«Una persona fragile col suo bagaglio di colpe e miserie che attendono il perdono divino e la conversione». E ancora: «Consacrato al culto non doveva impastoiarsi nella politica e nella gestione delle strutture della società, ma doveva essere il tramite con Dio dell’esistenza del popolo, nella libertà da ogni vincolo o interesse concreto, vivendo solo delle decime offerte dalla comunità per il sostentamento dei ministri di Dio».È il profilo biografico del sacerdote tracciato nel salmo 16, il cuore della prima meditazione proposta venerdì mattina, 22 febbraio, dal cardinale Gianfranco Ravasi, prefetto del Pontificio Consiglio della Cultura, agli esercizi spirituali in corso in Vaticano alla presenza del Papa.
Il tema di riflessione è stato «L’uomo immortale»; il cardinale l’ha sviluppato seguendo due canti, nei quali si parla della presenza dei sacerdoti al tempio e della voce sacerdotale. In essi, ha detto, si riscontra un unico messaggio pasquale di immortalità nella comunione con Dio. Nel primo è l’autore che proclama «una professione d’amore verso il suo Signore» e una confessione di colpa per un passato di peccato. È a questo punto che il sacerdote salmista mostra la centralità del suo ministero: «la scelta totale per Dio, l’appartenenza a lui e al suo servizio».
Quanto al secondo sacerdote il cardinale si è riferito all’«autore di quella mirabile “storia di un’anima” o “canto del cuore”», che è il salmo 73. Anche lui racconta la sua vicenda autobiografica che comprende un periodo di crisi. «Sorgente di questa tentazione di abbandono della fede è lo scandalo dell’ingiustizia trionfante senza che Dio intervenga».
È significativo, ha poi commentato il porporato, che siano due sacerdoti a «squarciare l’orizzonte escatologico». Negli oranti del salterio si trovano molti fratelli che «non attendono un “oltre”, che non intravedono se non l’ombra dello Sheol ove l’esistenza diventa spettrale e senza luce e vita». Proprio per queste presenze bibliche così esitanti, «dobbiamo accogliere e sostenere con rispetto i nostri fratelli incerti e dubbiosi e coloro che, nella disperazione della loro esistenza, sono simili al cantore del salmo 88». Accanto a questo soffio di morte esiste, però, il messaggio pasquale dei sacerdoti.
«L’uomo, la famiglia, l’anziano» è invece il tema della seconda meditazione prevista per questa giornata. «Nonostante le crisi — ha esordito il porporato nella trattazione dell’argomento — le critiche, le deformazioni, le degenerazioni e le devastazioni che subisce, la famiglia rimane un cardine della società». Nel salmo 128 viene tracciato il ritratto di un interno di famiglia in un giorno festivo. La famiglia è simile a «una fiamma isolata dietro le pareti di casa, il cui calore però dovrebbe trasmettersi all’esterno». Purtroppo, ciò non accade, perché «l’emblema della società contemporanea è la porta blindata che esclude ogni contatto persino col vicino di pianerottolo». Infatti, «la paura dell’altro, l’individualismo, la solitudine immerge quella fiamma in un’atmosfera asfittica che la spegne, oppure isolandola totalmente la fa esplodere bruciando chi vi sta attorno». Nelle parole del salmo 128 si trova la sorgente della felicità della famiglia: «Beato chi teme il Signore, e cammina nelle sue vie». La fede vissuta è, quindi, «il principio che regge l’esistenza di questa famiglia e la rende felice, è la roccia sulla quale sta salda questa casa». In questo interno familiare si introduce una figura che «sta divenendo sempre più rilevante ai nostri giorni, i nonni», l’anziano che nel salterio, ha detto il cardinale nella seconda predica di questa mattina, «riveste una funzione importante a livello comunitario». La Bibbia lo esalta, «pur nella consapevolezza della sua fragilità umana non solo fisica ma anche morale».
