lunedì 18 febbraio 2013

Come Mosè sulla cima del colle....





Mosè, sulla vetta del colle, prega con le mani ferme fino al tramonto del sole, mentre, nella valle sottostante il popolo d’Israele combatte contro Amalek: è l’icona biblica scelta dal cardinale Gianfranco Ravasi per rappresentare il futuro della presenza di Benedetto XVI nella Chiesa. «Questa immagine — ha detto nell’introdurre le meditazioni per gli esercizi spirituali, iniziati nel pomeriggio di ieri, domenica 17 febbraio, in Vaticano, alla presenza del Papa — rappresenta la sua funzione principale per la Chiesa», cioè «l’intercessione, intercedere. 
Noi rimarremo nella “valle”, quella valle dove c’è Amalek, dove c’è la polvere, dove ci sono le paure, i terrori anche, gli incubi, ma anche le speranze, dove lei è rimasto in questi otto anni con noi. D’ora in avanti, però, noi sapremo che, sul monte, c’è la sua intercessione per noi». E «qualche volta — ha aggiunto — forse qualcuno di noi potrà fare come Giosuè e Hur, i due che salgono al monte, e anche reggerle le braccia per la preghiera». E sempre nello spirito del racconto biblico, il porporato ha concluso il suo saluto iniziale formulando, «a nome di tutti», un augurio: «Mosè — ha detto — aveva 120 anni quando morì. I suoi occhi però non gli si erano mai appannati e il vigore della sua mente non era mai venuto meno. Questo è certamente un grande augurio che vogliamo rivolgerle. Anche perché nella tradizione ebraica, attorno a questo momento, ha intessuto dei racconti deliziosi, molto teneri nei confronti di Mosè e di questo suo attendere tutto il percorso della sua esistenza, sino a 120 anni».
Prima di iniziare le meditazioni il porporato ha voluto offrire una rappresentazione simbolica degli esercizi spirituali come «un liberare l’anima dal terriccio delle cose, dal fango del peccato, dalla sabbia della banalità, dalle ortiche ed erbacce delle chiacchiere». Poi ha proposto quelli che ha definito i punti cardinali che accompagneranno «il pellegrinaggio spirituale» degli esercizi spirituali. Si tratta dei quattro verbi della preghiera: respirare, pensare, lottare, amare.
Questa mattina, lunedì 18 febbraio, invece la riflessione è entrata nell’argomento posto come sottotitolo al tema generale degli esercizi, cioè: «Ars orandi, ars credendi. Il volto di Dio e il volto dell’uomo nella preghiera salmica». 
Il pellegrinaggio spirituale alla scoperta del “Volto di Dio” è iniziato all’interno del salterio, la base della preghiera quotidiana della Chiesa. Una ricchezza che faceva esclamare a sant’Agostino in una delle sue Enarrationes super Psalmos, quella sul salmo 137: Psalterium meum, gaudium meum! Il rapporto tra Agostino e la Bibbia è ancora più evidente se si pensa che nei suoi scritti vi sono più di sessantamila citazioni bibliche, delle quali ventimila dell’Antico Testamento e di queste ben undicimilacinquecento dei salmi. D’altronde i padri della Chiesa, ha detto il cardinale, «non parlavano della Bibbia, ma parlavano la Bibbia». 
La prima tappa parte dai piedi dell’Hermon, dove le acque del Giordano scaturiscono dalla roccia. È un inizio segnato dalla preghiera e dalla fede, che si nutrono della grazia divina che si rivela. Qual è la prima grande teofania, il volto con cui Dio si presenta? si è chiesto il porporato. «La risposta è nella Bibbia — ha detto — la rivelazione è nella sua parola, la sua grazia si affida alla parola». Nella creazione Dio disse: «Sia la luce e la luce fu». Per la Bibbia, «la creazione è una parola, un evento sonoro. Senza la parola non esiste la comunicazione fondamentale, potente, efficace». Questa prima «epifania divina» è quindi proprio quella della sua parola. 
Il Nuovo Testamento, ha aggiunto il cardinale, «idealmente è aperto dall’inno del prologo di Giovanni». In principio era la parola, «recuperare la parola è quindi un elemento fondamentale». L’esperienza del Dio del Sinai, «dalla cui vetta scendono le dieci parole, che saranno strutturali per l’esistenza d’Israele e per la nostra fede, il decalogo », viene riassunta da Mosè con una frase: «Dio vi parlò in mezzo al fuoco: voce di parole voi ascoltavate, immagine alcuna voi non vedeste, era solo una voce». La parola di Dio, cioè, «risuona ora nella Scrittura, in particolare nella Torah». Pertanto, dobbiamo «celebrare la grazia divina, che si rivela con la parola e che questa parola ci preceda e ci ecceda, ci superi è espresso in maniera sorprendente da san Paolo». 
