mercoledì 13 febbraio 2013

Abbiamo fiducia nello Spirito Santo!




Il "conclave" della fede al quale siamo tutti chiamati
Oggi, mercoledì delle ceneri, sulla soglia della quaresima, un Papa stanco, provato, e carico della Croce si è incamminato attraverso la porta della fede che egli stesso ha aperto alcuni mesi orsono, e ci chiama a seguirlo. Ci attende un lungo “conclave”, il segreto della stanza dove si gioca la nostra vita, come quella della Chiesa: il “conclave della fede” nel quale entrare con il capo cosparso di cenere, accogliendo e custodendo le parole che ci verranno dette oggi: “Polvere sei e polvere tornerai, convertiti e credi al Vangelo”. Scriveva San Paolo ai Romani: “ Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza”; nessuna professione di fede sarà credibile, nessuna nuova evangelizzazione sarà autentica, se prima, dai Cardinali al più semplice fedele, non saremo entrati nel conclave del nostro cuore, e lì, nel segreto dialogo che decide l’esistenza, non accoglieremo il dono della fede preparato da Dio per noi. Il Papa ha rinunciato per ricondurci al nostro cuore, per aiutarci a credere. Non vi è dossier, scandalo, peccato, non vi è nulla di più importante e decisivo che la fede. Ma essa viene dalla “stoltezza della predicazione”, dell’annuncio del Kerygma, la Buona Notizia che Cristo è risorto. E mai come oggi  la predicazione è stata così “stolta” per il mondo: poche parole, e un gesto che realizza quello che il Papa aveva detto proprio in un mercoledì delle ceneri: “Convertirsi a Cristo significa in fondo proprio questo: uscire dall’illusione dell’autosufficienza per scoprire e accettare la propria indigenza, esigenza del suo perdono”.
La Buona Notizia ha oggi il volto, lo sguardo e la voce di Benedetto XVI, seduto sulla cattedra dell’umiltà, crocifisso con Cristo nella stessa rinuncia a se stesso per far posto al potere di Dio. Gesù, nei brevi anni della sua vita pubblica, ha predicato e sanato, ma solo sulla Croce e nel sepolcro ha salvato l’umanità. Anche il Papa, negli anni del suo pontificato, ha insegnato, predicato, sanato tante situazioni. Ma oggi, con la sua rinuncia, è Cristo che di nuovo viene innalzato sulla Croce dinanzi ai nostri occhi per attirare a sé l’umanità; con il Santo Padre Cristo è pronto ad entrare nel sepolcro di un convento per intercedere ancora per ogni uomo. E’ la rinuncia che prelude alla risurrezione, il Golgota e la tomba che preparano lo splendore dell’alba di Pasqua. La stessa Croce e lo stesso sepolcro sono pronti per noi: ”Quando pregate, non siate simili agli ipocriti… ma entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”. Non a caso, proprio in Quaresima, “ci è stato tolto lo Sposo”: Sede vacante si dice, profezia e memoria del tempo in cui lo Sposo non è con i discepoli. Un tempo di digiuno, l’unico autentico, al quale, vedove come la Chiesa dei prossimi giorni, siamo tutti chiamati. Digiuno di pensieri e parole stolte di mormorazione e giudizio; digiuno che ricorda la fame di Verità e amore che afferra ogni uomo; digiuno che si fa preghiera ed elemosina nel segreto dell’intimità del conclave a cui Dio ci convoca, per rinunciare all’uomo vecchio e rivestirci dell’uomo nuovo mosso e ispirato dalla fede, la speranza e la carità.
“Egli è colui che prese su di sé le sofferenze di tutti. Egli è colui che fu ucciso in Abele, e in Isacco fu legato ai piedi. Andò pellegrinando in Giacobbe, e in Giuseppe fu venduto. Fu esposto sulle acque in Mosè, e nell’agnello fu sgozzato. Fu perseguitato in Davide e nei profeti fu disonorato” (Melitone di Sardi, Omelia Pasquale). Poi, Egli è stato di nuovo crocifisso nella vita dei santi, ucciso e perseguitato nei martiri che in ogni latitudine e secolo hanno versato il loro sangue. E oggi, Egli, ha rinunciato in Benedetto XVI, un segno indelebile sulla pelle della Chiesa e dell’umanità. Scelti e chiamati da Dio, i profeti e i santi, accanto alle parole, hanno sempre incarnato il messaggio che gli è stato affidato. Osea ha dovuto prendere come moglie una prostituta; Geremia ha conosciuto le pene del carcere; Ezechiele ha visto morire sua moglie; sulla carne di San Francesco sono apparse le stimmate; Benedetto XVI ha deposto nel sepolcro il suo pontificato. Vivrà tra le mura di un convento, come in un lungo sabato santo. In silenzio, anticipando profeticamente il dissolversi della carne, attraverso la quale, di norma, si esercita il potere e si governano le cose della terra. Ma un Papa ha a che fare con qualcosa che è sì nel mondo, ma non vi appartiene. Egli governa le cose della terra con la legge del Cielo, l’amore incorruttibile che non conosce l’usura del tempo. E rinunciare è, essenzialmente, il gesto più grande d’amore, che solo la sapienza celeste è capace di decodificare. Nel mondo la rinuncia è viltà, fuga dalle proprie responsabilità. Nel Cielo, la rinuncia è il segno più credibile della vita che in esso è donata. Cristo ha rinunciato a parlare, a difendersi, a lottare; Cristo ha rinunciato alla propria vita, perché ad un’altra era chiamato; Cristo ha rinunciato alla terra perché non dubitava del Cielo; Cristo ha rinunciato a tutto per dare tutto se stesso a ogni uomo. Il gesto di Benedetto XVI incarna e ci pone davanti la stessa rinuncia di Colui del quale è vicario qui sulla terra. E’ Cristo che in lui ha rinunciato.
La conversione, dunque, sorge dalla rinuncia, che è anche un sinonimo di sequela e amore: “Chi non rinuncia a tutti i suoi beni, e perfino alla propria vita, non può essere mio discepolo”. A che cosa siamo disposti a rinunciare oggi? Forse a nulla, ed è la ragione per la quale non possiamo essere discepoli autentici di Cristo. Il Papa ha rinunciato per insegnare alla Chiesa intera cosa significhi, “nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede”, essere discepolo credibile del Signore: fermi nella fede, rinunciare a tutto per amore a Cristo, che è anche, l’unico amore autentico per ogni uomo. Incamminiamoci allora in questa Quaresima seguendo le orme che Cristo ci ha lasciato in quelle deposte dal Santo Padre sul sentiero della storia. Entriamo con la Chiesa e accompagniamo i Cardinali nel conclave improvvisamente fattosi imminente. Inoltriamoci nei giorni di penitenza custodendo nel cuore le parole di San Paolo, scritte duemila anni fa ai Filippesi, ma recapitate dallo Spirito Santo, oggi, a ciascuno di noi: “Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho rinunciato a tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva sulla fede. E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù”.
Antonello Iapicca Pbro

