Caro direttore, era il primo giorno di Ramadan dell’anno scorso (29 giugno) quando l’Isis proclamava il califfato. Il venerdì successivo, al-Baghdadi si mostrava in pubblico nella grande moschea di Mosul e nei mesi successivi si compiva la cacciata dei cristiani dai villaggi della piana di Ninive, il massacro degli yazidi e l’espansione jihadista in Iraq e Siria.
Una coincidenza ha voluto che proprio nel primo venerdì di Ramadan, quindi a un anno esatto (secondo il calendario islamico) dalla prima apparizione pubblica del «neo-califfo», visitassi brevemente i campi profughi allestiti a Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, su invito dei Patriarchi Bechara Raï, libanese, e Louis Sako, iracheno. I sentimenti tra i sacerdoti e gli operatori oscillavano tra la rabbia e l’esasperazione. Le priorità della guerra si sono spostate altrove e la riconquista di Mosul e della piana di Ninive è stata rinviata a data da destinarsi. Nel frattempo sono 125 mila i rifugiati cristiani in Kurdistan — una parte soltanto dello sterminato popolo degli sfollati — e anche se qualche progresso è stato fatto, come la riduzione delle tendopoli da 26 a 7, le condizioni, nei vari campi profughi, rimangono tragiche, in particolare con l’arrivo della calura estiva. Ma soprattutto mancano le prospettive per l’avvenire.
Gli incontri a Erbil sono stati letteralmente un pugno nello stomaco. Nessuna carta geografica, nessun’analisi geopolitica regge il paragone con la testimonianza delle vittime. Impossibile eludere la loro insistente domanda: «Che cosa state facendo per noi?».
Mi pare che il primo livello della risposta debba essere quello umanitario. Sono stati compiuti grandi sforzi, ma il bisogno è sterminato. Per questo è necessario un impeto di solidarietà ancora più grande. Non lasciamo più nessuno nelle tendopoli! Allestiamo scuole per permettere ai bambini e ai ragazzi di non passare in ozio la giornata! Restituiamo ai profughi luoghi di socializzazione e di occupazione!
C’è poi un secondo livello della questione. Molti vorrebbero tornare ai loro villaggi, oggi controllati da Isis, ma questo non è realisticamente possibile senza un intervento militare. In questo caso credo debba valere il principio dell’ingerenza umanitaria, della protezione delle vittime e anche dei loro carnefici, perché, come ha ricordato papa Francesco, «fermare l’aggressore ingiusto è un diritto dell’umanità, ma è anche un diritto dell’aggressore, di essere fermato per non fare del male». Come ha richiamato il Patriarca Sako, questo intervento, sotto l’egida dell’Onu, dovrà appoggiarsi sulle forze locali, superando la stasi di una coalizione internazionale inconcludente e sfilacciata.
Altrettanto importante è il livello politico. Nel discutere degli assetti futuri del Medio Oriente, molti hanno sottolineato come sia necessario uscire dal discorso della protezione delle minoranze per imboccare decisamente la strada della cittadinanza e dei diritti per tutti. La causa non è soltanto cristiana, è di tutti quelli che hanno a cuore un Medio Oriente moderno e pacificato. Per questo sarà dunque fondamentale un lavoro educativo che richiederà decenni per sradicare, come diceva il Patriarca Sako, i germogli del jihadismo fin dalla loro origine.
Dimensione umanitaria, militare, politica, educativa: l’Iraq — e la vicina Siria ove si sta consumando il martirio di Aleppo, nuova Sarajevo — richiedono un’azione coordinata a più livelli, impegnativa e difficile. Ma una certezza s’impone per l’Europa ripiegata su di sé: occorre uscire dal narcisismo miope che ci imprigiona in calcoli spesso vuoti. Bisogna agire e agire subito, semplicemente perché non è accettabile che ancora oggi centinaia di migliaia di persone siano cacciate dalle loro case o uccise per ragioni religiose. Questo deve bastare per suscitare un impegno degno della miglior storia del nostro continente.
Angelo Scola*
* Cardinale, Arcivescovo di Milano
Presidente del Centro Oasis
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