«Vedo la Chiesa viva! La Chiesa non è mia, non è nostra, ma è del Signore, che non la lascia affondare; è Lui che la conduce…». L’ultima udienza pubblica di Benedetto XVI, il primo papa della storia a rinunciare per motivi di vecchiaia, è un testamento spirituale e una lezione per coloro che dovranno eleggere il suo successore.
Con serenità e determinazione Joseph Ratzinger, sempre più minuto e fragile, conclude i suoi quasi otto anni di regno mostrando, nonostante tutto, il volto gioioso e positivo di una Chiesa di popolo. Non traccia bilanci, ma indica con l’esempio al suo successore che cosa sia e che cosa debba fare il papa, attraverso una catechesi semplice. Distante anni luce dai giochi del potere clericale, dalle cordate, dalle strategie di politica ecclesiale studiate a tavolino, dagli scandali, dai messaggi autoreferenziali, dall’immagine di una Chiesa barocca e ripiegata a contemplare se stessa. Un messaggio che la folla di pellegrini, venuta a salutare il Papa per l’ultima volta, comprende benissimo e ascolta commossa.
Nella lezione di Benedetto XVI c’è innanzitutto gratitudine per le «notizie» che negli anni ha ricevuto da ogni parte del mondo sulla fede e sulla carità che «circola nel corpo della Chiesa». Il Papa, che ancora una volta appare assolutamente sereno e pacificato dopo la decisione presa, descrivendo il suo non facile pontificato annota: «È stato un tratto di cammino della Chiesa che ha avuto momenti di gioia e di luce, ma anche momenti non facili». Accenno esplicito agli incidenti di percorso, agli scandali e agli attacchi che hanno accompagnato questi otto anni.
Per raccontarli, Ratzinger ricorda il passo evangelico che descrive la barca degli apostoli in balia della tempesta: «Mi sono sentito come san Pietro con gli apostoli nella barca sul lago di Galilea… vi sono stati momenti in cui le acque erano agitate ed il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa, e il Signore sembrava dormire. Ma ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua. E il Signore non la lascia affondare…».
Torna alla memoria un’altra immagine di barca, protagonista dell’ultima omelia di Ratzinger cardinale, durante la messa d’inizio del conclave del 2005. Allora parlò della «piccola barca» del pensiero di molti cristiani, squassata da una serie negativa di «ismi», dall’ateismo all’agnosticismo. Ora, nel momento della rinuncia, il Papa non segue i «profeti di sventura». Non fa alcun accenno pessimistico. Invita invece tutti «ad affidarci come bambini nelle braccia di Dio, certi che quelle braccia ci sostengono sempre e sono ciò che ci permette di camminare ogni giorno, anche nella fatica». Poi aggiunge: «Vorrei che ognuno si sentisse amato da quel Dio che ci ha mostrato il suo amore senza confini. Vorrei che ognuno sentisse la gioia di essere cristiano». Uno sguardo positivo e di misericordia, dunque.
Nel discorso Benedetto XVI inserisce anche i ringraziamenti per i cardinali, per il suo Segretario di Stato, per i collaboratori. Non vuole avallare la lettura di quanti ritengono che le innegabili tensioni curiali siano all’origine della sua rinuncia. Quindi racconta delle lettere ricevute tante «persone semplici» che «non mi scrivono come si scrive ad esempio ad un principe o ad un grande che non si conosce», ma «come fratelli e sorelle o come figli e figlie». Qui si può «toccare con mano che cosa sia Chiesa – non un’organizzazione, un’associazione per fini religiosi o umanitari, ma un corpo vivo, una comunione di fratelli e sorelle».
Nelle parole dedicate alla rinuncia, Benedetto XVI ribadisce di aver «chiesto a Dio con insistenza», di fronte al venir meno delle forze, di essere illuminato, per prendere «la decisione più giusta non per il mio bene, ma per il bene della Chiesa». Spiega di aver compiuto questo passo «nella piena consapevolezza della sua gravità e anche novità, ma con una profonda serenità d’animo». Quella serenità che peraltro traspare dal suo volto in queste ultime apparizioni pubbliche. «Amare la Chiesa – spiega – significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi».
