Il Papa per la beatificazione di monsignor Romero. Ha costruito la pace. È il tempo favorevole per una vera riconciliazione nazionale
«Ha costruito la pace con la forza dell’amore» rendendo «testimonianza della fede con la sua vita dedita fino all’estremo»: così Francesco ricorda Óscar Arnulfo Romero Galdámez, beatificato sabato 23 maggio a San Salvador. Pubblichiamo di seguito in una nostra traduzione la lettera papale inviata all’arcivescovo della capitale salvadoregna, monsignor José Luis Escobar Alas, in occasione della cerimonia presieduta dal cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi.
Eccellentissimo Monsignor José Luis Escobar Alas Arcivescovo di San Salvador Presidente della Conferenza Episcopale di El Salvador
Caro Fratello,
La beatificazione di monsignor Óscar Arnulfo Romero Galdámez, che è stato Pastore della sua amata Arcidiocesi, è motivo di grande gioia per i salvadoregni e per noi che beneficiamo dell’esempio dei migliori figli della Chiesa. Monsignor Romero, che ha costruito la pace con la forza dell’amore, ha reso testimonianza della fede con la sua vita dedita fino all’estremo.
Il Signore non abbandona mai il suo popolo nelle difficoltà, e si mostra sempre sollecito verso i suoi bisogni. Egli vede l’oppressione, ode le grida di dolore dei suoi figli, e va in loro aiuto per liberarli dall’oppressione e per condurli in una terra nuova, fertile e spaziosa, dove «scorre latte e miele» (cfr. Es 3, 7-8). Come un giorno scelse Mosè affinché, in suo nome, guidasse il suo popolo, così continua a suscitare Pastori secondo il suo cuore, che pascolino con scienza e prudenza il suo gregge (cfr. Ger 3, 15).
In questo bel Paese centroamericano, bagnato dall’Oceano Pacifico, il Signore ha concesso alla sua Chiesa un Vescovo zelante che, amando Dio e servendo i fratelli, è diventato l’immagine di Cristo Buon Pastore. In tempi di difficile convivenza, monsignor Romero ha saputo guidare, difendere e proteggere il suo gregge, restando fedele al Vangelo e in comunione con tutta la Chiesa. Il suo ministero si è distinto per una particolare attenzione ai più poveri e agli emarginati. E al momento della sua morte, mentre celebrava il Santo Sacrificio dell’amore e della riconciliazione, ha ricevuto la grazia d’identificarsi pienamente con Colui che diede la vita per le sue pecore.
In questo giorno di festa per la Nazione salvadoregna, e anche per i Paesi fratelli latinoamericani, rendiamo grazie a Dio perché ha concesso al Vescovo martire la capacità di vedere e di udire la sofferenza del suo popolo ed ha plasmato il suo cuore affinché, in suo nome, lo orientasse e lo illuminasse, fino a fare del suo agire un esercizio pieno di carità cristiana.
La voce del nuovo Beato continua a risuonare oggi per ricordarci che la Chiesa, convocazione di fratelli attorno al loro Signore, è famiglia di Dio, dove non ci può essere alcuna divisione. La fede in Gesù Cristo, correttamente intesa e assunta fino alle sue ultime conseguenze, genera comunità artefici di pace e di solidarietà. A questo è chiamata oggi la Chiesa a El Salvador, in America e nel mondo intero: a essere ricca di misericordia, a divenire lievito di riconciliazione per la società.
Monsignor Romero c’invita al buon senso e alla riflessione, al rispetto per la vita e alla concordia. È necessario rinunciare alla «violenza della spada, quella dell’odio» e vivere «la violenza dell’amore, quella che lasciò Cristo inchiodato a una croce, quella che si fa ognuno per vincere i propri egoismi e affinché non ci siano disuguaglianze tanto crudeli tra noi». Egli ha saputo vedere e ha sperimentato nella sua stessa carne «l’egoismo che si nasconde in quanti non vogliono cedere ciò che è loro perché raggiunga gli altri». E, con cuore di padre, si è preoccupato delle “maggioranze povere”, chiedendo ai potenti di trasformare «le armi in falci per il lavoro».
Quanti hanno monsignor Romero come amico nella fede, quanti lo invocano come protettore e intercessore, quanti ammirano la sua figura, trovino in lui la forza e il coraggio per costruire il Regno di Dio e impegnarsi per un ordine sociale più equo e degno.
