domenica 27 gennaio 2013

Il dovere della memoria



(Gaetano Vallini) «I bambini crescono e diventano schifosi ebrei», rispose un ufficiale tedesco a chi gli chiedeva con quale animo teneva prigionieri dei bambini all’Hotel Meina, sul Lago Maggiore, teatro della prima strage di ebrei in Italia. Una frase che racconta tutta la disumana ferocia dell’agire dei nazisti che non risparmiava neppure i più piccoli. Anzi, su di essi era persino più scientifico. L’annientamento delle giovani generazioni veniva infatti visto non solo come la garanzia di un futuro judenfrei, libero da ebrei, ma rinviava anche alla consapevolezza che la guerra condotta contro l’infanzia non era «un sottoprodotto del conflitto bellico o del genocidio ma la ragione stessa della Shoah». È da questa considerazione che lo storico Bruno Maida prende le mosse per raccontare cosa comportò essere bimbi e ragazzi ebrei sotto il nazifascismo.
La Shoah dei bambini. La persecuzione dell’infanzia ebraica in Italia 1938–1945 (Torino, Einaudi, 2013, pagine 345, euro 29) ripercorre tutte le tappe del progetto di annientamento partendo da quello che fu il punto di non ritorno, l’adozione delle leggi razziali, che costituirono la prima ferita nell’identità, il primo passo verso la catastrofe, come ricorda Piera Sonnino: «Dal 1938 in poi, per cinque anni, noi vivemmo in un tempo senza futuro, un oscuro presente sul quale gravava, confuso e indistinto, l’incubo che ci ghermì dopo l’8 settembre». Un incubo che significò, come spiega Maida, «abbandonare la propria casa e il mondo conosciuto, nascondersi e nascondere il proprio nome, perdere la vita o le persone amate, assistere alla cancellazione progressiva di tutto ciò che si conosceva come luoghi, oggetti, abitudini».
L’autore si muove per gradi, dunque, con continui riferimenti a ciò che accadeva anche nel resto dell’Europa occupata. Ma soprattutto cerca di ricostruire, attraverso le testimonianze, i traumi e gli adattamenti che i bambini dovettero affrontare, tenendo conto delle varie fasce di età, ovvero quanti nacquero in quegli anni e quelli che invece ci arrivarono un po’ più grandicelli, adolescenti. Anche se, quasi inevitabilmente, la prima considerazione riguarda gli adulti, padri e madri, i quali si accorsero di colpo «di non essere più in grado di fornire le sicurezze necessarie; non erano eroi pronti a salvare i propri figli». I bambini vissero dunque una «brusca caduta di fiducia nel mondo, che si espandeva dalla famiglia a tutte le persone». E di conseguenza anche alle cose.
Così persino «la casa, che rappresentava un luogo di protezione, diventava — spiega Maida — improvvisamente una gabbia, mentre gli spazi pubblici veicolavano messaggi di esclusione o di paura. Andare al parco o ai giardinetti costituiva una fonte di ansia, soprattutto attraverso gli occhi dei genitori, che non trasmettevano più la sicurezza di un luogo libero e permeato dal piacere dell’incontro ma il timore del rifiuto, dell’insulto, di una protezione impossibile, di una sofferenza non condivisibile e assurda». La stessa scuola statale, che aveva significato un passaggio fondamentale nel riconoscimento dell’integrazione, costituisce ora uno dei punti di partenza dell’isolamento.
Anche se alcune discriminazioni si verificarono prima, lo storico insiste sull’importanza di partire dalle leggi razziali, perché ciò ricorda in primo luogo che «ad essere perseguitati furono prima i diritti e poi le vite delle persone», ma anche che «la violenza di quella persecuzione toccò tutti, indipendentemente dall’esperienza del lager». Guardare tutto ciò attraverso gli occhi dei bambini vuol dire osservare quei fatti da una prospettiva peculiare, indispensabile per comprendere l’essenza di quanto accadde.
Guardare con gli occhi dei bambini significa cogliere alcuni aspetti tipici dell’età. A partire dal gioco. In ogni luogo e condizione i bambini ebrei continuarono a giocare. Lo fecero dopo aver perso i loro compagni “ariani” a scuola, quando dovettero abbandonare le proprie case, mentre erano in fuga o isolati in nascondigli improbabili; lo fecero persino nelle baracche di Auschwitz. «Nascosti nelle campagne — scrive Maida — i bambini inventavano scontri e battaglie interpretando il ruolo dei fascisti e dei partigiani; a Ravensbrück, invece, giocavano alla selezione. La morte, in quel modo, poteva entrare nel loro mondo, perché malgrado tutte le forme di protezione che gli adulti avevano potuto mettere in atto fu spesso una parte inevitabile dell’esperienza vissuta in quei mesi... Mettere in scena la morte in tutti i suoi aspetti, specie nei lager, divenne quindi una forma di razionalizzazione e di difesa tipica dell’infanzia, per adattare la propria condizione psichica all’ambiente».
