(Valerio Gigliotti) Ubertino da Casale, nel suo Arbor vitae crucifixae Jesu (1305), ancora a distanza di quasi dieci anni dalla più celebre rinuncia papale volontaria, quella di Celestino V, definiva il gesto del Pontefice-eremita una “novità orrenda”, contestandone la legittimità teologica e giuridica seguito da buona parte del movimento degli Spirituali francescani, da Iacopone da Todi e dai cardinali Giacomo e Pietro Colonna, tenaci oppositori di Bonifacio VIII, successore del Papa-eremita.In realtà la rinuncia papale, tecnicamente renuntiatio o resignatio, se poteva risultare un fatto traumatico per la vita della Chiesa, di certo non era nuovo e annoverava, tra casi più o meno documentabili nelle fonti, circa dieci Papi rinunciatari tra il I e il XII secolo. Problema: era consentito al successore di Pietro abbandonare il proprio “ufficio”? La questione si era posta, tanto sotto il profilo giuridico che teologico, relativamente tardi: il diritto canonico regolava le rinunce degli “ufficiali ecclesiastici” inferiori (abati, parroci, vescovi) in presenza di una giusta causa di rinuncia e previo accoglimento della rinuncia stessa da parte del superiore gerarchico dell’ecclesiastico dimissionario.
Nel caso eccezionale del Papa, però, si presentavano due ostacoli principali: egli non ha superiori gerarchici nella Chiesa, se non Dio stesso ed è unito alla Chiesa universale da un vincolo di matrimonio spirituale, che si perfeziona con l’accettazione del ministero petrino.
A fronte delle poche e indirette norme che regolavano la materia nel Decreto di Graziano (1142 circa), i primi giuristi decretisti fin da subito riconobbero la possibilità per il Papa di rinunciare: Baziano (1190 circa) ammette come cause il desiderio di abbracciare la vita religiosa (migratio ad religionem), l’infermità e la vecchiaia; Uguccione da Pisa nella sua Summa decretorum (1188-1190) le conferma, introducendo però un’ulteriore clausola “rivoluzionaria”: l’atto delle dimissioni del Papa sarebbe stato ammissibile solo se esso si fosse dimostrato utile al bene della Chiesa universale a lui affidata, in caso contrario l’atto avrebbe costituito peccato grave (si expediret, alias peccaret).
Successivamente, con la promulgazione delle prime collezioni di decretali, la rinuncia del Pontefice viene definita per analogia con quella dei vescovi, per cui fu redatta da Innocenzo III (1198-1216), Papa giurista e teocrate, la decretale Nisi cum pridem (1206), per regolamentare i casi di trasferimenti e rinunce dei vescovi, ma estensibile per analogia anche al caso del vescovo di Roma.
Nella disposizione si indicano sei cause legittime di rinuncia: la debolezza fisica, dovuta a malattia o vecchiaia, la mancanza di qualità intellettive, la consapevolezza di aver commesso un crimine, l’irregolarità dell’elezione, la maldicenza del popolo, lo scandalo. Si scoraggiava, invece, la rinuncia per motivi di ascesi (zelum melioris vitae), che essendo però molto diffusa da parte di vescovi che desideravano entrare (o rientrare) in monastero (tra cui anche quella del 1057 di san Pier Damiani, cardinale vescovo di Ostia «chiesto e tratto a quel cappello, / che pur di male in peggio si travasa», Paradiso XXI, 124-126), indusse Tommaso d’Aquino a legittimarla purché vi fosse giusta causa e la rinuncia giovasse al bene della Chiesa. Il fatidico 13 dicembre 1294 saranno quindi queste cause (vecchiaia, scarsa preparazione, desiderio di ascesi) a essere lette da Celestino V di fronte ai cardinali riuniti in concistoro, nella prima fase della sua complessa rinuncia, su consiglio dei cardinali giuristi Benedetto Caetani (suo successore col nome di Bonifacio VIII), Jean Lemoine e Gerardo Bianchi, presenti a Castelnuovo.