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Di seguito l’omelia tenuta oggi dal rettore della Pontificia Università Lateranense, monsignor Enrico dal Covolo, durante la celebrazione delle Ceneri, svoltasi nella Cappella del Seminario romano maggiore a Roma.
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Il padre lo vide da lontano, ne ebbe compassione, e gli corse incontro (cf Luca 15,20).
Carissimi amici,
di questi tre verbi, che Luca elenca (videebbe compassionecorse), il più importante è sicuramente quello centrale: ebbe compassione.
1. Il padre dunque si commosse, ed ebbe compassione del figlio prodigo: di quel figlio, che siamo ciascuno di noi.
Qui Luca usa un verbo greco un po’ raro, che allude propriamente a un movimento fisico, a un sussulto delle viscere e del cuore. E’ come se voi, mentre guidate la macchina, vi trovaste davanti, all’improvviso, un ostacolo, magari un grosso camion. Allora facciamo così: ah…
Ecco: il padre della parabola – che poi è il Padre celeste – si commuove così, vedendoci da lontano, e correndoci incontro.
2. Questa è la cosa più bella che poteva capitarci: il nostro Dio ci ama così!
Ci ama con il cuore e le viscere di un padre e di una madre insieme. E Lui, il Padre, vuole che quel sussulto d’amore – che è il suo – divenga il nostro sussulto d’amore, nei confronti di Lui, del Padre, e nei confronti dei nostri fratelli.
3. E’ proprio quello che capitò alla pecorella smarrita, di cui parla Luca, ancora nel capitolo 15 del suo Vangelo.
Ve l’ho già detto, ma ora ve lo ripeto, perché le cose importanti vanno ripetute, almeno qualche volta.
Durante l’ultimo Sinodo il Papa ha regalato a noi Vescovi una croce, quella che porto anche oggi, e che oggi mi è ancora più cara di prima.
Sulla facciata della croce è riprodotta la celebre statuina del III secolo, rinvenuta presso le Catacombe di San Callisto.
In questa statuina la pecorella smarrita – che siamo noi – fa un gesto quasi innaturale. Sta sulle spalle del buon Pastore, ma sporge il suo musetto fino a incrociare lo sguardo del buon Pastore.
Il sussulto di amore e di misericordia trascorre così dal Padre al figlio, dal buon Pastore alla pecorella smarrita…
4. Carissimi, tutto questo è detto per noi, all’inizio della Quaresima, nell’anno della fede.
Ecco le due parole-chiave di questa Quaresima: fede e amore, fede e carità.
Il sussulto di amore e di misericordia del nostro Dio deve tradursi nelle opere di carità della nostra vita.
In questa opera delicata di “traduzione” ci guida il Messaggio del Papa per la Quaresima nell’anno della fede: un Messaggio che – a questo punto – porteremo nel nostro cuore, quasi come un solenne testamento.
“Una fede senza opere” – osserva il Papa – “è come un albero senza frutti. Queste due virtù”, la fede e la carità, “si implicano reciprocamente. La Quaresima ci invita proprio, con le tradizionali indicazioni per la vita cristiana, ad alimentare la fede attraverso un ascolto più attento e prolungato della Parola di Dio e la partecipazione ai Sacramenti, e, nello stesso tempo, a crescere nella carità, nell’amore verso Dio e verso il prossimo, anche attraverso le indicazioni concrete del digiuno, della penitenza e dell’elemosina” (n. 3).
5. Sia veramente così per noi, carissimi figli miei di questa Università: sia così nella prossima Quaresima!
Ma – soprattutto – il sussulto d’amore e di misericordia del nostro Dio sia il progetto della vostra vita, dentro alla fede della santa Chiesa.
E questo sussulto d’amore faccia partire la nostra grande corsa verso la santità. Santità – anche questo ve l’ho già detto più volte –, santità significa semplicemente “essere felici di qua e di là”.
Siate dunque felici, amici miei: siate santi!
+ Enrico dal Covolo