È il momento favorevole per una vera e propria riconciliazione nazionale dinanzi alle sfide che si affrontano oggi. Il Papa partecipa alle sue speranze, si unisce alle sue preghiere, affinché germogli il seme del martirio e si rafforzino negli autentici cammini i figli e le figlie di questa Nazione, che si gloria di portare il nome del divino Salvatore del mondo.
Caro fratello, ti chiedo, per favore, di pregare e di far pregare per me, mentre imparto la Benedizione Apostolica a tutti coloro che si uniscono in modi diversi alla celebrazione del nuovo Beato.
Fraternamente,
Francesco
Dal Vaticano, 23 maggio 2015
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Messaggio dei vescovi. Povero tra i poveri
Uomo di Dio, uomo della Chiesa, difensore dei poveri. Così i presuli di El Salvador definiscono monsignor Romero nel messaggio in occasione della sua beatificazione. La conferenza episcopale, consapevole che gli occhi del mondo sono rivolti al Paese centro-americano, ricorda che a seguito dell’uccisione dell’arcivescovo, vi furono sentite manifestazioni di solidarietà, tra le quali quella di Giovanni Paolo II. Il Pontefice tre anni dopo, il 6 marzo 1983, sostò in preghiera davanti alla tomba del martire. Purtroppo, lamentano i vescovi, il percorso per giungere alla beatificazione è stato accidentato, perché vi sono state manipolazioni della figura e della parola di monsignor Romero.
Il suo motto episcopale «Sentire con la Chiesa», ricordano i presuli, rivela una spiccata sensibilità verso la comunità ecclesiale. Nelle quattro lettere pastorali scritte durante il suo episcopato, il tema della Chiesa ricorre continuamente. La prima di esse, del 1977, si intitola proprio La Chiesa della Pasqua. Nella sua parte centrale, l’arcivescovo spiegava ampiamente che la Chiesa esiste per annunciare e rendere presente il mistero della Pasqua. Delineava poi il modello di Chiesa che desiderava costruire nel Salvador, in completa sintonia con il concilio Vaticano II, come è stato interpretato dai documenti di Medellín.
Il messaggio della conferenza episcopale sottolinea inoltre come la parola «povero» per monsignor Romero non avesse una connotazione ideologica ma profondamente evangelica. L’arcivescovo fece sua l’opzione preferenziale per i poveri che i vescovi latinoamericani proclamarono a Puebla nel 1979. A questo proposito, si sottolinea come il pensiero del nuovo beato raggiunse la sua più alta espressione proprio nell’analisi del documento di Medellín sulla povertà come peccato, come spiritualità e come impegno. Da questo appare l’evidente sintonia con ciò che oggi insegna Papa Francesco, il quale sogna «una Chiesa povera per i poveri».
I vescovi concludono affermando che monsignor Romero incarna il profilo del pastore delineato dall’esortazione apostolica che raccoglie i frutti della decime assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi del 2001 sul tema «Il vescovo servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo».
Anche i presuli argentini hanno inviato una lettera alla Conferenza episcopale di El Salvador, nella quale esprimono la loro gioia per la beatificazione del nuovo martire. Il cardinale Mario Aurelio Poli, arcivescovo di Buenos Aires, sabato mattina, 23 maggio, ha presieduto la messa di ringraziamento, nella cattedrale della capitale.
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A San Salvador il rito presieduto dal cardinale Amato.
Oscar Romero è «luce delle nazioni e sale della terra. Se i suoi persecutori sono spariti nell’ombra dell’oblio e della morte, la memoria di Romero invece continua a essere viva e a dare conforto a tutti i derelitti e gli emarginati della terra». Attingendo alle letture del giorno, il cardinale Amato ha scelto quest’immagine per descrivere l’attualità del messaggio dell’arcivescovo martire, beatificato sabato 23 nella capitale salvadoregna, alla presenza di centinaia di migliaia di fedeli.
All’omelia il porporato ha ricordato — con le parole di Francesco contenute nella lettera apostolica scritta come di consueto in occasione delle cerimonie di beatificazioni — che l’arcivescovo Romero amò i suoi fedeli e i suoi sacerdoti fino al martirio, offrendo la sua vita come offerta di riconciliazione e di pace. Commentando la parola di Dio, il cardinale ha quindi fatto notare come, secondo il libro della Sapienza, dopo la tragica morte le anime dei giusti sono nelle mani di Dio e nessun tormento li toccherà. Sono, infatti, nella pace e nel giorno del giudizio risplenderanno come scintille nella stoppia, governeranno le nazioni e avranno potere sui popoli.