Infine, Ratzinger ricorda che chi diventa papa non ha più alcuna privacy, «appartiene sempre e totalmente a tutti». La rinuncia non significa «ritornare nel privato», tornare a fare quello che si faceva prima di diventare papa. Significa rimanere «nel servizio della preghiera», rimanere «nel recinto di san Pietro». «Non abbandono la croce», conclude, rispondendo a quanti – come il cardinale di Cracovia Stanislaw Dziwisz – hanno commentato il suo gesto paragonandolo al diverso atteggiamento di Giovanni Paolo II, rimasto sul Soglio fino alla fine. «Resto in modo nuovo presso il Signore crocifisso». (A. Tornielli)
* * *
(Pietro Meloni - Vescovo emerito di Nuoro) Il Papa è «il servo dei servi di Dio». San Gregorio Magno scelse questo “stemma episcopale” perché si sentiva chiamato a essere il più umile tra i servitori di Dio e degli uomini. L’umiltà è per lui la carta d’identità del sacerdote, del vescovo, del Papa. L’umiltà deve essere l’atteggiamento del ministro di Dio prima della chiamata al servizio, perché chi non è stato umile nella sua vita precedente «non è in grado di apprendere l’umiltà quando sia salito al luogo più alto» (Regola pastorale, I, 9). A me sembra di vedere in queste parole di Gregorio Magno il ritratto di Papa Benedetto XVI, che fin dal giorno della sua elezione si presentò al mondo come «un umile lavoratore nella vigna del Signore».
Il Papa è immagine di Cristo, che è venuto sulla terra «per servire e dare la sua vita» e ha raccomandato agli apostoli: «il più grande tra voi sia il servo di tutti» (Luca, 22, 27). Maria di Nazaret nel Magnificat ringrazia Dio perché «ha guardato l’umiltà della sua serva» (Luca, 1, 48). Gregorio Magno domandò al Signore l’umiltà dell’apostolo Pietro dinanzi al centurione di Cesarea, che lo aveva accolto nella sua casa con grande onore: «Pietro, che pure teneva il primato della Chiesa di Roma per volontà di Dio, rifiutò di accogliere i segni di una venerazione troppo grande» (Regola pastorale, II, 6). Benedetto XVI rinunciando al Papato ha manifestato la sua sincera umiltà e ricevendo sul capo le ceneri all’inizio del cammino quaresimale ha detto che Gesù non gradisce «il comportamento di chi vuole apparire, gli atteggiamenti che cercano l’applauso».
Il Papa è stato chiamato a guidare la “barca di Pietro” dallo Spirito Santo e forse ha un po’ provato lo smarrimento di Gregorio Magno, che appena elevato alla Cattedra di Pietro confidava: «Con la veste variopinta dell’episcopato io debbo rituffarmi nel mondo» (Lettera, 1, 5). Il santo vescovo non nascondeva agli amici la sua preoccupazione, dicendo: «all’improvviso, a causa dell’ordine sacro, mi sono trovato nel pelago degli affari secolari» e «sono talmente sbattuto dalle onde del mondo che dispero di poter condurre in porto questa nave»; ma serenamente riponeva la sua fiducia in Dio, riconoscendo che tutto «è avvenuto per disposizione divina» (Lettere al vescovo Leandro, 1, 1 e 1, 41).
Egli si accorgeva che «le cure assunte con il governo delle anime disperdono il cuore in varie direzioni», ma obbediva alla volontà di Dio e incoraggiava ogni ministro del Vangelo, mostrando che i carismi «non li ha ricevuti soltanto per sé, ma anche per gli altri» (Regola pastorale, I, 4-5).
