di Andreas Hofer
Il gender è l’ideologia perfetta per la macchina del consumo: un corpo come feticcio, infinitamente variabile, smaterializzato e sottomesso alle fluttuazioni delle mode. E dietro questa illusoria promessa di liberazione si profila la fine della singolarità individuale, di per sé irripetibile.
Un corpo aperto a ogni possibilità: è questo lo scenario invocato da esponenti del genderismo radicale come Judith Butler e Donna Haraway. Seguendo Monique Wittig, Judith Butler sostiene la necessità di rovesciare la «restrizione binaria del sesso» e distruggere il «sistema di eterosessualità obbligatoria». È la via maestra attraverso la quale si «inaugurerà un vero umanesimo della “persona” liberata dai ceppi del sesso».
E con Donna Haraway, che porta alle estreme conseguenze la frattura tra natura e cultura, il gender sconfina nel postumano. Nel suo Manifesto cyborg, dopo aver plaudito alla possibilità del miscuglio di carne e tecnologia, arriva ad annunciare una nuova creazione: il cyborg, «creatura di un mondo post-genere». Si tratta, in altri termini, di denaturalizzare, anzi di distruggere la categoria stessa del sesso.
Il gender sembra così destinato a ripercorrere il medesimo itinerario della contestazione sessantottina. Pochi amano ricordare le lezioni della storia, meno che mai la (ormai avvizzita) gioventù libertaria che un tempo ha alzato la bandiera dell’anticapitalismo solo per mettersi al servizio di un progetto di sovversione dell’ordine morale tradizionale (la orwelliana «common decency», irrinunciabile pilastro di una società giusta). E così il relativismo veicolato dalla contestazione ha finito per aggredire quel patrimonio di valori – riassumibile nell’espressione di «cultura del dono» – che fungeva da argine alla penetrazione della mercificazione in tutti i campi della vita sociale.
Anche l’idea di identità fluida promossa dal genderismo si iscrive con ogni evidenza in un orientamento diffuso delle società ipermoderne: la tendenza ad adottare anche per il corpo quella «legge della variabilità» che ab immemorabili guida e caratterizza il funzionamento della moda.
Osserva Vanni Codeluppi, acuto indagatore delle logiche consumistiche, che nella società contemporanea anche il corpo, entità biologica apparentemente irriducibile a una logica di mercificazione, è divenuto luogo di scambio dei flussi della comunicazione e del consumo.
È un processo che si innesca proprio a seguito della delegittimazione dei tradizionali segni di status, la cui perdita di significatività contribuisce a rendere il corpo un basilare mezzo di comunicazione dell’identità individuale. E questo avviene associando al corpo non più qualità personali, sempre meno rilevanti in una civiltà del consumo dove appare di gran lunga più incisiva la capacità del singolo di scegliere tra i diversi beni offerti dal mercato.
Si tratta di una manifestazione dell’attuale «potere della marca». Le marche aziendali costituiscono oggi un serbatoio di significati a cui l’individuo può attingere per costituire la propria identità. Nella confusione generalizzata di un mondo sociale come quello attuale, sconnesso e disorganico, privo di stabili riferimenti, le marche paradossalmente si presentano e vengono percepite come personalità più nette e definite. Questo avviene grazie all’attività di comunicazione delle aziende: in una società della discontinuità, dove tutto scorre e scompare velocemente, è la marca, facendosi vedere più spesso per via dei meccanismi della pubblicità, ad apparire come una realtà relativamente più stabile delle altre.
Certamente è una stabilità di corto respiro: anche la personalità della marca è destinata infatti a mutare per effetto dei cicli di variazione delle mode. Ma nonostante tutto essa mantiene pur sempre un sufficiente potere di attrazione: quel che basta per catalizzare l’uomo sconnesso di oggi, invitandolo al gioco di costruzione delle identità consentito dal flusso delle marche.
Il corpo assume così le parvenze di un corpo-packaging: continuamente soggetto a manipolazioni di ogni sorta, il corpo diventa un feticcio pienamente investito dalla tendenza a dotarsi dei segni del consumo e a esibire su di sé i materiali provenienti dalle differenti merci.
È lo stato del «corpo flusso»: un corpo smaterializzato e nomadico, in stato di variazione permanente, senza confini e identità fisse. E che si confonde col mondo esterno, diventando un continuo «passaggio». Il modello del corpo flusso mette in questione lo stesso principio di individuazione. Il logo si sostituisce al logos: è l’oscuramento dell’individualità. Sembra così avverarsi la profezia di Nietzsche: «L’individuo stesso è un errore».
Non deve essere un caso la moltiplicazione di voci come quella di Wolfgang Sofsky, pronte ad ergersi «in difesa del privato». Luigi Zoja deplora invece la «morte del prossimo», con la sua presenza viva e tangibile. Col tramonto della capacità di definirsi come esseri singoli anche l’individuo sembra sul punto di dissolversi. Michel Maffesoli, cantore del risveglio di Dioniso, annuncia la sua fine: l’individuo segna il passo di fronte all’avanzata del collettivo. È il tempo delle tribù e delle «comunità emozionali», con le loro promesse di liberazione dalle strettoie dell’io.
Il corpo fluido e infinitamente manipolato si confonde con un laboratorio in cui ogni potenzialità naturale è sovrastata dalla possibilità tecnica. È una parabola che estremizza il progetto moderno di autodeterminazione. È il destino della cultura moderna, diceva Walter Benjamin, quello di essere condannata a un incessante fluire, di essere sottoposta a un mutamento reiterato e costante.
Non ci avevano detto che la contropartita sarebbe stata l’abolizione dell’uomo – come aveva intuito tempo addietro, in un aureo libretto, il genio di C. S. Lewis. Decisamente un costo troppo altro. Il gender, ha detto papa Bergoglio, è una manifestazione di quella «cultura dello scarto» che disconosce l’ordine della creazione. E come si può amare l’ordine senza odiare il caos? Occorre dunque fronteggiare il gender con coraggio e inventiva, come la coscienza saprà indicarci. E non per una strana ossessione confessionale. Bisogna impegnarsi perché «l’amore ama l’ineffabilità dell’individuo». (Nicolás Gómez Dávila)
(Apparso, con lievi variazioni, su La Croce quotidiano, 22 maggio 2015)