In particolare il celebrante ha richiamato la preghiera quotidiana del nuovo beato, che era la stessa rivolta da Gesù al Padre, perché custodisse i suoi discepoli, come riferisce l’evangelista Giovanni. Negli ultimi difficili anni della sua esistenza, fino al 24 marzo 1980, «quando una pallottola traditrice lo colpì a morte durante la celebrazione eucaristica e il suo sangue si mescolò al sangue redentore di Cristo», questa preghiera lo accompagnò ogni giorno.
Chi era Romero? Come poté affrontare il martirio? Rispondendo a questi interrogativi, il cardinale ha sottolineato come egli fosse «un sacerdote buono e un vescovo saggio». Ma soprattutto «un uomo virtuoso». Infatti, «amava Gesù, lo adorava nell’Eucaristia, amava la Chiesa, venerava la beata Vergine Maria, amava il suo popolo». Proprio per questo, il martirio «non fu una improvvisazione, ma ebbe una lunga preparazione. Romero, infatti, era, come Abramo, un uomo di fede profonda e di incrollabile speranza». Quando si trovava a Roma da giovane seminarista, poco prima dell’ordinazione sacerdotale, scriveva nei suoi appunti: «Quest’anno farò la mia grande consegna a Dio! Dio mio, aiutami, preparami. Tu sei tutto, io sono nulla e, tuttavia, il tuo amore vuole che io sia molto. Coraggio! Con il tuo tutto e con il mio nulla faremo molto».
Un avvenimento sconvolse il «pastore mite e quasi timido» che era Romero: l’uccisione di padre Rutilio Grande, sacerdote gesuita salvadoregno, che «aveva lasciato l’insegnamento universitario per farsi parroco dei campesinos, oppressi ed emarginati». Questa uccisione «toccò il cuore dell’arcivescovo, che pianse il suo sacerdote come poteva fare una madre con il proprio figlio». Il porporato ha ricordato che Romero si recò subito ad Aguilares «per la messa di suffragio, passando la notte piangendo, vegliando e pregando per le tre vittime innocenti, per padre Rutilio e i due contadini che lo accompagnavano». Da quel giorno, il suo linguaggio «diventò più esplicito nel difendere il popolo oppresso e i sacerdoti perseguitati, incurante delle minacce che quotidianamente riceveva». L’arcivescovo fece riferimento a un dono dello Spirito Santo, che «gli concesse una speciale fortezza pastorale, quasi in contrasto con il suo temperamento prudente e misurato» . A tale proposito, sono rivelatrici le sue parole: «Ritenni un dovere — egli disse — collocarmi decisamente alla difesa della mia Chiesa e a lato del mio popolo tanto oppresso e vessato».
E lo fece senza esitare, con parole che non erano «un incitamento all’odio e alla vendetta, ma un’accorata esortazione di un padre ai suoi figli divisi, che venivano invitati all'amore, al perdono e alla concordia». Del resto la sua opzione per i poveri «non era ideologica ma evangelica. La sua carità si estendeva anche ai persecutori ai quali predicava la conversione al bene e ai quali assicurava il perdono, nonostante tutto». Era abituato a essere misericordioso, ha aggiunto il cardinale, e la «sua generosità nel donare a chi chiedeva era — a detta dei testimoni — munifica, totale, sovrabbondante. A chi domandava, dava».
D’altronde, la carità pastorale «gli infondeva una fortezza straordinaria». Un giorno, ha spiegato il porporato, a un sacerdote «raccontò che era continuamente minacciato di morte e che nei giornali nazionali c’erano critiche quotidiane contro di lui», ma ciò non lo scoraggiava, anzi si sentiva più spinto ad agire senza nutrire rancore. Per questo Romero non è un «simbolo di divisione, ma di pace, di concordia, di fratellanza. Ringraziamo il Signore — ha concluso — per questo suo servo fedele, che alla Chiesa ha donato la sua santità e all’umanità la sua bontà e la sua mitezza».