Benedetto XVI ha umilmente incarnato l’ideale che san Gregorio Magno proponeva al ministro di Dio: «sia puro nel pensiero, esemplare nell’azione, discreto nel suo silenzio, utile con la sua parola: sia vicino a ogni persona con la sua condivisione e sia, più di tutti gli altri, dedito alla contemplazione; sia umile alleato di chi fa il bene, ma per il suo zelo a favore della giustizia sia inflessibile contro i vizi dei peccatori; non attenui la cura della vita interiore nelle occupazioni esterne e non tralasci di provvedere alle necessità esteriori per la sollecitudine del bene interiore» (ibidem, II, 1). Al nostro Papa non è avvenuto che, «temendo di perdere il favore degli uomini», abbia avuto «paura di dire liberamente la verità» (ibidem, II, 4). Lui ha pronunziato con franchezza parole che riecheggiano la voce di Gregorio Magno: «La Chiesa soffre di più per i cattivi esempi dei suoi, che non per i colpi che riceve dagli estranei» (Moralia, 31, 37).
Papa Ratzinger ha sentito la nostalgia del deserto e ha esperimentato la fatica di conciliare la vita attiva con la vita contemplativa, ma ha imparato da Gregorio Magno che la vera umiltà è «stare alla guida degli altri seguendo la decisione della volontà divina» (Regola pastorale, I, 6). Sulle orme del suo antico predecessore è ricorso «alla penitenza dentro di sé per ottenere il perdono degli altri con il suo pianto» e ha abitato nella sua oasi interiore sapendo che «chi veglia all’ufficio della predicazione non deve cessare dall’amoroso studio della lectio divina» (ibidem, II, 10-11). Sapeva che la guida dei fedeli è «l’arte delle arti» e che «il cuore degli ascoltatori è penetrato più facilmente dalle parole che trovano conferma nella vita di chi parla» (ibidem, I, 1 e II, 3). E da bravo musicista ha valorizzato il fascino della preghiera nel canto: «Quando eleviamo a Dio il nostro canto, noi gli apriamo la strada affinché venga nel nostro cuore e vi accenda il fuoco del suo amore» (Omelie su Ezechiele, I, 1, 15).
«Dio è umile!», esclamava Gregorio Magno (Moralia, 34, 54). Egli si domandava: «Che cosa c’è di più sublime dell’umiltà?» (Regola pastorale, III, 17, 2). E invitava i sacerdoti ad avere una «autorità umile» e i fedeli ad avere una «umiltà libera» (Omelie su Ezechiele, I, 9, 12), mostrando che nell’umiltà e nella carità del ministro dell’altare, Dio svela la «mitezza del suo animo» (Regola pastorale, II, 5).
Gli artisti hanno dipinto san Gregorio nell’immagine della “colomba”. Benedetto XVI è apparso a noi come una “colomba”.
Il gesto inatteso della sua “rinuncia” al pontificato ha gettato nello stupore e nel pianto molti sacerdoti e fedeli, ma ha contemporaneamente manifestato la sua umiltà, infondendo la certezza che «la Chiesa è di Cristo» (Discorso all’udienza generale, 13 febbraio). Nell’armonia tra fides et ratio, vivamente raccomandata da Giovanni Paolo II, Benedetto XVI è giunto serenamente alla decisione di servire la Chiesa nel silenzio e nella preghiera, ascoltando la voce di Dio, che gli ha svelato il tempo per riconoscere che la guida della Chiesa visibile richiede piene energie del corpo e dello spirito. E ora domanda ai suoi figli, come san Gregorio Magno, di essere sostenuto dalla carità della preghiera, perché «desidera trovarsi già dove spera di godere l’eterna felicità» (Omelie sul Vangelo, II, 37, 1).
* * *
Così Benedetto ha rivelato il suo cuore
di Enzo Bianchi
in “La Stampa” del 28 febbraio 2013
C’ era bisogno di questo testamento. Se il cuore di molti cattolici era stato profondamente scosso
dall’improvvisa rinuncia di Benedetto XVI al ministero petrino, le sue parole nell’ultima udienza
pubblica in piazza San Pietro hanno illuminato maggiormente quella decisione.