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Ieri mattina ho celebrato la S. Messa per Papa Benedetto e la Chiesa e per tutti noi, credenti in Cristo, che siamo stati colpiti e turbati dall’annunzio che il nostro grande Papa Benedetto, guida sicura nelle tempeste del nostro tempo, si ritira, perché non si sente più in grado di portare il peso del servizio alla Chiesa e all’umanità come rappresentante di Gesù Cristo in terra. La preghiera d’inizio del Santo Sacrificio dice:

“Custodisci sempre con paterna bontà la tua famiglia, Signore, e poiché unico fondamento della nostra speranza è la grazie che viene da Te, aiutaci sempre con la Tua protezione. Per il nostro Signore Gesù Cristo Tuo Figlio che è Dio e vive e regna con Te e con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen”.

Che bella preghiera! Rileggiamola e preghiamola con calma, ci dona serenità e speranza.  Marcello Candia ripeteva spesso questa invocazione: “Signore, aumenta la mia fede!”. Siamo nell’Anno della Fede e il ritiro di Benedetto XVI mette alla prova la nostra piccola e povera fede. Dobbiamo però ringraziare l’onestà e l’umiltà di Papa Benedetto per questo gesto umanamente comprensibile, di ritirarsi nella preghiera e passare l’ufficio di rappresentante di Cristo ad un altro Papa più giovane e con maggiori forze delle sue. Spiace davvero perché Papa Ratzinger è stato il Papa che ci ha illuminato e sostenuto in questi anni con la chiarezza e forza dei suoi testi, discorsi, gesti e opere. Ringraziamo il buon Dio che ce lo ha dato, preghiamo per lui e ricordiamo i suoi insegnamenti, sempre validi anche nel futuro.