La vecchiaia, ha detto il porporato, non è da giudicare «solo come stato cronologico». Essa è soprattutto, «una condizione esistenziale: se sostenuta da ideali, da valori spirituali, dalla speranza, tutto si trasforma e anche la galleria oscura delle prove e della fragilità fisica viene superata intuendo la luce finale del Signore che non abbandona».
Nel pomeriggio di giovedì 21 febbraio il cardinale, per l’ultima meditazione della giornata, aveva proposto una riflessione sulla musica sacra, trattando il tema «L’uomo sapiente e felice». I salmi, aveva detto, sono poesia, canto e musica e per questo seguono la via pulchritudinis per pregare e per parlare del Dio splendido e magnifico. «Bellezza e fede — aveva detto — sono sorelle perché entrambe cercano l’infinito e l’eterno, dato che l’arte — come osserva il pittore Paul Klee — non rappresenta il visibile, ma l’invisibile che è nel visibile». Ricorrendo a «un’assonanza etimologica», il porporato aveva detto che «la ferita inferta dall’arte all’umanità è una “feritoia” aperta sull’assoluto, sul trascendente, sul divino». Anche il poeta Paul Valéry affermava che il pittore «non deve dipingere quello che vede, ma quello che vedrà». Questo perché la fede, come l’arte deve «condurci all’escatologia, cioè alla pienezza di senso». Ma l’arte è anche «ferita nel corpo vivo, crea tensione, anche sofferenza come quando una piaga è aperta nella nostra carne». Dalla contemplazione di un quadro di Caravaggio o del Giudizio michelangiolesco della Sistina, ha fatto notare il cardinale, «non si può uscire indenni». Si avverte, cioè una sorta di «inquietudine». Infatti, la meta comune della bellezza e della fede è «l’infinito divino che per l’arte è un gorgo di luce e per la fede è una persona che ti attende. E per raggiungere quella meta, che è oltre i sensi e la stessa razionalità, è necessaria l’“ispirazione”, cioè la grazia».
La liturgia, aveva detto ancora il porporato, deve «ritornare — sia pure nelle nuove grammatiche che l’arte, la musica e l’architettura contemporanea hanno adottato — a essere la sede della bellezza che si comunica con la fede, riverberando insieme la presenza di Dio, bellezza suprema». Per questo, la liturgia è, un po’ come l’arte, «mistero e svelamento», ma anche «trascendenza e illuminazione».
L'Osservatore Romano, 23 febbraio 2013.
Il tema di riflessione è stato «L’uomo immortale»; il cardinale l’ha sviluppato seguendo due canti, nei quali si parla della presenza dei sacerdoti al tempio e della voce sacerdotale. In essi, ha detto, si riscontra un unico messaggio pasquale di immortalità nella comunione con Dio. Nel primo è l’autore che proclama «una professione d’amore verso il suo Signore» e una confessione di colpa per un passato di peccato. È a questo punto che il sacerdote salmista mostra la centralità del suo ministero: «la scelta totale per Dio, l’appartenenza a lui e al suo servizio».
Quanto al secondo sacerdote il cardinale si è riferito all’«autore di quella mirabile “storia di un’anima” o “canto del cuore”», che è il salmo 73. Anche lui racconta la sua vicenda autobiografica che comprende un periodo di crisi. «Sorgente di questa tentazione di abbandono della fede è lo scandalo dell’ingiustizia trionfante senza che Dio intervenga».
È significativo, ha poi commentato il porporato, che siano due sacerdoti a «squarciare l’orizzonte escatologico». Negli oranti del salterio si trovano molti fratelli che «non attendono un “oltre”, che non intravedono se non l’ombra dello Sheol ove l’esistenza diventa spettrale e senza luce e vita». Proprio per queste presenze bibliche così esitanti, «dobbiamo accogliere e sostenere con rispetto i nostri fratelli incerti e dubbiosi e coloro che, nella disperazione della loro esistenza, sono simili al cantore del salmo 88». Accanto a questo soffio di morte esiste, però, il messaggio pasquale dei sacerdoti.
