lunedì 29 giugno 2015
Salvatore Martinez: La vera LETIZIA nasce dal pianto
La nostra esistenza umana include, sempre, una duplice condizione: la conoscenza del patire e, al contempo, un inesauribile anelito di felicità. Niente più che la sofferenza appartiene al mistero dell’uomo, perché la sofferenza è la via che più di altre «svela pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione» (Gaudium et spes, n. 22).
Scriveva Georges Bernanos in La gioia: «Chi cerca la verità dell’uomo deve farsi padrone del suo dolore». Impresa assai difficile, perché alla scuola della sofferenza l’uomo è e sempre rimarrà un apprendista. Eppure nessuno conosce veramente se stesso, né saprà mai, fino in fondo, farsi prossimo, finché non ha sofferto. Niente, più del dolore, umanizza e sviluppa le facoltà dello spirito, risveglia l’uomo dal sonno spirituale in cui spesso si confina. Per questo, già nell’antichità greca, si diceva: «Pathémata - mathémata», cioè: «I dolori sono insegnamenti». E ancora: «La saggezza si conquista attraverso la sofferenza» (Eschilo, nella tragedia Agamennone). È errato pensare che la malattia sia solo espressione dell’imperfezione dell’uomo; essa è, invece, la sua migliore forma di perfezionamento.
C’è, poi, una permanente memoria del vivere nel dolore che soffriamo o a cui assistiamo. Una memoria che è fatta di storie, di sogni infranti, di ricordi collettivi, di piaceri, di paure, di persone care, di miserie, di immagini, di incontri. Nella sofferenza c’è tutta la grammatica dell’ars vivendi, quella drammatica e attraente liturgia di cui ogni uomo è, in fondo, al contempo, «sacerdote, altare e offerta». È un luogo sacro la sofferenza; di quelli che bisognerebbe calpestare a piedi scalzi, con timore e stupore. Un luogo sacro che, finanche separato da noi, a tutti chiede di essere ospitato, dinanzi al quale nessuno può dirsi inospitale. La sofferenza denota il nostro senso di attaccamento alla vita, il bisogno dell’altro, l’insopprimibile anelito di felicità che è nell’uomo ed è già anticipo di eternità.
Certo, nessuno, vedendo una malattia la preferisce o la desidera; ma non per questo può ignorarla, giudicarla o rigettarla come una maledizione da cui tenersi lontano. Chi elude la propria responsabilità dinanzi al male, proprio o altrui, è il vero inguaribile malato. La malattia è il volto contratto della faccia del mondo.
Come le rughe, che avanzano con gli anni e alterano la fisionomia di un volto, così la faccia del mondo è continuamente sfregiata dalle trame del male che si muove nella storia. Parafrasando un’espressione di André Frossard, che è anche il titolo di un suo celebre libro, dopo la conversione al cristianesimo – Dio esiste, io l’ho incontrato – noi vogliamo affermare: «Il male esiste, noi lo incontriamo ogni giorno». Scandalo è il male, ma ancora più scandalosa è una vita incurante dei mali che portano l’uomo, l’umanità a soffrire senza speranza, a soffrire nella sola prospettiva della morte.
Scrisse, un giorno, l’americano Mark Twain: «Il dolore può bastare a se stesso, ma per apprezzare a fondo una gioia bisogna avere qualcuno con cui condividerla» (Seguendo l’Equatore). Gesù non sottovalutò la difficoltà del nostro essere uomini attraversati dalle sofferenze. Ne fece una delle sue ultime attenzioni nelle ore più buie, ultime, della sua missione terrena: «In verità, in verità voi dico: voi piangerete e vi rattristerete… ma la vostra afflizione si trasformerà in gioia… nessuno vi potrà togliere la vostra gioia» (Gv 16, 20.23a). La gioia vera, come la croce, è lotta: dobbiamo imparare a conquistarla e ancor più a non smarrirla. Cristo ha sconfitto la morte per regalarci la gioia; noi dobbiamo fidarci di Cristo e, ogni giorno, chiedere a lui il segreto della vittoria. Guai a togliere la croce dalla realtà umana!
Questa scoperta di un Dio che si fa uomo per amore e per amore si immola sino al sacrificio cruento della croce sconvolge la cifra egoistica e autoreferenziale del genere umano. L’umanità entra nel mistero; una sconvolgente scoperta è sotto gli occhi di tutti: la croce non è soltanto il segno della nostra vita in Dio e della nostra salvezza, ma è anche la testimone verace e muta dei dolori degli uomini e, allo stesso tempo, l’espressione unica e preziosa di tutte le loro speranze, specie dei piccoli e degli ultimi della terra, coloro che sembrano sperare senza speranza. «Solo la croce esprime la legge fondamentale dell’amore; è la formula perfetta della vera vita» (Benedetto XVI a Parigi, 2008).
Lo Spirito santo non risolve il mistero della sofferenza umana, ma la rende praticabile, accettabile, sopportabile alla nostra natura. La consolazione dello Spirito è «dolcissimo sollievo», cioè ti rialza delicatamente, progressivamente facendoti passare dalla notte al giorno, con quella gradualità lenta e intensissima che l’alba indica tra il buio e la luce. La consolazione dello Spirito è «dolcissima» per l’effetto che provoca, ma è «potente salvezza» – come ricordano i salmi – perché ci salva in modo invincibile dall’azione del maligno.
Molti stanno facendo della tristezza un «bene di lusso», tanto importante da non volersene più distaccare! Per alcuni, addirittura, la tristezza diventa un alibi: «Se sto come sto, non vale la pena d’impegnarsi in nulla». L’assenza di Dio è la sola, vera causa dei nostri mali e delle nostre infelicità. La sua presenza, invece, è gioia e gioia che contagia. La gioia vera è lotta: dobbiamo imparare a conquistarla e ancor più a non smarrirla. «Chi confida in Dio, come si deve, ha raggiunto la radice della felicità, si è impossessato della fonte di ogni letizia. Il meraviglioso, dunque, è proprio questo: che alla presenza delle sofferenze egli resta lieto. Se, infatti, non avesse dolore alcuno, non sarebbe un granché per lui poter gioire sempre; ma se gli sopraggiungono molti guai che, ordinariamente, conducono alla tristezza, essere superiore a tutto e giubilare in mezzo alle sofferenze: ecco la meraviglia!» (Giovanni Crisostomo, Omelie sulle statue). Sì, beati, mille volte beati, coloro che condividono così il pianto consolato e redento di Dio. Sì, beati noi che siamo afflitti, perché oggi e sempre saremo consolati.
Avvenire