Dalla «Regola pastorale» di san Gregorio Magno, papa (Lib. 2, 4 PL 77, 30-31) |
MESSALE Antifona d'Ingresso Est 13,9.10-11
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Nel Vangelo di questa domenica il Signore ci parla di noi, della nostra famiglia, della sua storia, per illuminarla e così poter annunciarci la Buona Notizia. Essa è buona davvero solo quando incontra qualcosa di cattivo, la schiavitù secondo l'etimologia della parola cattivo; la notizia del Vangelo è buona perchè infonde speranza laddove questa è perduta, e annuncia un cambiamento radicale, un sovvertimento. Il cuore del cristianesimo - il Discorso della Montagna - descrive ilparadosso del Regno dei Cieli, la vigna che produce frutto a suo tempo: "ma io vi dico" ripete il Signore, sospingendo il nostro sguardo a guardare più in là, laddove non avremo mai pensato, aduna pietra scartata, al fallimento, al disprezzo, ai criteri di Dio: "Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio" (1 Cor. 1, 26-29). Dio ha scelto una vigna perchè gli dia gloria, peso e sostanza nel mondo. Una vigna che dia i frutti: i segni inequivocabili della sua esistenza e della sua presenza, annunciando e autenticando la parola della predicazione con pensieri, attitudini, opere perchè "chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio” (Gv 3, 21).
E' lo stile di Dio, come ripente sovente Benedetto XVI: "Dov'è il sapiente? Dov'è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini" (1 Cor. 1, 20-25). I frutti di cui il Signore parla nel Vangelo di oggi sono quelli che fruttificano dalla stoltezza e dalla debolezza di Dio, il paradosso che ha smascherato la malizia dello stile del mondo: l'amore folle e infinito rivelato nell'ultimo degli uomini, Cristo crocifisso, scandalo e stoltezza e per questo perseguitato, maltrattato, rifiutato e infine ucciso: il frutto nel quale anche gli altri acquistano sapore e fragranza, l'unico che permette ad ogni altro frutto di nascere, crescere e giungere a maturazione: "Ed è per lui che voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione, perché, come sta scritto: "Chi si vanta si vanti nel Signore" (1 Cor. 1, 30-31). In Lui il vanto diviene testimonianzadella sua potenza che si manifesta pienamente nella debolezza, frutto squisito e rigenerante preparato per ogni fame e sete di giustizia.
Non a caso il Vangelo, nella descrizione della vigna, seguendo il famoso Cantico della Vigna di Isaia, pone al centro un frantoio: la croce sulla quale il Signore ha versato il suo sangue, il frutto che lava il peccato. Nel cuore della vigna la vite preparata per dar frutto: la Croce. Ed il frutto benedetto, il Signore Gesù Cristo Crocifisso. Per entrare nella vigna, nell'assemblea santa eletta e convocata, il Popolo chiamato a dar frutto, occorre accogliere la Vite. I riti che inaugurano il battesimo infatti iniziano con l'assunzione del neofita da parte dei padrini e poi dal suo venire interamente ricoperto dal segno della Croce compiuto dai padrini e dal ministro. E' la vigna che "sin dall'inizio prende, in certo qual modo, possesso del catecumeno tracciando sopra di lui il segno della Croce. Non soltanto egli ne verrà interamente avvolto, ma ognuno dei suoi sensi ne riceverà l'impronta" (L. Bouyer, Invito alla Parola di Dio). All'inizio del rito il ministro dice:
Ricevete la croce sulla fronte:
Cristo stesso vi protegge
con il segno della sua vittoria.
Imparate ora a conoscerlo e a seguirlo.
Poi, Mentre si segnano gli orecchi:
Ricevete il segno della croce sugli orecchi
per ascoltare la voce del Signore.
Mentre si segnano gli occhi:
Ricevete il segno della croce sugli occhi,
per vedere lo splendore del volto di Dio.
Mentre si segnano la bocca:
Ricevete il segno della croce sulla bocca,
per rispondere alla parola di Dio.
Mentre si segnano il petto:
Ricevete il segno della croce sul petto,
perché Cristo abiti
per mezzo della fede nei vostri cuori.