L'Osservatore Romano
All’omelia il porporato ha ricordato — con le parole di Francesco contenute nella lettera apostolica scritta come di consueto in occasione delle cerimonie di beatificazioni — che l’arcivescovo Romero amò i suoi fedeli e i suoi sacerdoti fino al martirio, offrendo la sua vita come offerta di riconciliazione e di pace. Commentando la parola di Dio, il cardinale ha quindi fatto notare come, secondo il libro della Sapienza, dopo la tragica morte le anime dei giusti sono nelle mani di Dio e nessun tormento li toccherà. Sono, infatti, nella pace e nel giorno del giudizio risplenderanno come scintille nella stoppia, governeranno le nazioni e avranno potere sui popoli.
In particolare il celebrante ha richiamato la preghiera quotidiana del nuovo beato, che era la stessa rivolta da Gesù al Padre, perché custodisse i suoi discepoli, come riferisce l’evangelista Giovanni. Negli ultimi difficili anni della sua esistenza, fino al 24 marzo 1980, «quando una pallottola traditrice lo colpì a morte durante la celebrazione eucaristica e il suo sangue si mescolò al sangue redentore di Cristo», questa preghiera lo accompagnò ogni giorno.
Chi era Romero? Come poté affrontare il martirio? Rispondendo a questi interrogativi, il cardinale ha sottolineato come egli fosse «un sacerdote buono e un vescovo saggio». Ma soprattutto «un uomo virtuoso». Infatti, «amava Gesù, lo adorava nell’Eucaristia, amava la Chiesa, venerava la beata Vergine Maria, amava il suo popolo». Proprio per questo, il martirio «non fu una improvvisazione, ma ebbe una lunga preparazione. Romero, infatti, era, come Abramo, un uomo di fede profonda e di incrollabile speranza». Quando si trovava a Roma da giovane seminarista, poco prima dell’ordinazione sacerdotale, scriveva nei suoi appunti: «Quest’anno farò la mia grande consegna a Dio! Dio mio, aiutami, preparami. Tu sei tutto, io sono nulla e, tuttavia, il tuo amore vuole che io sia molto. Coraggio! Con il tuo tutto e con il mio nulla faremo molto».
Un avvenimento sconvolse il «pastore mite e quasi timido» che era Romero: l’uccisione di padre Rutilio Grande, sacerdote gesuita salvadoregno, che «aveva lasciato l’insegnamento universitario per farsi parroco dei campesinos, oppressi ed emarginati». Questa uccisione «toccò il cuore dell’arcivescovo, che pianse il suo sacerdote come poteva fare una madre con il proprio figlio». Il porporato ha ricordato che Romero si recò subito ad Aguilares «per la messa di suffragio, passando la notte piangendo, vegliando e pregando per le tre vittime innocenti, per padre Rutilio e i due contadini che lo accompagnavano». Da quel giorno, il suo linguaggio «diventò più esplicito nel difendere il popolo oppresso e i sacerdoti perseguitati, incurante delle minacce che quotidianamente riceveva». L’arcivescovo fece riferimento a un dono dello Spirito Santo, che «gli concesse una speciale fortezza pastorale, quasi in contrasto con il suo temperamento prudente e misurato» . A tale proposito, sono rivelatrici le sue parole: «Ritenni un dovere — egli disse — collocarmi decisamente alla difesa della mia Chiesa e a lato del mio popolo tanto oppresso e vessato».
E lo fece senza esitare, con parole che non erano «un incitamento all’odio e alla vendetta, ma un’accorata esortazione di un padre ai suoi figli divisi, che venivano invitati all'amore, al perdono e alla concordia». Del resto la sua opzione per i poveri «non era ideologica ma evangelica. La sua carità si estendeva anche ai persecutori ai quali predicava la conversione al bene e ai quali assicurava il perdono, nonostante tutto». Era abituato a essere misericordioso, ha aggiunto il cardinale, e la «sua generosità nel donare a chi chiedeva era — a detta dei testimoni — munifica, totale, sovrabbondante. A chi domandava, dava».
D’altronde, la carità pastorale «gli infondeva una fortezza straordinaria». Un giorno, ha spiegato il porporato, a un sacerdote «raccontò che era continuamente minacciato di morte e che nei giornali nazionali c’erano critiche quotidiane contro di lui», ma ciò non lo scoraggiava, anzi si sentiva più spinto ad agire senza nutrire rancore. Per questo Romero non è un «simbolo di divisione, ma di pace, di concordia, di fratellanza. Ringraziamo il Signore — ha concluso — per questo suo servo fedele, che alla Chiesa ha donato la sua santità e all’umanità la sua bontà e la sua mitezza».
L'Osservatore Romano