«L’uomo, la famiglia, l’anziano» è invece il tema della seconda meditazione prevista per questa giornata. «Nonostante le crisi — ha esordito il porporato nella trattazione dell’argomento — le critiche, le deformazioni, le degenerazioni e le devastazioni che subisce, la famiglia rimane un cardine della società». Nel salmo 128 viene tracciato il ritratto di un interno di famiglia in un giorno festivo. La famiglia è simile a «una fiamma isolata dietro le pareti di casa, il cui calore però dovrebbe trasmettersi all’esterno». Purtroppo, ciò non accade, perché «l’emblema della società contemporanea è la porta blindata che esclude ogni contatto persino col vicino di pianerottolo». Infatti, «la paura dell’altro, l’individualismo, la solitudine immerge quella fiamma in un’atmosfera asfittica che la spegne, oppure isolandola totalmente la fa esplodere bruciando chi vi sta attorno». Nelle parole del salmo 128 si trova la sorgente della felicità della famiglia: «Beato chi teme il Signore, e cammina nelle sue vie». La fede vissuta è, quindi, «il principio che regge l’esistenza di questa famiglia e la rende felice, è la roccia sulla quale sta salda questa casa». In questo interno familiare si introduce una figura che «sta divenendo sempre più rilevante ai nostri giorni, i nonni», l’anziano che nel salterio, ha detto il cardinale nella seconda predica di questa mattina, «riveste una funzione importante a livello comunitario». La Bibbia lo esalta, «pur nella consapevolezza della sua fragilità umana non solo fisica ma anche morale».
La vecchiaia, ha detto il porporato, non è da giudicare «solo come stato cronologico». Essa è soprattutto, «una condizione esistenziale: se sostenuta da ideali, da valori spirituali, dalla speranza, tutto si trasforma e anche la galleria oscura delle prove e della fragilità fisica viene superata intuendo la luce finale del Signore che non abbandona».
Nel pomeriggio di giovedì 21 febbraio il cardinale, per l’ultima meditazione della giornata, aveva proposto una riflessione sulla musica sacra, trattando il tema «L’uomo sapiente e felice». I salmi, aveva detto, sono poesia, canto e musica e per questo seguono la via pulchritudinis per pregare e per parlare del Dio splendido e magnifico. «Bellezza e fede — aveva detto — sono sorelle perché entrambe cercano l’infinito e l’eterno, dato che l’arte — come osserva il pittore Paul Klee — non rappresenta il visibile, ma l’invisibile che è nel visibile». Ricorrendo a «un’assonanza etimologica», il porporato aveva detto che «la ferita inferta dall’arte all’umanità è una “feritoia” aperta sull’assoluto, sul trascendente, sul divino». Anche il poeta Paul Valéry affermava che il pittore «non deve dipingere quello che vede, ma quello che vedrà». Questo perché la fede, come l’arte deve «condurci all’escatologia, cioè alla pienezza di senso». Ma l’arte è anche «ferita nel corpo vivo, crea tensione, anche sofferenza come quando una piaga è aperta nella nostra carne». Dalla contemplazione di un quadro di Caravaggio o del Giudizio michelangiolesco della Sistina, ha fatto notare il cardinale, «non si può uscire indenni». Si avverte, cioè una sorta di «inquietudine». Infatti, la meta comune della bellezza e della fede è «l’infinito divino che per l’arte è un gorgo di luce e per la fede è una persona che ti attende. E per raggiungere quella meta, che è oltre i sensi e la stessa razionalità, è necessaria l’“ispirazione”, cioè la grazia».
La liturgia, aveva detto ancora il porporato, deve «ritornare — sia pure nelle nuove grammatiche che l’arte, la musica e l’architettura contemporanea hanno adottato — a essere la sede della bellezza che si comunica con la fede, riverberando insieme la presenza di Dio, bellezza suprema». Per questo, la liturgia è, un po’ come l’arte, «mistero e svelamento», ma anche «trascendenza e illuminazione».