La capacità dei bambini di rispondere ai cambiamenti traumatici e improvvisi fu direttamente proporzionale a una serie di fattori che interagirono e che i bambini elaborarono in modi diversi. Vissero una loro particolare “resilienza”, che non fu tanto la capacità di resistere alle deformazioni del loro mondo, quanto piuttosto la capacità di ripristinare le condizioni della propria umanità, individuando e coltivando uno spazio interiore in cui rifugiarsi.
Ma se alcuni sopravvissero, pur perdendo l’innocenza e la spensieratezza tipiche dell’infanzia, fu anche grazie all’aiuto gratuito e coraggioso di altre persone, talora per iniziativa privata, talaltra attraverso reti di soccorso. «Quelle reti — rileva Maida — non solo salvarono dei bambini ma permisero loro, nella maggior parte dei casi, di non sgretolarsi e di adattarsi al trauma e alle circostanze, ai luoghi sconosciuti e ai tempi tanto diversi da quelli della vita precedente. Non fu così per tutti, ma l’impressione è che la maggior parte dei bambini che visse nascosta in Italia ebbe condizioni più positive rispetto ad altri Paesi occupati».
Non fu così per tutti perché, sottolinea ancora lo storico, almeno novecento di essi vennero deportati e il novanta per cento fu ucciso nelle camere a gas. «Dietro a ognuno c’è una storia diversa, che racconta di altri italiani che furono complici convinti o indifferenti dell’occupante tedesco, spettatori passivi dell’arresto e della deportazione: 264 bambini furono arrestati da italiani e altri 23 insieme ai tedeschi. Questi ultimi furono responsabili diretti della cattura di 503».
Di molti di questi piccoli, ai quali fu cancellato il passato e rubato il futuro, conosciamo poco o nulla, di come siano davvero scomparsi, non solo attraverso i camini dei forni crematori, ma anche dalla memoria, in un destino che non è stato diverso da quello dei loro genitori e di altri familiari. Con questo libro lo storico vuole dare un nome e un volto a ciascuno di loro. Raccontando soprattutto storie. Storie di bambini spaventati, con la valigia in mano: «Le valigie sono rimaste, nella memoria infantile, un segno fisico di quella condizione di sospensione nella quale gli ebrei si trovarono», scrive Maida, che aggiunge: «Ogni volta che sono riuscito a ricostruire perlomeno un’informazione relativa a uno di quei bambini, queste pagine hanno assunto un significato differente».
Chi è sopravvissuto non ha dimenticato. Gli adulti non hanno dimenticato. «Non posso vedere i bambini che vanno in fila in qualche posto — racconta una donna — perché io vedo bambini che vanno al crematorio». E i bambini di allora non hanno dimenticato. Sia pure con fatica, come i coetanei di altre nazioni, hanno cominciato a raccontare il loro stupore ingenuo dinanzi a un mondo che non potevano comprendere e che non erano pronti ad affrontare. «Probabilmente la prima bambina deportata dall’Italia che ha testimoniato fu Arianna Szoreny, nel 1946, all’età di 49 anni» — scrive lo storico — rispondendo a quel bisogno di raccontare che diventa imperativo morale e dovere di ricordare.
Spinto da un profondo desiderio di comprensione, utilizzando sia il registro storiografico che quello narrativo, Maida ci consegna un libro importante che con rigore, ma anche con delicatezza e partecipazione, ripercorre un capitolo oscuro della storia non solo italiana. Pagine che si fa fatica a leggere. E che pure devono essere lette.
L'Osservatore Romano, 27 gennaio 2013.