Significativa è stata la scelta del brano della Lettera ai cristiani di Colossi in cui l’apostolo Paolo
rende grazie a Dio per la testimonianza offerta da quella comunità: una scelta operata dal papa per
poter esprimere, sulla falsariga delle parole apostoliche, il suo ringraziamento al Signore e alla
Chiesa per la sua fede e la sua carità.
Questo discorso rivela bene il cuore di Benedetto XVI: otto anni fa ha accettato con vera
obbedienza di diventare papa, ponendo al Signore una domanda: «Perché mi chiedi questo?». A
settantotto anni, era consapevole della propria vecchiaia, di non aver fatto nulla per essere eletto, di
dover «fare un mestiere» duro e faticoso. Fu chiamato a guidare una nave in mare agitato – un mare
a tratti anche in tempesta – e diretta verso una meta con i venti contrari. Oggi, con la sua fede,
confessa di non essersi mai sentito solo, neanche quando il Signore sembrava dormire e alcuni
barcaioli non aiutavano a tenere la rotta ma facevano confusione.
La fede salda che ha sempre avuto gli fa dire che non si è sentito solo, e questo l’aveva detto in un
momento critico vissuto nella sua curia, anche se in realtà la solitudine fa parte di chi presiede una
Chiesa con una responsabilità propria e unica come quella del vescovo di Roma. Durante tutto il
suo pontificato ha però sempre insistito sul dato che i cattolici devono credere e credono che la
Chiesa è di Cristo, non è né del papa, né dei cardinali, né dei vescovi, né di qualsiasi «personaggio
cattolico». Questa distinzione tra persona e servizio hanno portato il papa alla rinuncia, evento
nuovo e grave – secondo le parole del papa – ma dettato dal suo amore per la Chiesa. Quanto diceva
sul decentramento necessario a ogni autorità nella Chiesa rispetto al Signore Gesù Cristo, il papa lo
ha anche realizzato e mostrato concretamente.
E qui ci è dato un saggio di cosa significhi obbedire alla voce di Dio presente alla coscienza di ogni
persona: Benedetto XVI ha pregato, ha chiesto la luce divina, poi ha cercato di giudicare se la scelta
avveniva per amore della Chiesa o per amore di se stesso, ha valutato se era veramente nella logica
del bene comune, bel bene massimo della Chiesa, la comunione, e quindi con decisione, fermezza,
parresia, cioè franchezza, ha manifestato ciò che gli era stato chiesto dal santuario della sua
coscienza.
In questi giorni, dopo l’atto della sua rinuncia, si susseguono molte interpretazioni sul perché di
questa decisione. Credo sia bene accettarla nei termini affermati e ribaditi da lui stesso. È un papa
che non ha mai usato la menzogna, da lui sempre ritenuta uno dei tre interdetti fondamentali
dell’etica umana e cristiana. Con il discorso all’ultima udienza, Benedetto XVI ci lascia un
testamento, pieno di fede e di speranza, offerto senza una liturgia di trionfo, senza nessuna
autocelebrazione, senza un commiato scenografico e da «grande evento» spettacolare. Un
testamento che ci ricorda che solo «la parola di verità del Vangelo è la forza della Chiesa, è la sua
vita».
Ho conosciuto il teologo Ratzinger, poi il cardinale e, poco dopo la sua elezione, ho avuto una lunga
udienza in cui ho potuto ascoltarlo e leggere assieme a lui alcuni temi ecclesiali cogenti:
l’ecumenismo e la vita religiosa. Poi l’ho incontrato altre volte, trovando in lui sempre affetto e
attenzione, oltre alla benevolenza con cui ha voluto nominarmi come esperto a due Sinodi generali
dei vescovi. L’ultima volta mi ha sorpreso, salutandomi quando ero ancora a distanza: «Ah, ecco
una vecchia conoscenza, il priore di Bose!». Mi ha anche espresso un desiderio che spero di poter
soddisfare, anche se lui non è più il papa, ma resterà sempre un testimone della signoria di Cristo e
di nessun altro.