Mentre si segnano le spalle:
Ricevete il segno della croce sulle spalle,
per sostenere il giogo soave di Cristo.
Poi il celebrante segna da solo contemporaneamente tutti i catecumeni tracciando su di essi il segno della croce, senza toccarli, mentre dice:
Vi segno tutti
nel nome del Padre
e del Figlio e dello Spirito Santo,
perché abbiate la vita nei secoli dei secoli.
Al termine il ministro prega così:
Dio onnipotente,
che per mezzo della croce
e della risurrezione del tuo Figlio,
hai donato la vita al tuo popolo,
concedi che questi catecumeni,
che abbiamo segnato con il segno della croce,
seguendo gli esempi del Cristo,
attingano da essa la forza che salva
e con l’esempio della loro vita
ne rendano testimonianza.
Per Cristo nostro Signore.
Per entrare a far parte della Vigna occorre dunque ricevere la vera Vite, la Croce sulle quali il Signore ha disteso le sue braccia per offrire ad ogni uomo i frutti del suo amore sino alla fine. Da quel momento il catecumeno sarà accompagnato, istruito, corretto, scrutato; è il tempo del catecumenato, tempo di preparazione e di gestazione: come è stata la storia del Popolo di Israele, una lunga formazione per poter accogliere il Figlio e a Lui finalmente dare i frutti coltivati. "«Piantare la vigna» è un lavoro paziente e intelligente, che esige impegno e fatica. Bisogna cercare il terreno giusto, adeguatamente solatio, scavarlo profondamente e drenarlo, scegliere e piantare ogni vitigno. Il contadino fa questo con gioia, pensando al frutto. «Piantare la vigna» sintetizza l'azione di Dio per il popolo eletto, dai patriarchi ai Giudici, dalla promessa all'eredità della terra, attraverso la liberazione dall'Egitto e il dono della Parola" (S. Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Matteo). La siepe era un muretto a secco eretto a protezione della vigna: era il simbolo della Legge, che santificava il Popolo di Israele, lo separava dagli altri popoli, proteggendolo dalle contaminazioni: era il sigillo dell'Alleanza, la cifra della presenza divina, ne indicava il cammino della vita, disegnava profeticamente i frutti che avrebbe dato. La torre era una costruzione posta all’interno della vigna, per difenderla dai ladri e dalle bestie selvatiche, nella stagione dei frutti: era il segno del Tempio dove raccogliere i frutti. Il frantoio era infine segno dell'altare dei sacrifici, laddove i frutti, venivano offerti in sacrificio, di comunione o di supplica. Il frantoio altare dove guardare a Dio e ricevere misericordia, la siepe della Parola e la Torre della liturgia: Dio aveva fatto tutto perchè la sua vigna desse frutto a suo tempo. Così come ha fatto tutto perchè la Chiesa, il Popolo della Nuova Alleanza, dia il frutto che salvi le generazioni. Così come ha fatto con ciascuno di noi: quanto amore, quanta pazienza, quante grazie: il perdono dei peccati, la predicazione, i sacramenti, la comunità, i pastori e i catechisti. Tutto perchè potessimo dar frutto, l'amore stesso rivelato nella Croce.