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(Anna Foa) Com’è noto, la Giornata della memoria istituita in Italia nel 2000 per commemorare le vittime della Shoah è divenuta un fenomeno di vasta portata, che coinvolge capillarmente e in modalità diverse scuole di ogni ordine e grado, istituzioni, media. In questo enorme sviluppo delle iniziative, sembra assente il riferimento alla portata internazionale della giornata ed essa appare quasi esclusivamente, nella percezione comune, come il risultato della legge varata dal Parlamento italiano. In realtà, se è vero che l’Italia è stata fra i primi Paesi a istituzionalizzare la memoria della Shoah, è anche vero che tale istituzionalizzazione trae origine dalla Dichiarazione del Forum internazionale di Stoccolma sull’Olocausto, del gennaio del 2000, firmata da 46 governi, che incoraggiava «forme appropriate di commemorazione della Shoah, inclusa la giornata annuale della memoria» e poi dalla risoluzione dei Paesi membri del Consiglio d’Europa che imponeva agli Stati membri di istituire una Giornata della memoria per commemorare la Shoah in tutte le scuole. 
Un’origine a livello internazionale, quindi, anche se poi il momento di istituzione della Giornata nei vari Paesi e le date stesse della commemorazione cambiano. Cambiamenti che rivelano percorsi diversi di elaborazione memoriale, importanza diversa delle date più rilevanti localmente rispetto alla data del 27 gennaio, quella della liberazione nel 1945 del campo di Auschwitz a opera dei soldati dell’Armata Rossa, e anche diversi problemi di uso politico della storia, significativi soprattutto nei Paesi ex comunisti. Una cosa va comunque sottolineata in generale, ed è che tale istituzionalizzazione corrisponde a una fase in cui il processo di costruzione della memoria può dirsi concluso in quanto tale, in cui cioè il paradigma memoriale, se così possiamo chiamarlo, appare definitivo (non parlo naturalmente delle conoscenze e delle ricerche storiche, che sono tuttora aperte).
Come si è detto, solo una parte, sia pur maggioritaria, dei Paesi europei ha scelto il 27 gennaio come data per la commemorazione. Ma anche in Italia, dove pure è prevalsa la data del 27 gennaio, si è dibattuto se preferire quella, a interesse locale, del 16 ottobre 1943, la grande razzia degli ebrei romani. In Israele la commemorazione si tiene nello Yom ha Shoah, giorno della Shoah, il 27 del mese ebraico di Nisan (in genere, in aprile), data dell’inizio della rivolta del ghetto di Varsavia, e la stessa scelta è stata fatta da Stati Uniti e Canada. In Israele le sirene suonano laceranti per due minuti, a sollecitare il ricordo e il lutto. Anche la Polonia ha scelto l’inizio della rivolta del ghetto di Varsavia, nella sua data non ebraica, il 19 aprile. 
L’Ungheria commemora il 16 aprile, data del primo ghetto nazista nel Paese, la Lituania il 23 settembre, quando tutti gli ebrei del ghetto di Vilnius sono stati sterminati. La Bulgaria ha scelto il 10 marzo, data in cui il vicepresidente del Parlamento Peshev riuscì a fermare la deportazione degli ebrei bulgari, e l’Austria il 5 maggio, data della liberazione del campo di concentramento di Mauthausen. Quasi tutti gli altri Paesi europei, dalla Francia alla Spagna, alla Germania, al Regno Unito, alla Grecia, hanno scelto il 27 gennaio.
In Ungheria, dove oltre mezzo milione di ebrei furono sterminati in pochi mesi nell’ultimo anno della guerra, nel 1944, la Giornata della memoria è stata introdotta già nel 2001. Nonostante la crescita dell’antisemitismo nel Paese, o forse proprio in reazione a essa, le celebrazioni sono seguite con emozione e partecipazione. Nel 2005 è stato creato uno straordinario memoriale sul bordo del Danubio a Budapest, composto da scarpe in bronzo allineate sulla riva. Commemorano le migliaia di ebrei assassinati dalla Croci frecciate, i nazisti ungheresi, buttandoli nel fiume dopo aver fatto loro togliere le scarpe.
In Russia, il Giorno della memoria non è ancora stato ufficialmente adottato, anche se ci sono state delle aperture in questa direzione fin dal 2008. Come in un recente convegno a Firenze ricordava la storica Maria Ferretti, il rifiuto da parte dell’Unione Sovietica di riconoscere nelle vittime della Shoah degli ebrei, e non semplicemente dei civili o degli antifascisti — condiviso anche dalla Polonia comunista nei confronti degli ebrei assassinati ad Auschwitz — è stato ampio e duraturo. Nel 2012 la maggior parte delle cerimonie sono state celebrate internamente alle istituzioni ebraiche, anche se a Mosca c’è stata un’iniziativa a cui insieme con le comunità ebraiche hanno partecipato membri del mondo politico e gli ambasciatori di Israele e di Germania. 
