sabato 23 maggio 2015
Mamma misericordia
Suor Irene Stefani missionaria in Kenya.
(Gottardo Pasqualetti, postulatore) Per la prima volta in Kenya viene celebrata una beatificazione. È quella di suorIrene Stefani, che viene elevata agli onori degli altari sabato 23 maggio a Nyeri, dal cardinale Polycarp Pengo, arcivescovo di Dar-es-Salaam e presidente del simposio delle Conferenze episcopali di Africa e Madagascar, in rappresentanza di Papa Francesco.
La donna, conosciuta per aver curato i feriti degli ospedali militari durante la guerra, era nata il 22 agosto 1891 ad Anfo, Brescia. Battezzata con il nome di Aurelia Mercede, fu educata a una solida spiritualità. Fin da giovane dimostrò spiccato impegno di vita cristiana. Guidò le sorelle rimaste prive della mamma, si dedicò all’insegnamento del catechismo e della preghiera. Nel 1911 entrò nell’istituto delle suore missionarie della Consolata, da poco fondato a Torino dal beato Giuseppe Allamano, assumendo il nome di suor Irene. Dopo la prima professione religiosa, fu destinata in Kenya. Vi rimase, senza mai ritornare in patria, fino alla morte, il 31 dicembre 1930.
La prima guerra mondiale ebbe sanguinosi risvolti anche in Africa, per gli interessi coloniali dell’Inghilterra in Kenya e della Germania in Tanzania. Si ricorse al reclutamento forzato di oltre trentamila indigeni, ingaggiati nel Carriers corp per il trasporto a spalle del materiale bellico attraverso il groviglio delle foreste e delle steppe. Sottoposti a immani fatiche, molti morivano o si trascinavano negli improvvisati ospedali militari, dove lo scarso cibo, la carenza di medicinali, le infezioni, le epidemie, il servizio di improvvisati infermieri, favorivano il contagio e la morte. Alla loro assistenza si dedicò suor Irene nei nosocomi militari di Voi in Kenya e di Kilwa Kiwinje, Lindi, Dar-es-Salaam, in Tanzania. Nei capannoni dove si ammonticchiavano migliaia di uomini dalle piaghe maleodoranti, suor Irene, ancora giovanissima, rivelò un indomabile coraggio e grande carità, sempre con un incantevole sorriso. Si dedicò ai più gravi. Imboccava i pazzoidi anche se le risputavano il cibo in faccia; liberava i piagati dai vermi delle cancrene; correva in cerca di acqua per dissetare i febbricitanti, cedendo anche la sua razione; si interponeva per evitare le staffilate a chi veniva castigato. E l’ambiente cambiò. Ne rimasero stupiti i medici e gli ufficiali. Uno di essi ebbe a dire: «Quella creatura non è una donna, è un angelo». Ne erano ammirati anche gli inservienti musulmani e gli stessi carriers. Uno di essi, a distanza di anni, nel 1984, la riconobbe in un’immaginetta. Mostrando i polsi dove erano ancora visibili le cicatrici, disse: «Fu proprio lei a curarmi le lacerazioni procurate dalle catene».
Terminata la guerra, tornò in Kenya, dimostrando le stesse attenzioni. Soprattutto nella missione di Gikondi, dove restò per dieci anni dal 1920 fino alla morte: di fronte alle necessità degli altri niente la tratteneva. «Scattante come una molla — ricordano gli africani — andava dappertutto anche lontanissimo, velocemente, da tutti, pagani e cristiani, sempre quasi correndo» su e giù per le colline. Si dedicava agli altri con dedizione tutta materna, con modi gentili, rispetto, delicatezza, dolcezza e affabilità, senza fare distinzioni. Questo colpì gli africani, che la soprannominarono nyaatha, «mamma tutta misericordia e amore». Molta gente la conosceva solo con questo nome o con altre espressioni come «buona mamma che vuole bene a tutti», «segretaria dei poveri», «angelo di carità».
Dopo le faticose ore di scuola, in un ambiente ancora refrattario all’insegnamento, correva per incontrare la gente, invitare al catechismo, curare i malati, soccorrere le partorienti, salvare i bambini abbandonati. Seguiva con amore i suoi “figli” emigrati a Nairobi o Mombasa, intessendo con loro una nutrita corrispondenza. Riservava questo ministero epistolare alle ore della notte.
Nel contatto con le persone che incontrava trovava sempre il modo per dire una buona parola, invitare alla fede, a migliorare il comportamento. «Parlare di Dio le era naturale come il respiro» e lo faceva con gioiosa convinzione, incurante dell’indifferenza e delle difficoltà. Correva al capezzale dei malati per dare loro con le medicine il dono più grande: il battesimo. Si ritiene che ne abbia battezzati ben quattromila. Significativo quello che avvenne poco prima di morire.
Con incondizionata dedizione si prodigò nelle attività pastorali: catechismo, visite ai villaggi, presenza accanto a malati e moribondi. Singolari furono i contatti con comunità e persone di chiese cristiane, ma non cattoliche. Per questa sua attività, gli africani che la conobbero la ricordarono come «la nostra suora». Ciò che infatti la differenzia da altre persone che pure si sono spese con generosità e amore grande per gli altri e per l’annuncio del vangelo, è il fatto che suor Irene viene considerata la «loro» suora perché l’hanno vista come «una di loro» per il rispetto e l’apprezzamento di tutto quello che fa parte del loro mondo culturale, dei loro usi e costumi, senza pregiudizi. Ed è sorprendente come suor Irene si esprima “alla kikuyu” quando scrive ai cristiani emigrati in altre zone del Paese. Sfrutta frasi idiomatiche tipiche, proverbi, similitudini di un’altra lingua. Anche per questo l’hanno sentita una di loro.
Suor Irene concluse la sua vita a 39 anni, offrendola al Signore per il bene del suo istituto e della Chiesa di Nyeri. La causa che provocò la sua morte sintetizza tutto: volle andare al capezzale del maestro Julius Ngare, malato di peste. Egli l’aveva offesa, mettendo in cattiva luce il suo insegnamento nella scuola per prenderne il posto. Suor Irene si fermò lungamente con lui, lo abbracciò, ne respirò l’alito che probabilmente la infettò. Subito il suo stato di salute peggiorò fino a portarla alla morte. E gli africani commentarono: «L’ha uccisa l’amore».
L'Osservatore Romano