Non sono un adulatore, ma a Benedetto XVI esprimo un grazie convinto per la sua fede e la sua
umiltà, per quello che è stato in tutta la sua vita di cristiano, di teologo, di vescovo e di cardinale,
per quello che sono stati i suoi otto anni da papa e per il suo gesto di rinuncia che aiuterà tutti anche
ad avere una visione del primato petrino più aderente al Vangelo che vuole il papa «umile
successore del Pescatore di Galilea» e «servo dei servi del Signore».
* * *
La scelta di Benedetto XVI e l’esercizio dell’umiltà. Sulle orme di Gregorio Magno
(Pietro Meloni - Vescovo emerito di Nuoro) Il Papa è «il servo dei servi di Dio». San Gregorio Magno scelse questo “stemma episcopale” perché si sentiva chiamato a essere il più umile tra i servitori di Dio e degli uomini. L’umiltà è per lui la carta d’identità del sacerdote, del vescovo, del Papa. L’umiltà deve essere l’atteggiamento del ministro di Dio prima della chiamata al servizio, perché chi non è stato umile nella sua vita precedente «non è in grado di apprendere l’umiltà quando sia salito al luogo più alto» (Regola pastorale, I, 9). A me sembra di vedere in queste parole di Gregorio Magno il ritratto di Papa Benedetto XVI, che fin dal giorno della sua elezione si presentò al mondo come «un umile lavoratore nella vigna del Signore».
Il Papa è immagine di Cristo, che è venuto sulla terra «per servire e dare la sua vita» e ha raccomandato agli apostoli: «il più grande tra voi sia il servo di tutti» (Luca, 22, 27). Maria di Nazaret nel Magnificat ringrazia Dio perché «ha guardato l’umiltà della sua serva» (Luca, 1, 48). Gregorio Magno domandò al Signore l’umiltà dell’apostolo Pietro dinanzi al centurione di Cesarea, che lo aveva accolto nella sua casa con grande onore: «Pietro, che pure teneva il primato della Chiesa di Roma per volontà di Dio, rifiutò di accogliere i segni di una venerazione troppo grande» (Regola pastorale, II, 6). Benedetto XVI rinunciando al Papato ha manifestato la sua sincera umiltà e ricevendo sul capo le ceneri all’inizio del cammino quaresimale ha detto che Gesù non gradisce «il comportamento di chi vuole apparire, gli atteggiamenti che cercano l’applauso».
Il Papa è stato chiamato a guidare la “barca di Pietro” dallo Spirito Santo e forse ha un po’ provato lo smarrimento di Gregorio Magno, che appena elevato alla Cattedra di Pietro confidava: «Con la veste variopinta dell’episcopato io debbo rituffarmi nel mondo» (Lettera, 1, 5). Il santo vescovo non nascondeva agli amici la sua preoccupazione, dicendo: «all’improvviso, a causa dell’ordine sacro, mi sono trovato nel pelago degli affari secolari» e «sono talmente sbattuto dalle onde del mondo che dispero di poter condurre in porto questa nave»; ma serenamente riponeva la sua fiducia in Dio, riconoscendo che tutto «è avvenuto per disposizione divina» (Lettere al vescovo Leandro, 1, 1 e 1, 41).
Egli si accorgeva che «le cure assunte con il governo delle anime disperdono il cuore in varie direzioni», ma obbediva alla volontà di Dio e incoraggiava ogni ministro del Vangelo, mostrando che i carismi «non li ha ricevuti soltanto per sé, ma anche per gli altri» (Regola pastorale, I, 4-5).
Benedetto XVI ha umilmente incarnato l’ideale che san Gregorio Magno proponeva al ministro di Dio: «sia puro nel pensiero, esemplare nell’azione, discreto nel suo silenzio, utile con la sua parola: sia vicino a ogni persona con la sua condivisione e sia, più di tutti gli altri, dedito alla contemplazione; sia umile alleato di chi fa il bene, ma per il suo zelo a favore della giustizia sia inflessibile contro i vizi dei peccatori; non attenui la cura della vita interiore nelle occupazioni esterne e non tralasci di provvedere alle necessità esteriori per la sollecitudine del bene interiore» (ibidem, II, 1). Al nostro Papa non è avvenuto che, «temendo di perdere il favore degli uomini», abbia avuto «paura di dire liberamente la verità» (ibidem, II, 4). Lui ha pronunziato con franchezza parole che riecheggiano la voce di Gregorio Magno: «La Chiesa soffre di più per i cattivi esempi dei suoi, che non per i colpi che riceve dagli estranei» (Moralia, 31, 37).