Le modalità della giornata sono in genere assai simili e sono legate non solo al ricordo della Shoah ma anche alla preoccupazione per il permanere e il crescere dell’antisemitismo: cerimonie nei luoghi istituzionali, grande spazio sui giornali e media, iniziative nelle scuole di vario genere, dalle conferenze e dalle testimonianze dei sopravvissuti (sempre più ridotte man mano che gli anni passano) a iniziative teatrali, artistiche, proiezioni di film e documentari. Crescente è anche l’interesse per i Giusti, ossia per quei non ebrei che hanno salvato gli ebrei spesso a rischio della vita. 
In tutti i Paesi, forte è il rischio della fossilizzazione della memoria, della sua separazione dalla necessità di approfondire gli aspetti storici della Shoah, della sua trasformazione in un simbolo vago e riempito solo di buone intenzioni. Ma l’alternativa, che nessuno certo vuole, è quella dell’oblio, sia pur graduale, e tutti preferiscono cercare di riempire di contenuti non banali il quadro esistente piuttosto che rimetterlo in discussione, soprattutto in presenza in molta parte d’Europa di attacchi antisemiti e negazionisti alla Shoah e alla sua memoria che denigrano la giornata e mirano alla sua soppressione.
L'Osservatore Romano, 27 gennaio 2013.

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(Cristiana Dobner) Se l’uomo senza ombra, Peter Schlemihl, la creazione letteraria di Chamisso, è costretto a diventare errante una volta persa la sua ombra, che cosa può accadere a chi diventa uomo senza memoria? È nota la devastazione psicologica di chi, per una ragione o per l’altra, si ritrova vuoto della propria storia, della propria identità. In questo caso si invoca il destino. Nel caso invece in cui si voglia cancellare e dimenticare un avvenimento come la Shoah, non si può invocare il destino.Solo il monito biblico che attraversa tutti i secoli e le generazioni di Israele — zachor (“ricorda”) — consente di rimanere persona e di reggere dinanzi a un baratro di orrore che ha devastato e continua a devastare.
Non è questione di cifre o di cifre arrotondate, magari dichiarate inesistenti, malgrado l’evidenza storica più che assodata. Per la tradizione ebraica l’uccisione di una sola persona è già una tragedia immensa, perché essa è stata creata a immagine e somiglianza del Creatore, perché ha attraversato la storia con il segno dell’alleanza. A maggior ragione quando la distruzione — messa in atto dalla macchina burocratica efficientissima del nazionalsocialismo — ha dilagato in tutta Europa e tolto dalla faccia della terra interi villaggi, tradizioni, cultura e ha sparso nell’aria l’odore dei cadaveri bruciati.
Se tanto si è ricercato e poi scritto — e tutto questo è doveroso e necessario — per appurare una realtà storica attendibile, forse ancora poco si è scritto nella vita concreta di chi non appartiene per sangue e stirpe al popolo ebraico. La devastazione della Shoah ha costretto i cristiani a interrogarsi a fondo. Maestro di memoria è stato il beato Giovanni Paolo II, che non ha certo sofferto di rimozioni.
La memoria è tale quando diventa sorgente viva, che sempre zampilla, pronta a suggerire passi nuovi di conoscenza e di fraternità. Ben più che tolleranza, perché la storia insegna dove porti la tolleranza: solo a passi discretamente buoni finché non viene intaccato l’interesse proprio.
La necessità della memoria chiede ed esige ben di più, almeno per chi ne afferra la portata trasformatrice: vuole suscitare un atteggiamento nuovo, sempre nuovo, che venga a scoprire come la persona umana, libera nella sua adesione di fede, possa vivere l’arco della propria vita in trasparenza, senza il timore di venire eliminata perché qualificata diversa in nome di un’ideologia.
Il beato Giovanni Paolo II ha rivolto lo sguardo al presente e al futuro, indicando alla Chiesa, e dunque a ogni cristiano, l’atteggiamento di chi si rivolge verso il Padre Creatore e da lui impara come vivere. La nostra memoria, purificata dalla conoscenza di quanto è avvenuto, resa compassionevole per la sofferenza e il dolore inflitti, ne viene scossa e può compiere un balzo che risponda al mysterium iniquitatis con la forza e il vigore del mysterium gratiae.
Oggi la Chiesa cattolica e il popolo ebraico sperimentano un avvicinamento e una comprensione impensabili qualche decennio fa. E non si tratta di una moda: è una consapevolezza che poggia sulle esistenze cancellate nel cuore del Novecento, ma che si lascia portare, in una memoria che lega la lunga catena delle generazioni, da una speranza che attraversa i secoli.
L'Osservatore Romano, 27 gennaio 2013.