E invece Invidia. Violenza. Concupiscenza. Nel Vangelo di oggi appare un parossismo di violenza senza fine. I vignaioli sono preda di una carne schiava, imprigionata dalle passioni. E tutto esplode al momento del raccolto, quando si debbono fare i conti. Dare e avere. Questo l'angusto limite nel quale i vignaioli avevano chiuso il loro rapporto con il padrone. Immagine di un rapporto sterile, giocato sulle convenienze, senza amore. E dove non c'è amore, le passioni, qualunque esse siano, alla lunga si scatenano. E i frutti? Probabilmente v'erano dei frutti. Ma i coltivatori se ne volevano appropriare, e, con essi, volevano far propria tutta l'eredità. L'inganno più profondo, quello sussurrato dal serpente ai piedi dell'albero della vita. tu dio! Appropriarsi dei doni, non capendo che sono donati. E allora bisognerà uccidere e fare violenza; lottare e conquistarsi un posto, una posizione; sgomitare per un traguardo, e compromessi, sotterfugi, astuzie, furbizie. Offrire tutto a se stessi e in tutto ed in tutti scorgere un nemico da cui difendersi e da combattere. Oppure atteggiamenti serissimi, intransigenti, tutti-dun-pezzo per avere quello che si ritiene spetti di diritto. E si uccidono i messaggeri. E si uccide il Figlio, Lui, che viene a donare. Lui che viene ad amare. Gli occhi accecati dall'inganno più feroce, che Dio non è amore, solo leggi, e sbarramenti, e tabù, e ingiustizie. Se Dio non è amore, allora niente amore in nessuno, l'equazione è fin troppo semplice. E giù violenza, apparentemente senza senso, senza moventi, se non quelli d'un veleno che scorre impazzito nelle vene, nei cuori e nelle menti.
Tutto è avvelenato. La verità è amore, innanzi tutto. L'amore pervertito, il dono, il gratuito dono d'amore è trasformato in vile commercio, in violenta rapina. E, alla fine, il Figlio giace appeso ad una Croce. Lì, fuori della città. E tutta la violenza, i peccati, gli inganni vengono caricati sulle Sue carni. Eccolo muto, come un agnello di fronte ai suoi tosatori. Ecco la pietra scartata dai costruttori di imperi di carta. Solo. Gettato in preda all'inferno. L'amore consumato. E compiuto, nel perdono, di cui la risurrezione ne è la prova. L'ultimo divenuto primo, il rigettato divenuto testata d'angolo. E' questa l'opera di Dio, ed è una meraviglia. La malizia del nostro peccato, quella violenza che giace sotto la cenere dei giorni che sembrano sempre uguali, passati a mormorare, a giudicare, tramando rivincite e riscatti, il fuoco che s'impenna alla resa dei conti, quelle fiamme d'ira che ci travolgono finalmente spente nelle viscere di misericordia di chi ci ama davvero. Per questo la santa umiltà di Cristo è la salvezza. In Lui germoglia il frutto più dolce: l'amore che sconvolge. Al male ecco la risposta inaspettata. Al nostro male, ai nostri inganni, la risposta del suo amore: questa è la verità. Noi, vecchi coltivatori fraudolenti e assassini rinnovati nel Suo sangue per consegnare i frutti a suo tempo. I frutti del Suo amore, frutti gratuiti. Il cristianesimo e la nostra vita hanno senso solo in questo amore gratuito.
In Cristo, e solo in Lui, possiamo oggi vedere distrutto l'uomo vecchio simboleggiato dai vignaioli assassini e rinascere come un uomo nuovo, entrare a far parte degli altri cui è data la vigna, la primogenitura. Quando Gesù sente che i Greci, i pagani, lo vogliono vedere, riconosce in questo il segno che è giunta l'ora di glorificare il Padre, di dare frutto. "Se il chicco di grano caduto in tera non muore rimane solo. Ma se muore produce frutto. Per questo sono giunto a quest'ora!". E' questo il criterio che il Signore vuol donarci, quello degli amministratori fedeli che consegnano il frutto a suo tempo. Immersi nell'amore di Dio, aggrappati ai suoi doni, riconoscere in ogni persona, in ogni evento, l'ora in cui dare frutto. Il tempo è già compiuto, ora! Il frutto non consiste in un programma realizzato, neanche in un'opera missionaria che abbia successo. Il frutto non è cambiare gli eventi e neanche le persone che ci sono accanto. Il frutto è l'amore qui ed ora, riconoscere l'ora e glorificare, nella Croce, nel fallimento, nell'avversione, nel nemico che si fa prossimo, nella malattia, in ogni evento. E' questa la pienezza della vita, essere crocifissi con Cristo e illuminare e salvare il mondo attraverso la sua presenza viva in noi. La stoltezza e la debolezza di Dio incarnata nella nostra storia per salvare ogni debolezza e ogni stoltezza che avvelena l'uomo. E' questo momento quello favorevole per dare frutto, Lui ha già preparato tutto, basta solo aprire una fessura nel nostro cuore, lasciare che Egli operi e abbandonarci al suo amore.