Il cardinale ha poi preso in considerazione due salmi: il 119 e il 23. Nel primo si sente «vibrare l’amore per la parola che brilla nella nebbia o nel buio dell’esistenza». La parola paragonata a una lampada che illumina i passi. Questo salmo è simile a una «melopea orientale», è analogo alle «onde di una risacca che sulla spiaggia coprono sempre lo stesso spazio, ma in forme ininterrottamente mutevoli». Quando ci si lascia «conquistare da questo canto della parola di Dio, dal suo ritmo simile a quello del “moto perpetuo” musicale», veniamo coinvolti e travolti «dalla sua forza liberante e si diventa ascoltatori obbedienti e praticanti». Così «esplode la professione d’amore che riassume quasi in un sospiro l’appassionata dichiarazione della donna del cantico». 
Il salmo 23, quello della fede e della fiducia, indica due elementi: il simbolo del pastore-guida e della cena e dell’ospite. Lungo le strade pericolose della vita, il pastore è compagno di viaggio, condivide con noi la strada. La meta terminale di questo cammino è il tempio, dove ci attende la mensa imbandita del sacrificio, cioè «la comunione, l’intimità, l’amore, espresso proprio dal simbolo della mensa».
Nella seconda meditazione della mattinata il cardinale Ravasi ha preso in considerazione la seconda teofania, quella del Creatore «che opera proprio attraverso la sua prima epifania, la parola». Lo ha fatto partendo dal salmo 19, nel quale «gli spazi astrali sono personificati come testimoni entusiasti dell’opera creatrice di Dio, sono “narratori”, cioè araldi della sua potenza gloriosa». Il salmista, ha detto il porporato, affida alla notte e al giorno il ruolo di «messaggeri che trasmettono di postazione in postazione la grande notizia della creazione». Spazio e tempo sono coinvolti, perciò, in «un vero e proprio “kerygma”, in un vangelo di luce e di gioia». 
L’uomo, da delegato del Creatore a «coltivare e custodire la terra», si è comportato da tiranno e ha fatto sì che la creazione a lui affidata sia stata spesso «umiliata e devastata». Ora non è più «in grado di ascoltare il messaggio segreto celato nelle creature». E una spiritualità che «ignora l’orizzonte terrestre, che non sa goderne la bellezza delle forme e la ricchezza dei frutti, che invita quasi ad astrarsi decollando dal creato verso intimità disincarnate non appartiene al vigoroso realismo biblico e all’incarnazione cristiana». A questo proposito, il cardinale ha ricordato un «curioso aforisma rabbinico», il quale ammoniva «che alla fine della vita saremo giudicati anche sui piaceri e i godimenti giusti e leciti da noi vissuti in pienezza». Da qui deriva l’importanza di un’autentica ascesi, che «non è solo negazione, ma è anche armonia tra corporeità e interiorità, è rinuncia ed esercizio per una pienezza genuina». 
L’epifania cosmica divina, ha proseguito il cardinale, ripropone il dialogo tra fede e scienza. La prima, ha detto, «si dedica alla scena dell’essere, al fenomeno, ai dati e ai fatti, al “come”; la religione, invece, si consacra al fondamento, cioè al senso ultimo dell’essere, al “perché”». Il credente, quindi, si trova nella situazione di volare negli spazi «infiniti dell’essere e dell’esistere», con le ali della fede e della ragione. Vi è differenza, ma non opposizione, tra la via della preghiera e della teologia, che «prima intuisce e incontra il mistero del divino e poi cerca di penetrarlo e decifrarlo», e quella della scienza, che «esige la verifica e l’analisi prima di ogni adesione e sintesi». L’armonia tra queste due vie viene esaltata nel salmo 19, dove si trova un inno a un duplice sole. Il primo è «l’astro che sfolgora nel cielo, descritto come uno sposo», l’altro, che brilla nel cielo dello spirito, è «la Torah, la parola di Dio», che irradia il suo splendore «nell’orizzonte delle coscienze, ne scioglie il gelo, vi effonde luce e speranza». 
Dopo il Dio delle grazie e il Dio creatore, il cardinale Ravasi per la meditazione di questo pomeriggio proporrà il Dio della liturgia seguendo i versetti del salmo 87.
L'Osservatore Romano