E abbiamo fiducia. Adesso si scatena il “Toto Papa”, ma noi sappiamo che lo Spirito Santo sceglierà il miglior Papa per questo nostro tempo. Questa la nostra fede e la nostra speranza, qualsiasi Papa esca dal Conclave della Cappella Sistina, bianco o nero, straniero o italiano, giovane o anziano, progressista o conservatore (secondo il parere dei giornali!), non importa!
Ecco un ricordo dell’ottobre 1958, quando morì Pio XII, un formidabile e grandissimo Papa, alto e austero, solenne, direi maestoso e sacrale nella sua stessa persona e nei suoi discorsi, con quella voce ferma, forte e affilata come la lama di un coltello.  In tempi certamente molto ma molto più difficili del nostro, questa l’immagine del Papa che aveva affascinato ed entusiasmato noi giovani di allora e non solo. Tutti aspettavamo un altro Papa come Pio XII invece è venuto fuori, imprevisto, Papa Roncalli. Noi del Pime lo conoscevamo bene perché pochi mesi prima aveva portato da Venezia a Milano la salma le nostro Fondatore, mons. Angelo Ramazzotti, suo predecessore come Patriarca di Venezia. Si è fermato una giornata nella casa del Pime di via Monterosa, paterno, cordiale, semplice, spontaneo, insomma un buon parroco della campagna bergamasca e ricordo anche aneddoti gustosi su di lui.

Abbiamo seguito l’elezione del nuovo Papa davanti ad un piccolo televisore in bianco e nero e quando al balcone di San Pietro si presenta Papa Giovanni XXIII, piccolotto, grassotto, trotterellante, ricordo bene che per noi è stata una delusione, ci siamo messi le mani nei capelli: “Ma per carità! Il nostro caro Roncalli Papa! Signore Gesù, aiutaci tu!”. Invece, cari amici, che Papa grandioso e provvidenziale abbiamo avuto! Non perché Pio XII non fosse grande e provvidenziale anche lui, semplicemente perché, ripeto, lo Spirito Santo sceglie il Papa migliore per ogni tempo storico. Questa la nostra fede e la nostra serenità di vita cristiana.

Oggi inizia la Quaresima. E’ tempo di preghiera, di penitenza, di confessione dei nostri peccati, di riprendere con gioia il nostro cammino nell’amore e nell’imitazione di Cristo, che è il significato vero e ultimo dell’essere cristiani. Auguri di Buona Quaresima a tutti. (P. Piero Gheddo)


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Bose, 13 febbraio 2013
Mercoledì delle Ceneri
Omelia di ENZO BIANCHI 
Matteo 6,1-6.16-18  



“State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro”. La sequela che il Signore ci chiede dietro a lui comporta non solo una metánoia, un cambiamento di pensieri, ma richiede anche un cambiamento di vita, dunque un mutamento di atteggiamenti, comportamenti, azioni, un mutamento di qualcosa che è visibile, che gli altri possono vedere. E c’è una giustizia, che è di Dio, che se viene da noi realizzata, a tal punto da essere segno della giustizia di Dio, allora noi possiamo vedere le nostre vite conformate alla volontà del Signore.
Ma questo, essendo un’operazione che ci contraddice fortemente, diventa faticoso, ci richiede impegno, responsabilità, soprattutto ci richiede rinuncia, apotaghé: rinuncia a ciò che noi desideriamo, a ciò che pulsa dentro di noi, a ciò che ci abita ed è desiderio, è pulsione, è passione. Tutti noi conosciamo bene la lotta spirituale che ci viene richiesta, questa lotta mai compiuta, affinché noi diventiamo conformi alla volontà del Signore, la volontà che poi è suo Figlio Gesù Cristo. Gesù però denuncia una deriva di questo sforzo e di questa lotta. Pone su questa lotta lo sguardo e ci fa una domanda: chi noi pensiamo debba guardare questa nostra lotta? La vede il Padre che è nel nostro segreto, nel nostro intimo, possono vederla certamente anche gli altri che stanno accanto a noi: ma noi cosa desideriamo in profondità? Che la veda Dio? Che la vedano gli altri? O anche, semplicemente, che la vediamo e la misuriamo noi stessi? Noi abbiamo la consapevolezza di essere visti, vivendo in mezzo agli altri sappiamo che desideriamo avere rapporti, comunicazioni, ricevere affetto; la tentazione allora è predisporre tutto perché lo sguardo degli altri ci legga come vogliamo e come desideriamo. Desideriamo che gli altri abbiano su di noi uno sguardo positivo; speriamo che gli altri abbiano uno sguardo che ci metta al centro, uno sguardo in cui noi siamo accresciuti di autorevolezza, di interesse; uno sguardo dunque che apra al riconoscimento, alla lode, al dar peso alla nostra persona, quella persona che forzatamente deve esprimersi in parole, comportamenti, azioni visibili.