Papa Ratzinger ha sentito la nostalgia del deserto e ha esperimentato la fatica di conciliare la vita attiva con la vita contemplativa, ma ha imparato da Gregorio Magno che la vera umiltà è «stare alla guida degli altri seguendo la decisione della volontà divina» (Regola pastorale, I, 6). Sulle orme del suo antico predecessore è ricorso «alla penitenza dentro di sé per ottenere il perdono degli altri con il suo pianto» e ha abitato nella sua oasi interiore sapendo che «chi veglia all’ufficio della predicazione non deve cessare dall’amoroso studio della lectio divina» (ibidem, II, 10-11). Sapeva che la guida dei fedeli è «l’arte delle arti» e che «il cuore degli ascoltatori è penetrato più facilmente dalle parole che trovano conferma nella vita di chi parla» (ibidem, I, 1 e II, 3). E da bravo musicista ha valorizzato il fascino della preghiera nel canto: «Quando eleviamo a Dio il nostro canto, noi gli apriamo la strada affinché venga nel nostro cuore e vi accenda il fuoco del suo amore» (Omelie su Ezechiele, I, 1, 15).
«Dio è umile!», esclamava Gregorio Magno (Moralia, 34, 54). Egli si domandava: «Che cosa c’è di più sublime dell’umiltà?» (Regola pastorale, III, 17, 2). E invitava i sacerdoti ad avere una «autorità umile» e i fedeli ad avere una «umiltà libera» (Omelie su Ezechiele, I, 9, 12), mostrando che nell’umiltà e nella carità del ministro dell’altare, Dio svela la «mitezza del suo animo» (Regola pastorale, II, 5).
Gli artisti hanno dipinto san Gregorio nell’immagine della “colomba”. Benedetto XVI è apparso a noi come una “colomba”.
Il gesto inatteso della sua “rinuncia” al pontificato ha gettato nello stupore e nel pianto molti sacerdoti e fedeli, ma ha contemporaneamente manifestato la sua umiltà, infondendo la certezza che «la Chiesa è di Cristo» (Discorso all’udienza generale, 13 febbraio). Nell’armonia tra fides et ratio, vivamente raccomandata da Giovanni Paolo II, Benedetto XVI è giunto serenamente alla decisione di servire la Chiesa nel silenzio e nella preghiera, ascoltando la voce di Dio, che gli ha svelato il tempo per riconoscere che la guida della Chiesa visibile richiede piene energie del corpo e dello spirito. E ora domanda ai suoi figli, come san Gregorio Magno, di essere sostenuto dalla carità della preghiera, perché «desidera trovarsi già dove spera di godere l’eterna felicità» (Omelie sul Vangelo, II, 37, 1).
L'Osservatore Romano, 28 febbraio 2013.
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Così Benedetto ha rivelato il suo cuore
di Enzo Bianchi
in “La Stampa” del 28 febbraio 2013
C’ era bisogno di questo testamento. Se il cuore di molti cattolici era stato profondamente scosso
dall’improvvisa rinuncia di Benedetto XVI al ministero petrino, le sue parole nell’ultima udienza
pubblica in piazza San Pietro hanno illuminato maggiormente quella decisione.
Significativa è stata la scelta del brano della Lettera ai cristiani di Colossi in cui l’apostolo Paolo
rende grazie a Dio per la testimonianza offerta da quella comunità: una scelta operata dal papa per
poter esprimere, sulla falsariga delle parole apostoliche, il suo ringraziamento al Signore e alla
Chiesa per la sua fede e la sua carità.
