sabato 27 giugno 2015

Nell'incontro non c'è maledizione



di Luigino Bruni

Non è raro che i poveri vengano privati anche della dignità di interrogarci sul perché della loro povertà. Li convinciamo che l’errore non sta nella nostra mancanza di risposte, ma nelle loro domande sbagliate, impertinenti, superbe, peccaminose. L’ideologia della classe dominante persuade le vittime che chiedere ragioni sulla loro miseria e sulla ricchezza degli altri è illecito, immorale, magari irreligioso. Quando i poveri, o chi dà loro voce, smettono di porre a loro stessi, agli altri e a Dio le domande più vere e radicali, che nascono dalla loro condizione oggettiva e concreta, e si tacciono o ne formulano di più gentili e innocue, la loro schiavitù inizia a diventare irreversibile. Si può sempre sperare di liberare noi stessi o qualcuno da una "trappola di povertà" materiale, morale, relazionale, spirituale, finché continuiamo a chiederci e a chiedere: "perché?".


Dopo che Elohim da dentro la tempesta ha magnificamente descritto animali e mostri marini, zittendolo con lo spettacolo della sua onniscienza e onnipotenza, «Giobbe prese a dire al Signore: "Comprendo che tu puoi tutto e che nessun progetto per te è impossibile. Chi è colui che, da ignorante, può oscurare il tuo piano? Davvero ho esposto cose che non capisco, cose troppo meravigliose per me, che non comprendo"» (Giobbe 42,1-4).


Come interpretare queste parole? Dio non gli ha detto nulla sul perché dell’ingiusta sofferenza degli innocenti e sul benessere sbagliato dei cattivi, che erano le vere domande cui Giobbe attendeva risposte durante il suo incredibile processo a Dio. Cercava una nuova giustizia ed Elohim gli ha risposto con un discorso astratto, che somigliava troppo a quelli dei suoi "amici" che lo avevano umiliato e addolorato in tutta la prima parte del suo libro. Come è possibile, allora, al termine della sua infinita attesa, Giobbe senta appagata la sua fame e sete di giustizia dalle non-risposte di Elohim, e addirittura ammetta di aver fatto le domande sbagliate («ho esposto cose che non capisco»)? No, questo Giobbe non può essere quello che abbiamo conosciuto lottando come un leone nella sua querela a Dio. Come e dove possiamo trovare una coerenza tra il primo e l’ultimo Giobbe?
Ogni tanto nella vita degli scrittori succede qualcosa di sublime, quando il personaggio del libro diventa più grande dell’autore che gli sta dando vita. Gli sfugge di mano, inizia a vivere una sua vita propria, a crescere fino ad arrivare a pronunciare parole e a scoprire verità che lo stesso autore non pensava né conosceva. L’autore diventa allievo del suo personaggio. Questa vera e propria estasi si verifica in ogni autentica opera letteraria - e se uno scrittore non ha mai fatto questa esperienza si è semplicemente fermato nell’anticamera della letteratura -, ma negli autori veramente grandi la trascendenza dello scrittore nei suoi personaggi produce i capolavori.


È però necessario che l’autore abbia la forza spirituale di morire molte volte per rinascere ogni volta in modo diverso, e di resistere a lungo senza cedere alla tentazione di possedere e controllare le sue "creature" impedendo loro di crescere nella loro libertà e diversità. Sono queste esperienze letterarie (e artistiche in generale) che rendono la vera letteratura e l’arte non fiction ma scoperta del reale più vero. Se non fosse così, i romanzi e i racconti sarebbero solo proiezioni dei loro autori, scrittura di ciò che esisteva già. È invece grazie a questa capacità trascendente degli scrittori - che è soprattutto charis, dono - che Edmond Dantes, fra’ Cristoforo, Zosima, Pietro Spina, Katjuša Maslova, sono più reali e veri delle persone che incontriamo sotto casa, e ci amano come e più dei nostri amici, delle nostre madri, dei nostri figli. Gli scrittori fanno più bello il mondo popolandolo di creature vere più grandi di loro.