Come il Signore, gettato in questo mondo come un banalissimo e insignificante chicco di Vita, abbandonato in un giardino, giustiziato su una croce, sepolto in una grotta, ha salvato una moltitudine immensa, così anche le nostre vite. Così apparentemente uguali e insignificanti. Così perdute nella massa informe d'una storia che sembra non far caso di noi. O peggio, scoprire di non essere importanti per chi amiamo; le nostre ansie, le speranze, i dolori, indifferenti allo sposo, alla sposa, ai figli, ai genitori, agli amici. Un lavoro, un progetto degnati neanche d'uno sguardo. Eccoci, semi gettati, lievito invisibile dentro il susseguirsi delle ore. Ma Lui è dentro la storia. Il Signore è proprio lì, nel gelo d'una terra amara, e noi sepolti con Lui nel battesimo della morte che schiude alla vita. Al fondo della zolla appena vangata, un progetto andato in fumo, un fidanzato che ti ha lasciato, nell'umido di quel grumo di terra, Lui è ad aspettarci. Per riscattarci, per colmarci di Lui, della Sua vita piena ed eterna. Nascosti con Cristo in Dio, il Suo amore per noi dove tutto di noi sembra perduto. La Vita nella morte, noi con Lui nella storia, portando in noi, sempre e ovunque la morte del Signore, perchè in noi sia manifesta anche la sua risurrezione. La nostra vita in Cristo è la vigna che dà frutto, e noi i vignaioli che lo offrono a tutti, il Regno dei cieli dischiuso per il mondo. Per qualunque vita v'è una speranza: la nostra vita raggiunta da Cristo, ogni nostro istante come un ramo disteso ad abbracciare ogni uomo. In Cristo ogni nostra esistenza è il frutto perchè ogni uomo possa esser saziato dell'amore di Dio rivelato in noi.
«La vigna del Signore degli eserciti è la casa d'Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita». Con queste parole il profeta Isaia ci dona l’orizzonte interpretativo della parabola di Gesù. Egli è il Figlio inviato dal Padrone della Vigna a raccoglierne i frutti.
Alcuni elementi paiono di particolare rilievo, soprattutto per il tempo presente.
Innanzitutto la Vigna non è dei vignaioli. L’esperienza fondamentale della vita umana consiste nella sua irriducibile “datità”! Nessuno è padrone della vita, perché nessuno è autore della vita! La vita è un dono e, con essa, il cosmo nel quale siamo inseriti, ci è dato.
Questa esperienza universale, tanto evidente quanto oscurata dalla cultura dominante e da un’idea ristretta di ragione, è l’orizzonte nel quale vivere ed operare. Tutti siamo al lavoro nella vigna del Signore; siamo donne ed uomini che vivono ed operano in un contesto che è loro donato, del quale in alcun modo si possono pienamente impossessare e che, inevitabilmente, un giorno verrà loro tolto.
Questa evidenza, lungi dall’intristire la vita, la rende maggiormente affascinante, carica di significato e responsabilità, fiera e certa, perché non orfana, ma totalmente “in relazione” con il disegno grande di Dio.
Per richiamare costantemente gli uomini a tale realtà, il Signore nella storia ha scelto un popolo, perché fosse luce per tutte le nazioni, ed ha inviato molti profeti, perché riconducessero, quel popolo, e in esso tutta l’umanità, alla verità del rapporto tra gli uomini ed il cosmo, tra gli uomini e Dio.
Il dono più grande che il “padrone della vigna” potesse fare ai “vignaioli”, per ricondurli al dovere di “portare frutti”, era inviare il suo proprio Figlio.
A questo punto si inserisce drammaticamente, nella parabola e nella storia, il menzognero, il quale riesce a far credere agli uomini che eliminando il Figlio di Dio, prossimità ultima, nella carne, del Mistero, potranno divenire “padroni” di se stessi e della realtà.
Mai menzogna più grande fu insinuata nel cuore umano!
