[...] Penso che le donne stiano sbagliando completamente l’obiettivo della loro battaglia sul piano lavorativo, sul tema della conciliazione. Ogni volta che si parla di conciliazione tra lavoro e famiglia si parla di asili nido, quote rosa, soffitto di cristallo da sfondare.
Io credo che attualmente il mondo del lavoro abbia delle regole e dei tempi, soprattutto, completamente maschili e noi donne combattiamo per entrare in questo mondo che ci snatura e ci toglie il diritto di accudire i nostri figli.
Io credo che bisognerebbe lottare soprattutto perché il mondo del lavoro avesse dei tempi e dei modi femminili, quindi, innanzitutto, permettere a chi lo desidera, a chi ha la benedizione di avere dei figli, di stare a casa anche anni, senza perdere il posto e con degli assegni familiari dignitosi. Perché una mamma che segue i figli svolge un lavoro sociale. Non è naturale mettere i bambini all’asilo nido a tre o quattro mesi, è una violenza che viene fatta ai bambini.
Io, purtroppo, con i primi due figli ho dovuto riprendere a lavorare quando avevano quattro mesi perché ero precaria, sono stata precaria tredici anni, e se non avessi accettato quel contratto avrei perso, a parte i soldi, e non avremmo potuto farne a meno, anche il diritto, avrei perso ”la priorità acquisita” come dicono al call center e il mio precariato sarebbe durato più di tredici anni… E quindi, sono stata costretta a lasciare i primi due, insomma, tirandomi il latte, lasciandolo in frigo, un po’ con la nonna, un po’ col papà, un po’con una signora, un po’ io correndo come una pazza in tangenziale per tornare a casa in tempo.
Innanzitutto bisognerebbe lasciare la possibilità di scelta perché ora non è vero che si può scegliere. Ci hanno rubato uno stipendio, prima bastava un portatore di stipendio in casa adesso è quasi impossibile che sia sufficiente.
Quindi, lottare per questo: perché le mamme abbiano il diritto, cioè perché i padri siano retribuiti anche in base al quoziente familiare, con un forte assegno, uniti ad ogni aiuto possibile anche se, adesso penso che sia un argomento, in questo momento, insomma, molto difficile da tirare fuori, però questo è il primo punto.
L’altro è che anche quando i bambini poi non sono più, magari, piccolissimi sarebbe giusto che le donne combattessero, ecco, non tanto per le quote rosa quanto per avere una maggiore flessibilità lavorativa.
Io devo dire, io su questo non mi posso lamentare perché alla RAI ho trovato a volte dei capi che guardavano il risultato, quindi sono riuscita a lavorare con tempi umani, sempre andando in giro con la borsa, con la banana spiaccicata e il panino, come dico io (ho tutte le borse che sanno di salumi perché sono sempre in giro col panino), di corsa, per contrarre i tempi. Tante colleghe che possono lo fanno e devo dire che questa poi è una lealtà cioè, diciamo, una generosità a doppio senso perché poi, magari, siamo andate, io stessa sono andata al lavoro anche con la febbre a trentotto perché, comunque, visto che mi viene accordata una disponibilità in un senso poi cerco di restituirla. Vedo tante colleghe che corrono e cercano di tenere insieme tutti i pezzi con molta fatica, però.
Invece, ci sono tante, tante donne che non hanno questo privilegio e non mi spiego come mai questa non sia una battaglia prioritaria delle donne, all’ordine del giorno, cioè scendono in piazza, “se non ora quando”, per le quote rosa, quando secondo me le donne vere, in carne e ossa, che abbiano il problema di entrare in un consiglio di amministrazione sono pochissime. Quelle che conosco io sono tutte mamme che, ormai ho un buon campione statistico avendo quattro bambini e parlando con i genitori che incontro, tutte hanno il problema di tenere insieme i pezzi, arrivare alla fine della giornata, tenere insieme tutto, non di entrare in un consiglio di amministrazione che personalmente non è posto per me, sarebbe una iattura, proprio una cosa tragica.
E però mi sembra che nel dibattito pubblico sia sempre questo il tema, l’ascesa al potere e mai i problemi di orario che veramente interessano tutte noi e ci riguardano.
Io credo che ci sia un disegno molto preciso contro la famiglia perché le quote rosa per esempio sono contro la famiglia. Secondo me, cioè, è vero che si può fare tutto, delegando a baby-sitter e tate, però una non è più una mamma quella che sforna biologicamente un figlio però non fa la mamma.
Io credo che ci sia un disegno politico e ideologico molto preciso, contro la famiglia, contro i figli, e a favore dell’appiattimento di genere, che per me è una parolaccia.
Una volta mi hanno invitata a un convegno contro le discriminazioni di genere, e io ho detto subito: io non vengo perché “genere” è una parola che rifiuto e sono anche un po’ a favore delle discriminazioni. Secondo me siamo diversi e dobbiamo avere modalità diverse, abbiamo talenti diversi e modalità diverse di lavoro. Cioè, il padre può essere meno presente a casa perché il padre è quello che mette la regola, che dice i sì e i no, quello che sì deve essere presente come figura, come punto di riferimento, come archetipo. Cioè io dico ai miei figli: “il babbo dice così” anche se lui non c’è, in quel momento. Però per noi è presente, e non è necessario che sia lì dodici ore al giorno sempre a mettere i cerotti sui ginocchi sbucciati ecc. perché è la madre che incarna l’accoglienza, cioè la madre insegna a vivere, il padre prepara a morire mettendo le regole, dicendo i sì e i no, essendo una guida, anche giocando con i figli perché anche con il gioco poi si educa, però è un tipo di presenza completamente diversa.
Invece, tutte le battaglie che vedo fare sul tema, anche quella dei congedi parentali obbligatori per i padri, non centrano il cuore del problema. Io ho sentito all’asilo nido, che come ho detto è un posto secondo me contro la natura dei bambini, ho sentito all’asilo nido delle maestre che sgridavano i padri perché non cambiavano i pannolini.
I padri di oggi sono fin troppo accudenti, siamo una generazione senza padri; non so se voi frequentate asili, scuole, ma io vedo delle cose proprio ignobili a scuola, bambini completamente senza regole, completamente senza punti di riferimento, questo è il lavoro che devono fare i padri, però se i padri vengono indottrinati a cambiare i pannolini, ad essere accudenti, a spingere i passeggini, poi non possono anche essere la regola, incarnare il limite, il senso della realtà perché c’è una polarizzazione che viene completamente sbilanciata a favore, appunto, dell’aspetto accogliente del genitore, e uno non può essere quello che provoca, diciamo, le lacrime e anche quello che le asciuga. Il padre deve essere il senso di realtà, qui c’è un muro, non puoi aprirci una porta.
Quelle che finiscono sui giornali insomma, sono piccole polemiche giornalistiche, simboliche però: magari due o tre giorni di paternità obbligatoria non è che cambino nell’essenza la figura paterna o il suo profilo lavorativo, però secondo me sono delle battaglie simboliche che vogliono tutte comunicare, appunto, l’intercambiabilità dei ruoli e la femminilizzazione del maschio che è in atto nella nostra società. Come anche la battaglia per le adozioni, i matrimoni omosessuali, affermare che anche coppie dello stesso sesso possono adottare figli o averli sfruttando crudelmente donne che mettono i loro uteri in affitto: sono tutte battaglie che servono a veicolare il messaggio che non c’è più bisogno del padre e della madre, quindi, alla fine non c’è più bisogno di Dio perché è lui il Padre, è quel Padre a cui rimanda il padre sulla terra.