto siano roventi le questioni etiche di fronte a un simile orizzonte, quanto siano reali i rischi di degenerazione al punto tale che uno dei più netti critici del transumanesimo, il fondatore della Sun Microsystems Bill Joy apocalitticamente ha ipotizzato persino un rischio di autoestinzione del genere umano. Tuttavia quanto sia fremente il desiderio di procedere è verificabile – a livello culturale generale e a titolo esemplificativo – in un ambito meno problematico ma comunque significativo, quello della medicina estetica. Infatti, negli Usa negli ultimi 15 anni il numero delle iniezioni di botulino è aumentato del 4000% e nel solo 2011 la spesa per simili interventi – sempre negli Usa – ha raggiunto la cifra di dieci miliardi di dollari. È evidente che si è di fronte a una «tendenza» inarrestabile e a una costante trasformazione dello stile di vita e dello stesso fenotipo antropologico, almeno esteriore.
Ben più delicati a livello etico sono, invece, le analisi o gli interventi radicali e profondi sull’essere umano. Si potrebbe qui aprire il complesso capitolo delle neuroscienze cognitive che hanno proposto nuove teorie della mente. I cento miliardi di neuroni che compongono il nostro cervello, analoghi alle stelle della Via Lattea, rendono questa realtà umana un altro microcosmo nel quale, però, non si dibattono solo quesiti fisiologici e biologici, ma affiorano molteplici interrogativi filosofici e teologici. Pensiamo solo alla categoria «anima», alla questione della coscienza e della responsabilità morale, alla stessa religiosità, al rapporto mente-corpo, con l’evidente coinvolgimento di altre discipline come l’antropologia, la psicologia, l’etica, il diritto.
Le neuroscienze sono ancora agli albori di un percorso arduo, l’enorme accumulo dei dati scientifici è spesso sottoposto a ermeneutiche diverse e fin contraddittorie, si aprono tensioni con altri linguaggi e prospettive. La relazione tra la teologia e la scienza esige in questo ambito un forte rigore metodologico e la chiarezza delle distinzioni essendo comune la realtà sottoposta ad analisi, cioè il cervello e la mente umana. Come scriveva dal punto di vista teologico Gustave Martelet nel suo saggio Evoluzione e creazione, «nonostante il cervello raggiunga un punto culminante nella finezza e nella complessità delle strutture e del suo funzionamento neurofisiologico, nonostante renda possibile, con la sua sublimità materiale, gli atti dello spirito, questi rimangono di un altro ordine, senza che però lo spirito possa liberarsi di ciò che esso non è (ossia del corpo)».
Concludendo, l’autentico scienziato non è colui che sa offrire tutte le risposte ma colui che sa porre le vere domande, cosciente che il suo compito di verificare e perlustrare la «scena» della realtà, ossia il fenomeno, non esaurisce tutte le dimensioni dell’essere, a partire dal suo «fondamento» che è «meta-fisico». Proprio per questo dev’essere vivo in lui – come nel teologo e nel filosofo o nell’artista per il loro campo specifico – lo sforzo di «custodire castamente la sua frontiera», come ammoniva Schelling per la filosofia e la storia. Si dev’essere consapevoli che la conoscenza umana non è monodica ma polifonica e polimorfa, perché comprende non solo la via scientifica e tecnologica ma anche la via estetica o quella morale, filosofica, spirituale e religiosa. Non per nulla Max Planck nella sua Conoscenza del mondo fisico non esitava ad affermare che «scienza e religione non sono in contrasto, ma hanno bisogno l’una dell’altra per completarsi nella mente di un uomo che pensa seriamente». Si tratta di un dialogo epistemologicamente rispettoso, persino necessario, tant’è vero che Einstein nell’autobiografico Out of My Later Years arrivava a coniare una famosa formula: «La scienza senza la religione è zoppa, la religione senza la scienza è cieca». E alla fine della sua esistenza, nel 1955 in una sorta di testamento, lasciava nel suo Messaggio all’umanità un appello che credo possiamo ancor oggi porre a suggello dello stesso nostro incontro: «Noi scienziati rivolgiamo un appello come esseri umani rivolti ad esseri umani. Ricordate la vostra umanità e dimenticate pure il resto!».
Gianfranco Ravasi