Questo discorso rivela bene il cuore di Benedetto XVI: otto anni fa ha accettato con vera
obbedienza di diventare papa, ponendo al Signore una domanda: «Perché mi chiedi questo?». A
settantotto anni, era consapevole della propria vecchiaia, di non aver fatto nulla per essere eletto, di
dover «fare un mestiere» duro e faticoso. Fu chiamato a guidare una nave in mare agitato – un mare
a tratti anche in tempesta – e diretta verso una meta con i venti contrari. Oggi, con la sua fede,
confessa di non essersi mai sentito solo, neanche quando il Signore sembrava dormire e alcuni
barcaioli non aiutavano a tenere la rotta ma facevano confusione.
La fede salda che ha sempre avuto gli fa dire che non si è sentito solo, e questo l’aveva detto in un
momento critico vissuto nella sua curia, anche se in realtà la solitudine fa parte di chi presiede una
Chiesa con una responsabilità propria e unica come quella del vescovo di Roma. Durante tutto il
suo pontificato ha però sempre insistito sul dato che i cattolici devono credere e credono che la
Chiesa è di Cristo, non è né del papa, né dei cardinali, né dei vescovi, né di qualsiasi «personaggio
cattolico». Questa distinzione tra persona e servizio hanno portato il papa alla rinuncia, evento
nuovo e grave – secondo le parole del papa – ma dettato dal suo amore per la Chiesa. Quanto diceva
sul decentramento necessario a ogni autorità nella Chiesa rispetto al Signore Gesù Cristo, il papa lo
ha anche realizzato e mostrato concretamente.
E qui ci è dato un saggio di cosa significhi obbedire alla voce di Dio presente alla coscienza di ogni
persona: Benedetto XVI ha pregato, ha chiesto la luce divina, poi ha cercato di giudicare se la scelta
avveniva per amore della Chiesa o per amore di se stesso, ha valutato se era veramente nella logica
del bene comune, bel bene massimo della Chiesa, la comunione, e quindi con decisione, fermezza,
parresia, cioè franchezza, ha manifestato ciò che gli era stato chiesto dal santuario della sua
coscienza.
In questi giorni, dopo l’atto della sua rinuncia, si susseguono molte interpretazioni sul perché di
questa decisione. Credo sia bene accettarla nei termini affermati e ribaditi da lui stesso. È un papa
che non ha mai usato la menzogna, da lui sempre ritenuta uno dei tre interdetti fondamentali
dell’etica umana e cristiana. Con il discorso all’ultima udienza, Benedetto XVI ci lascia un
testamento, pieno di fede e di speranza, offerto senza una liturgia di trionfo, senza nessuna
autocelebrazione, senza un commiato scenografico e da «grande evento» spettacolare. Un
testamento che ci ricorda che solo «la parola di verità del Vangelo è la forza della Chiesa, è la sua
vita».
Ho conosciuto il teologo Ratzinger, poi il cardinale e, poco dopo la sua elezione, ho avuto una lunga
udienza in cui ho potuto ascoltarlo e leggere assieme a lui alcuni temi ecclesiali cogenti:
l’ecumenismo e la vita religiosa. Poi l’ho incontrato altre volte, trovando in lui sempre affetto e
attenzione, oltre alla benevolenza con cui ha voluto nominarmi come esperto a due Sinodi generali
dei vescovi. L’ultima volta mi ha sorpreso, salutandomi quando ero ancora a distanza: «Ah, ecco
una vecchia conoscenza, il priore di Bose!». Mi ha anche espresso un desiderio che spero di poter
soddisfare, anche se lui non è più il papa, ma resterà sempre un testimone della signoria di Cristo e
di nessun altro.
Non sono un adulatore, ma a Benedetto XVI esprimo un grazie convinto per la sua fede e la sua
umiltà, per quello che è stato in tutta la sua vita di cristiano, di teologo, di vescovo e di cardinale,
per quello che sono stati i suoi otto anni da papa e per il suo gesto di rinuncia che aiuterà tutti anche
ad avere una visione del primato petrino più aderente al Vangelo che vuole il papa «umile
successore del Pescatore di Galilea» e «servo dei servi del Signore».