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"Esercizi spirituali"
di Gianfranco Ravasi
in “Il Sole 24 Ore” del 17 febbraio 2013
Oggi, alle ore 18, nella cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico, inizierò la mia predicazione
degli Esercizi Spirituali per la Curia romana. Davanti a me, dopo secoli e secoli, circondato dai cardinali e dai
vescovi curiali, sarà presente per la prima volta un Papa che ha formalmente rinunciato al suo officio
pastorale universale, anche se temporaneamente ancora nelle sue funzioni. Non è certo retorica confessare
l'emozione che proverò iniziando un percorso settimanale di isolamento dalla vera e propria bufera mediatica
che dallo scorso 11 febbraio, il giorno dell'annuncio di quell'atto di rinuncia, si è scatenata nel mondo.
Un'emozione che è, al tempo stesso, intima, perché è a questo Pontefice che devo il mio essere cardinale:
sono stato suo collaboratore per oltre cinque anni, oggetto di costante affetto e di fiducia da parte sua. Mi
soffermerò, allora, proprio su questi due eventi: da un lato, le giornate degli Esercizi Spirituali che
trascorreremo insieme; d'altro lato, quella rinuncia che rivela certamente il coraggio e la grandezza della persona
Ratzinger, ma anche il suo amore per la Chiesa come Papa. E lo faremo risalendo al più celebre antefatto
certo.
Il mio ciclo di predicazione - che verrà pubblicato subito dopo, agli inizi di marzo, col titolo L'incontro -
si staccherà dalla contingenza e respirerà, proprio secondo il desiderio di Benedetto XVI, l'atmosfera dell'anima
che nella preghiera, nell'ascolto e nel silenzio trova il suo respiro. È lungo questo sentiero d'altura che si vive
la fede autentica: infatti, un antico asserto latino affermava che lex orandi, lex credendi: la guida, la norma
per il credere genuino è la via della preghiera. Anzi, idealmente trasformerò quel motto in ars orandi, ars
credendi, perché pregare è un'arte, un esercizio di bellezza, di canto, di liberazione interiore.
È ascesi e ascesa, impegno rigoroso, ma anche volo lieve dell'anima verso Dio. Il tracciato sarà offerto dai
Salmi, la raccolta biblica di preghiere sulla quale Dio stesso ha posto il suo sigillo, tant'è vero che il teologo
martire, vittima del nazismo, Dietrich Bonhoeffer osservava che «se la Bibbia contiene un libro di preghiere,
dobbiamo dedurre che la parola di Dio non è solo quella che egli vuole rivolgere a noi, ma è anche quella che
egli vuole sentirsi rivolgere da noi». In questa esperienza il credente ritrova la propria identità
spirituale.
Per questo, due saranno i movimenti dell'itinerario che proporrò nelle 17 prediche di questa settimana: da un
lato, il volto di Dio, che si rivela all'orante e, dall'altro, il volto dell'uomo che pregando scopre se stesso
nella sua fragilità e miseria, ma anche nella sua grandezza e gloria. Come scriveva nel 1548 sant'Ignazio di
Loyola, in apertura al celebre testo Gli Esercizi Spirituali, evocando gli atti fisici del camminare,
passeggiare, correre, «esaminare la coscienza, meditare, contemplare, pregare» sono «modi di preparare e
disporre l'anima, così da scartare da sé tutte le affezioni disordinate, cercare e trovare la volontà divina nella
disposizione della propria vita, per la salvezza dell'anima». Un testimone al di sopra di ogni sospetto
apologetico, Roland Barthes, nel 1971 affermava che «non occorre essere né cattolici né cristiani, né credenti né
umanisti per essere interessati agli Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola». Un'esperienza anche "laica",
quindi, come l'aveva descritta quella straordinaria donna eliminata ad Auschwitz il 30 novembre 1943 a soli 29
anni, Etty Hillesum. Pochi mesi prima, nel suo Diario, recentemente riedito da Adelphi, confessava: «Dentro
di me c'è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c'è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente è
coperta di pietra e di sabbia: in quel momento Dio è sepolto, bisogna allora dissotterrarlo di nuovo».
Ora, come dicevo, in attesa di entrare nel prossimo conclave per l'elezione di un nuovo successore di
Pietro, quando ogni mia testimonianza sarà esclusa secondo le norme della costituzione apostolica Universi
Dominici Gregis, emessa da Giovanni Paolo II il 22 febbraio 1996, vorrei evocare sinteticamente il più famoso
atto di rinuncia che la storia ci ha consegnato. Altri eventi simili sono più confusi e oscuri o non ben
documentati: è, ad esempio, il caso di Gregorio XII che rinunciò nel 1415, in un periodo particolarmente
turbolento per la Chiesa con la presenza di vari antipapi.
Che l'atto sia possibile è contemplato anche nell'attuale Codice di diritto canonico, promulgato da Giovanni
Paolo II il 25 gennaio 1983. Il canone 332, al paragrafo 2, recita infatti che «nel caso in cui il Romano Pontefice
rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente


(rite) manifestata, non si richiede invece che qualcuno (a quopiam) la accetti».
Anche a prescindere dalle dispute sull'interpretazione del passo dell'Inferno dantesco (III, 59-6o) ove
in scena è «l'ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto», certo è che la figura di Pietro di
Angelerio, molisano, nato attorno al 1209-10, asceta del monte Morrone, fondatore di una congregazione di
eremiti, rimane nella memoria di tutti per la sua vicenda così originale. Dopo la morte di Niccolò IV nel
1292, i pochi cardinali si riunirono in conclave prima a Roma, poi a Perugia, per un paio d'anni, con
interruzioni e senza esito per contrasti interni. Alla fine - su impulso anche del re Carlo II lo Zoppo d'Angiò -
elessero all'unanimità proprio l'eremita Pietro del Morrone. Il 28 luglio 1294 faceva il suo ingresso a L'Aquila
a dorso di un asino, come Gesù a Gerusalemme, sceglieva il nome di Celestino V, forse per ragioni simboliche
(legame con le uniche sue forze, quelle celesti) e il 29 agosto veniva consacrato papa di Roma, sempre a
L'Aquila.
Un'altra figura mistica di alto profilo come lacopone da Todi lo ammonì subito sui rischi inerenti a un
ufficio così elevato e oggetto di contese. La semplicità del monaco, gli intrighi politici ed ecclesiastici,
l'incombente presenza del cardinale Benedetto Caetani, il futuro Bonifacio VIII, ben presto gli crearono una
situazione difficile, nonostante la popolarità di cui godeva, e così egli maturò la decisione di dimettersi. L'atto
formale di rinuncia avvenne a Napoli, ove si era trasferito, davanti ai cardinali, il 13 dicembre 1294, dopo un
papato di soli cinque mesi e nove giorni. Depose i paramenti pontifici, indossò la tonaca grigia dei suoi
eremiti e, dieci giorni più tardi, il 24 dicembre 1294, il conclave eleggeva Bonifacio VIII che si sarebbe poi
sempre premurato di controllare il suo predecessore a tal punto da riprenderlo dai vari eremi ove si rifugiava
e condurlo in un edificio accanto al palazzo papale di Anagni ove era la corte pontificia. Alla fine, però, lo
riportò a Castel Fumone, presso Ferentino, ove il 19 maggio 1296, a 87 anni Pietro si spegneva. Le sue
spoglie, nel 1327, furono traslate nella basilica di S. Maria di Collemaggio a L'Aquila, una chiesa da lui fondata, ove
ancor oggi riposano nel sontuoso mausoleo eretto da Girolamo da Vicenza nel 1517 su committenza dell'Arte della
Lana aquilana. Ma anche le spoglie mortali di questo papa avranno una loro tormentata storia. Tra le numerose
vicissitudini, basterà qui ricordare il trafugamento della salma nel 1988, ritrovata qualche giorno dopo, e il
terremoto dell'Aquila del 6 aprile 2009 che provocò il crollo della volta della Basilica di Collemaggio proprio sul
suddetto mausoleo. La fama, legata anche ai miracoli e alla sua vicenda umana ed ecclesiale, portò presto
Celestino V sugli altari: il 5 maggio 1313 il papa francese Clemente V lo canonizzava e da allora la sua
figura diveniva il modello di una Chiesa più spirituale e povera. Petrarca lo aveva esaltato come un
grande testimone della "vita solitaria" e della purezza celestiale. A lui si riferirà esplicitamente Ignazio Silone
nel suo romanzo-saggio Avventura di un povero cristiano (1968), adattato poi a testo teatrale (1969),
celebrazione di un cristianesimo primordiale e pauperistico. Per certi versi anche il film Habemus papam di
Nanni Moretti (2011) può ammiccare a questo personaggio alonato di leggenda, ma nello stesso tempo di luce
spirituale.