Eliminare Dio significa andare incontro alla propria distruzione, alla perdita del centro e del significato; significa perdere tutto, essere espropriati della vigna e non poter più, in alcun caso, portare frutto.
La condizione per poter continuare a “lavorare nella vigna”, ad essere partecipi dell’opera del Regno è portare frutto. Se come singoli cristiani non portassimo frutto e non riconoscessimo umilmente che ogni frutto deriva dalla Grazia di Dio, alla quale liberamente cooperiamo, ci autoescluderemmo dalla vigna.
Misteriosamente, il rifiuto e l’uccisione del Figlio ha dilatato i confini del Regno, rendendolo universale, cioè cattolico, come costituzione e come vocazione: infatti tutti gli uomini sono ordinati alla Chiesa!
Grati per questo grande disegno, nel quale, senza nostro merito, siamo inseriti, viviamo l’esortazione dell’Apostolo: «Quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri» (Fil 4,8).
La Beata Vergine Maria, mistica Vigna nella quale è germogliato il frutto più bello della storia, ci sostenga nel cammino della vita e ci renda capaci di portare i frutti che Dio si attende da noi.
Isaia e Matteo sottolineano il tema del fare: c’è unfare di Dio che attende un fare umano come risposta; in particolare, attende da parte della vigna-Israele un fare frutti adeguati. La prassi del credenti è un fare frutto: si tratta di entrare in una relazione che dona fecondità. L’agire cristiano, pastorale in specie, rischia spesso la cecità dell’attivismo, la pigrizia della forza d’inerzia, l’insipienza di chi ha “freddo il senso e perduto il motivo dell’azione” (Thomas Stearns Eliot). Il raffreddarsi della carità (cf. Mt 24,12) si può accompagnare a un fare dissennato, indiscreto e senza discernimento. La fede nel fare di Dio per l’uomo, dunque nel suo amore, è il fondamento dell’agire del credente.
Il fare di Dio per la sua vigna è un lavorare (cf. Is 5,2) che ne esprime l’amore (cf. Is 5,1). L’amore è un lavoro, una fatica: la “fatica dell’amore” (1Ts 1,3). Anche per l’uomo, lungi dall’essere un’attività facile e immediata, l’amore è un lavoro che esige un’ascesi. La maturità umana trova nella capacità di lavorare efficacemente e di amare in modo adulto due elementi qualificanti decisivi.
L’amore divino nutre un’attesa nei confronti dell’amato: non attende amore di ritorno, ma giustizia(cf. Is 5,7). La giustizia umana onora l’amore di Dio. L’amore che attende qualcosa dall’amato esercita una dolce violenza, ma un amore che non attenda nulla dall’amato è semplicemente irreale.
Prima lettura e vangelo sono brani di teologia della storia, di rilettura della storia alla luce della fede. Isaia parla dell’agire di Dio verso il suo popolo e la parabola evangelica rilegge la storia degli invii dei profeti e del loro rigetto da parte del popolo, fino all’invio del Figlio. Emerge la difficoltà di discernere il servo di Dio, il profeta. L’alterità insostenibile di Dio diviene l’alterità del profeta che si traduce nella sua presenza scomoda, imprevedibile, non racchiudibile in etichette del tipo “progressista” o “conservatore”. Uomo del pathos di Dio, le reazioni del profeta agli eventi storici ed ecclesiali sfidano il buon senso comune e il comune sentire religioso e appaiono di volta in volta eccessive, non allineate, sproporzionate, difficilmente comprensibili, trascurabili, ininfluenti. Ed egli stesso viene sentito spesso come insopportabile o deriso come sognatore o considerato come presenza di cui si può tranquillamente non tener conto alcuno.
L’atteggiamento dei contadini a cui è affidata la vigna (cf. Mt 21,33-39) denuncia un pericolo perenne nella comunità cristiana: l’occupazione dello spazio ecclesiale da parte di chi vi esercita una leadership (cf. Mt 21,38). Questo avviene quando un gruppo di persone che rivestono ruoli dirigenti nella chiesa assolutizza la propria visione e cerca di far divenire norma generale le proprie opzioni.