Credo che a quel lontano autore senza nome del Libro di Giobbe sia accaduto qualcosa del genere. E così è nato il capolavoro, forse il più grande di tutta la Bibbia. Quando l’antico scrittore di questo libro - o magari, non possiamo saperlo, una comunità di saggi - ha iniziato il suo poema, non poteva sapere che Giobbe sarebbe arrivato a rivolgere a Dio e alla vita quelle domande così radicali e rivoluzionarie. Giobbe è cresciuto immensamente lungo il suo dramma, e la grandezza morale del suo grido ha superato di gran lunga la teologia e la saggezza del suo autore. Così quello scrittore, dopo aver seguito Giobbe sulle cime delle sue vette più alte, dopo averlo fatto parlare anche quando diceva cose e poneva domande che lui stesso non capiva né avrebbe mai osato pensare e scrivere, ha forse fatto l’esperienza reale di non avere più a disposizione un Dio (una teologia) capace di dialogare veramente con quel Giobbe. Elohim non era cresciuto durante il suo poema - anche perché la crescita di Dio su questa terra può avvenire solo assieme alla crescita degli uomini. E così quando si trovò a dover dare finalmente la parola a Dio, sentì l’enorme scarto tra un Giobbe cresciuto durante tutto il libro e un Dio rimasto fermo dentro di lui. Per questa ragione è plausibile e affascinante pensare - insieme ad alcuni esegeti - che la prima stesura del libro terminasse nel capitolo 31 («Sono finite le parole di Giobbe»: 40b), senza Elihu e senza nessuna risposta di Elohim.
Ma possiamo provare ad attribuire allo stesso autore anche questi ultimi capitoli difficili e scomodi, osando un’altra interpretazione, la cui chiave di lettura è contenuta nel Prologo del libro (1-2), nella scommessa tra il Satan e Elohim sulla natura della giustizia di Giobbe. Il libro si era aperto con il Satan che sfidava Dio a mettere alla prova Giobbe per verificare se fosse egli giusto per interesse o per puro amore gratuito per Dio, se quindi di fronte alla distruzione di tutti i suoi beni e della sua pelle avrebbe smesso di benedire Dio, maledicendolo.
Giobbe inizia la sua prova, resiste fino alla fine aggrappato a una sola speranza: poter vedere comparire Dio sul banco degli imputati. Alla fine del suo cantico e della sua prova, entra in scena Dio: non si siede però nell’aula del tribunale, non risponde alle domande di Giobbe e lo ammutolisce con la sua onnipotenza.


È forse in questo momento che Giobbe arriva al culmine della sua prova. In nome del suo Dio-del-non-ancora atteso e che non era comparso Giobbe poteva condannare e maledire quel Dio che era arrivato. E il Satan avrebbe vinto la sfida. Giobbe invece pur non trovando il Dio che attendeva e sperava, continuò a benedire Elohim: «Ascoltami e io parlerò, io t’interrogherò e tu mi istruirai! Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto. Perciò mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere» (42,5-6).
Giobbe supera l’ultima tentazione e Dio vince la sua scommessa contro Satan. Non maledice il Dio che non ha risposto alle sue domande, che non gli si è mostrato capace di prendere veramente sul serio i perché più difficili e più veri dell’uomo e dei poveri innocenti. Giobbe "vede" finalmente Dio, ma in realtà rivede il Dio che già aveva conosciuto in gioventù, non vedequel volto nuovo e diverso che aveva anelato. Il Goel, il mallevatore che aveva disperatamente pregato non è arrivato, Dio non ha mostrato un altro volto ancora ignoto.


Ma ora Giobbe non si ribella più e si placa. Finché era ancora nel tempo dell’attesa, quando si poteva e doveva chiedere tutto nella speranza che arrivasse un Dio diverso, avrebbe potuto protestare e imprecare senza maledire Dio. E lo fa fatto. Ora che il tempo dell’attesa è finito e Dio ha parlato, se Giobbe avesse continuato la sua protesta, questa sarebbe diventata necessariamente bestemmia. Soltanto un Dio che non si era ancora rilevato poteva accogliere le urla dissacratorie di Giobbe, non il Dio che è alla fine arrivato. Se Giobbe avesse ripetuto al Dio-arrivato le denunce e le accuse che aveva rivolto al Dio-atteso, queste sarebbero state solo maledizione.
Giobbe parlava e gridava a un volto di Dio oltre Elohim, e non essendo arrivato si è trovato di fronte a una sola drammatica scelta: maledizione o resa incondizionata. E scelse la resa.

Ci sono nella vita dei momenti decisivi quando il bivio "maledizione-resa" si presenta in tutta la sua drammaticità. Per molti la morte arriva sotto la forma di questo bivio drammatico. Quando dopo aver lottato a lungo, impiegato tutte le energie proprie, della famiglia, della medicina, giunge finalmente il giorno in cui capiamo che ci resta ancora un’ultima scelta tra due sole possibilità: quella suggerita dalla moglie di Giobbe («Maledici Dio, poi crepa»: 2,9) o la resa docile. E anche in questa ultima scelta è molto probabile che l’angelo di Dio che viene non è quello che abbiamo atteso, che la vita che sta finendo non ha risposto alle grandi domande che le abbiamo fatto dal giorno dei primi perché dell’infanzia. E anche in quell’ora dovremo decidere se morire benedicenti e miti o maledicenti e arrabbiati.
Ma il bivio tra la resa e la maledizione ci si pone puntualmente di fronte anche nelle relazioni importanti della nostra vita, quando davanti alla delusione per un figlio o un amico che ci dà risposte inferiori a quelle che ci aspettavamo e che doveva darci, invece di maledirlo e perderlo scegliamo di arrenderci e benedirlo così come ci appare, accogliendo quella delusione per salvare la fede-fiducia in quel rapporto. E magari da questo momento il nostro "personaggio" può iniziare a sorprenderci.
Giacobbe (Jacob) ricevette la benedizione dall’angelo di Elohim insieme alla ferita all’anca, nel grande combattimento nel letto dello Yabboq (Genesi 32). Giobbe (Job), nel guado del suo fiume di sofferenza, viene ferito da Elohim ma è lui a benedirlo. Il Dio di Giacobbe ferisce e benedice, quello di Giobbe ferisce e viene benedetto. E grazie a Giobbe, e all’autore del suo libro, la terra e cielo si rincontrano in una nuova reciprocità, dove anche Elohim ci si può rivelare bisognoso della nostra benedizione.