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Per ascoltare le meditazioni del Cardinal Ravasi:


Esercizi Spirituali in Vaticano - Meditazioni del Cardinal Ravasi

La terza meditazione proposta dal cardinale Ravasi è intitolata: Il canto del duplice sole: il Dio Creatore.

Gli altissimi e impressionanti silenzi degli spazi siderali sono simbolicamente infranti dal canto della fede. La fede biblica presenta lo spazio non come una realtà neutra, ma come un orizzonte epifanico, ove Dio è presente. L’autentica ascesi non è solo negazione, è anche armonia tra corporeità e interiorità, è rinuncia ed esercizio per una pienezza genuin.
...»
La meditazione odierna, la seconda di questio ciclo, inizia con il Salmo 119 e poi il 23. S'intitola: Alle sorgenti del Giordano dello Spirito: il Dio della Grazia e della Parola

Psalterium meum, gaudium meum! La fede e la preghiera hanno come loro sorgente la grazia divina che si rivela. In principio c’è la teofania, la rivelazione, c’è quel dono d’amore che fa fremere i nostri cuori nella fede e muovere le nostre labbra nell’orazione.
...»
17 febbraio 2013 - Il Cardinale Gianfranco Ravasi propone diciassette meditazioni nel corso degli Esercizi Spirituali in Vaticano ai quali prendono parte Papa Benedetto XVI e la Curia. Il tema della I meditazione: Respirare, pensare, lottare, amare - I verbi della preghiera.