La parabola pone di fronte all’enigma della violenzache può scandalosamente farsi presente in uno spazio religioso. Nell’alveo ecclesiale la violenza non riveste normalmente forme clamorose come la violenza fisica, ma più sottili come il non ascolto, il rifiuto, l’emarginazione, il disprezzo, la non accoglienza, il disinteresse, la pressione e l’abuso psicologico.
Avviene così che l’agire di Dio, che fa dello scarto umano il fondamento della storia di salvezza (cf. Mt 21,42), sia contraddetto dall’agire ecclesiale che crea scarti e produce emarginati. Questo l’agire di Dio: “Dio sceglie ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato” (1Cor 1,28). Questo lo scandaloso agire messianico, e questo è chiamato a essere l’agire dei messianici, i “cristiani”.
Lo stupore e lo scandalo che suscita in noi l’agire del padrone della vigna che, dopo avere visto tanti suoi servi subire una sorte violenta, infine invia il figlio, quasi sottovalutando il rischio, è indice della nostra distanza dal pensare di Dio, dalla radicalità del suo amore, dalla follia della sua gratuità.
Il passaggio della vigna a un popolo che la farà fruttificare non è un giudizio sulla vigna-Israele, ma sui suoi capi, ed è anche invito e ammonimento agli “eredi” a essere fecondi. Nessun sostituzionismo (i vignaioli non si sostituiscono alla vigna!): nessuna idea di chiesa come nuovo o vero Israele scaturisce dal testo.
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Commento 4 : Enzo Bianchi
Siamo sempre nel tempio di Gerusalemme, doveGesù rivolge ai sommi sacerdoti e gli anziani del popolouna seconda parabola, dopo quella dei due figli, ascoltata domenica scorsa.
Un padrone di casa «pianta una vigna, la circonda con una siepe, vi scava un frantoio e vi costruisce una torre» (cf. Is 5,2). Sono parole tratte dal «cantico della vigna» del profeta Isaia, ben conosciuto dagli ascoltatori di Gesù: questa pagina esprime in modo mirabile la storia dell’amore di Dio per la sua vigna, ossia il popolo di Israele (cf. Is 5,7; Sal 80), ma anche la chiesa e l’umanità tutta. È il Signore che crea, custodisce e colma di doni la sua vigna, instaura con lei quella relazione che è fonte di fecondità: occorre però che gli uomini accolgano tale amore, perché Dio ha bisogno di partners che credano al suo amore e vi rispondano con un amore capace di portare frutti abbondanti.
Dopo aver iniziato l’opera, il proprietario affida la vigna a degli agricoltori e parte in viaggio. Al momento del raccolto egli invia alcuni servi a ritirare l’uva, ma ecco accadere l’impensabile: «i vignaioli presero i servi e uno lo bastonarono, l’altro lo uccisero, l’altro lo lapidarono»; e lo stesso avviene una seconda volta, quando il padrone manda servi più numerosi dei precedenti. Più egli si prende cura della sua vigna, più cresce l’ostilità di coloro che dovrebbero semplicemente collaborare con lui alla raccolta dei frutti. Eppure il padrone non si scoraggia ma continua a perseverare in una logica di folle gratuità, fino a inviare addirittura il proprio figlio, dicendo: «Avranno rispetto almeno di mio figlio!». Alla vista di quest’ultimo l’odio dei vignaioli giunge al culmine. Essi prima tramano contro di lui certi che, una volta eliminato l’erede, l’eredità passerà a loro. Poi passano all’azione: «Presolo, lo cacciarono fuori della vigna e lo uccisero». Questa affermazione è fondamentale per decodificare la parabola e, di conseguenza, fare luce sull’autocoscienza di Gesù: è lui il Figlio che sarà crocifisso fuori dalle mura di Gerusalemme (cf. Mt 27,31-33); è lui che «patì fuori della porta della città» (Eb 13,12). E allora appare chiaro che i servi inviati in precedenza sono i profeti, donati con premura da Dio eppure sempre osteggiati dal popolo, in particolare dalle sue guide religiose: si pensi solo alle persecuzioni subite da Geremia ad opera dei sacerdoti del tempio…