Ecco dove Gesù individua la possibilità del male: nel finire per fare le cose in modo da organizzare il consenso degli altri nei nostri confronti. Lo possiamo fare in molti modi e non solo in quelle azioni – elemosina, preghiera, digiuno – su cui si è soffermato Gesù. Possiamo farlo seducendo gli altri, in modo che gli altri siano abbagliati dalla nostra capacità intellettuale; seducendo l’altro con le nostre attenzioni, in modo che vengano coperte le nostre stesse mancanze verso di lui; riempiendo l’altro di doni e di attenzioni, fino a comprarlo; possedendo l’altro fino a impedirgli di vedere chiaro e di scoprire chi noi siamo in verità.
Qui ciascuno di noi deve esaminare se stesso, soprattutto là dove verifica consensi, successi, riuscite, positività di giudizio. E la domanda che ciascuno di noi deve farsi verte su che cosa veramente gli sta a cuore, in profondità: lo sguardo di Dio che è nel segreto o lo sguardo e il giudizio degli altri, quelli che ci vedono e che noi vediamo? Che cosa cerchiamo? Di essere ammirati, al di là della nostra verità, o di essere veri e autentici, con una certa coerenza tra quello che facciamo e diciamo? Non possiamo avere né la coerenza di Cristo né una coerenza perfetta, ma dovremmo ogni giorno rinnovare lo sforzo perché quello che diciamo sia conforme a quello che facciamo e a quello che pensiamo.
Dovremmo anche chiederci se un nostro sguardo ci compiace; non c’è solo lo sguardo degli altri, c’è anche lo sguardo nostro, quello che san Paolo dice di vietarsi: “Non guardo più a me stesso, non mi giudico, mi giudica il Signore!” (cf. 1Cor 4,3-4). Perché giudicare se stesso è un compiacimento narcisistico di chi edifica se stesso ed è sicuro dei mattoni che mette in questa edificazione: in qualche maniera è peggiore questo che non il giudizio degli altri. Mentre invece dovremmo semplicemente metterci davanti al Signore e ripetere: “Domine, tu omnia scis, tu cognoscis…” (Gv 21,17), questa giaculatoria così importante che potremmo dire molte volte durante la giornata, in certi momenti: “Signore, tu sai tutto, tu sai…”.

La quaresima che viviamo dovrebbe essere un esercizio per imparare a guardare meno a noi stessi, a non guardare gli altri nel giudizio che possono dare su di noi, a cercare di più lo sguardo del Signore. È uno sguardo che non ci spia, è uno sguardo di pazienza, ma è anche uno sguardo di severità. Perché la severità è una componente di Dio, non contraddice né la pazienza né la misericordia. Senza la severità non abbiamo chiarezza su di noi e neanche sulla verità dei nostri atti. Insomma, siamo chiamati a un’operazione di verità, di autenticità, operazione così necessaria per la nostra libertà, questa libertà che quando è posta davanti a Dio ci libera, ci solleva, ci fa respirare, ci dà una leggerezza non mondana, ma la leggerezza della pace di chi si sente in armonia con la sua vita e anche con ciò che lo attende davanti. Libertà profonda che mette tutti gli altri al loro posto, li fa compagni e non più invece dei puntelli per la nostra vita o per il nostro io, e di ciascuno di noi fa una persona dotata di parrhésia: una persona capace di dire sempre ciò che pensa, a costo di essere spiacevole; di dirlo e di dirlo sempre, a tutti, a qualunque prezzo. Questa libertà può renderci autentici e sempre di più mossi dallo Spirito santo, per essere sempre di più, per quanto è possibile, uomini che appartengono a Dio e non appartengono a nessun altro.