Gesù ha di fronte a sé proprio alcuni capi religiosi, ma significativamente non emette alcun giudizio; si limita a porre una domanda, lasciando che siano loro stessi a prendere coscienza della propria situazione: «Quando verrà il padrone che farà a quei vignaioli?». Essi rispondono senza esitare: «Farà morire miseramente quei malvagi e darà la vigna ad altri che gli consegneranno i frutti a suo tempo»; pensano probabilmente che il duro verdetto non li tocchi direttamente ma riguardi altri… Ecco perché Gesù li rimanda ancora una volta all’autorità delle Scritture: «Ma non avete mai letto nelle Scritture: “La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo; dal Signore è stato fatto questo ed è mirabile ai nostri occhi” (Sal 118,22-23)?». Certo, essi avevano letto il Salmo, così come conoscevano il passo di Isaia, ma non avevano compreso in profondità la Parola contenuta nelle Scritture: non potevano accettare la logica paradossale di Dio, il suo operare meraviglie attraverso ciò che è disprezzato dagli uomini (cf. 1Cor 1,28), il suo salvare il mondo attraverso lo scandalo di un Messia impotente e crocifisso (cf. 1Cor 1,17-25)! A questo punto, finalmente, gli interlocutori di Gesù capiscono che egli sta parlando di loro e cercano di catturarlo (cf. Mt 21,45-46): questa volta non ci riescono, ma per Gesù la fine si avvicina…
Prima di concludere questo difficile dialogo Gesù afferma: «Vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a chi lo farà fruttificare». Queste parole non riguardano solo i suoi interlocutori storici ma sono rivolte anche a noi, sempre tentati di pensare che il giudizio non ci tocchi, né personalmente né come chiesa. Esse sollecitano la nostra responsabilità a lasciare che Dio regni su di noi. Come? Facendo di Gesù la Roccia su cui fondare la nostra vita (cf. 1Pt 2,4-5), non «una pietra d’inciampo, di scandalo» (cf. 1Pt 2,8). Confidando cioè sulla sua promessa: «Beato chi non si scandalizza di me» (Mt 11,6).
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Dalla Tradizione Patristica
Omelia 5 sull' Hexameron, 6 ; SC 26, 304
Portare frutto
I Signore non cessa di paragonare l'anima degli uomini a delle vigne: «Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle» (Is 5,1); «Ho piantato una vigna e l'ho circondata con una siepe» (cfr Mt 21,33). Sono evidentemente chiamate da Gesù come sua vigna, le anime, che egli ha circondate, con i suoi comandamenti e con la custodia dei suoi angeli, come con una siepe. Infatti «l'angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono» (Sa 33,8). Poi ha piantato attorno a noi una specie di supporto, stabilendo alcuni nella Chiesa «in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri» (1 Cor 12,28). Inoltre, con gli esempi dei santi che ci hanno preceduto, eleva i nostri pensieri senza lasciarli cadere a terra dove meriterebbero di venire calpestati. Vuole che gli abbracci della carità, come i viticci di una vigna, ci attacchino al prossimo e ci facciano riposare su di lui. Così, tenendo sempre il nostro slancio diretto verso il cielo, ci eleveremo come delle vigne rampicanti, fino ai più alti vertici.
Ci chiede ancora di consentire ad essere sarchiati. Ora un'anima è sarchiata quando si allontana dalle preoccupazioni del mondo che sono un fardello per i nostri cuori. Così colui che allontana da sé l'amore carnale e l'attaccamento alle ricchezze o che ritiene detestabile e disprezzabile la passione per questa miserabile vana gloria è per così dire stato sarchiato, e nuovamente respira, sgombrato dal fardello inutile delle preoccupazioni del mondo.
Ma, per rimanere nella linea della parabola, non occorre produrre soltanto del legno, cioè vivere con ostentazione, né ricercare la lode di quelli di fuori. Occorre portare frutto, riservando cioè le nostre opere per mostrale al vero vignaiolo (Gv 15,1).