In realtà, molto probabilmente a questa pronuncia seguì la redazione formale di un atto giuridico che disciplinava la rinuncia papale in modo esaustivo, e che a noi non è finora giunto, se non in forma indiretta tramite la costituzione Quoniam aliqui di Bonifacio VIII, recepita nel Liber Sextus (1298), che asseriva, non senza creare un forte dibattito nella dottrina, che il Papa «può liberamente rinunciare», senza bisogno dell’accettazione del collegio cardinalizio.
La questione politica e giuridica che sulla ribalta delle università vide intervenire a difesa della tesi della legittimità teologi raffinati come Pietro di Giovanni Olivi, Jean Quidort, Egidio Romano e Agostino Trionfo e giuristi esperti quali Guido da Baisio, Jean Lemoine e Giovanni d’Andrea (canonista amico di Petrarca) era però soltanto una delle anime della questione.
L’altra, più silenziosa, fu quella del popolo in processione a Castelnuovo, che esortava il Papa a non dimettersi, o che si recava a visitare l’eremita, concorrendo ad attribuire a Pietro da Morrone quella fama di santità che gli valse la canonizzazione da parte di Clemente V nel 1313, con il titolo di san Pietro Confessore. È lui, il Papa angelico, che (lo canta un inno liturgico celestino) «preferì allo scettro e alle ricchezze della terra la parte migliore (Luca 10, 42), come insegnava il verace maestro: così, fatto minore, è ritenuto maggiore di molti nell’alto dei cieli» a essere riconosciuto “santo” e contrapposto alla pur eccezionale figura di Benedetto Caetani, uomo di governo e protagonista per otto anni della politica europea di fine Duecento.
Differente valore giuridico — considerata uno dei tre modi di ricomposizione dello Scisma — ebbe invece la rinuncia (cessio è il termine tecnico) di Papi e antipapi nel periodo della lotta conciliare, che si concluse nel 1449 proprio con la rinuncia in favore di Niccolò V dell’ultimo antipapa, Amedeo VIII di Savoia-Felice V, il cui gesto pose fine al Piccolo Scisma, riunificando la Cristianità occidentale.
La stessa tormentata terzina dantesca (Inferno III, 58-60), in questi giorni così tanto citata quanto poco compresa nel suo più intrinseco significato ecclesiologico, è illuminata da questo contesto teologico e giuridico che riabilita assolutamente Dante, consapevole dei termini del dibattito a cui prende parte e che dichiara come causa del gran rifiuto la viltade, cioè la stessa debolezza fisica, unita all’umiltà del Papa nel riconoscersi inadeguato al proprio compito della tradizione canonistica. Rileggendo in sinossi anche gli altri passaggi celestiniani del poema si capisce come Dante non imputi a “colpa” il gesto di un Papa che ha scelto nell’estrema umiltà la via della contemplazione e della sequela Christi, ma solo una sorta di responsabilità oggettiva che aveva permesso a Bonifacio VIII, nemico dello stesso poeta, guelfo di parte bianca, il suo ingresso sullo scenario della vita ecclesiale.
Del resto già prima di Dante e di Petrarca — che nel De vita solitaria tesserà il più bell’elogio dell’umiltà celestiniana («chi mai però rifiutò con spirito così nobile ed elevato come Celestino il papato»?, II, 8) — Raimondo Lullo aveva supposto uno scenario giuridico ed ecclesiale profeticamente simile a quello che sarà di Celestino, descrivendo, circa dieci anni prima, la rinuncia di Papa Blanquerna desideroso di tornare alla vita religiosa (Llibre de Blanquerna, 5, 96).
Il vigente codice di diritto canonico (332, § 2), recependo la normativa celestino-bonifaciana riconosce la liceità della rinuncia papale senza necessità di alcuna giusta causa, richiedendo solo per la validità dell’atto che «avvenga liberamente» e che «sia manifestata convenientemente». Benedetto XVI, come già Celestino V, l’11 febbraio ha scelto come sede per dichiarare la propria scelta il concistoro dei cardinali, ai quali però non compete accettare o meno la rinuncia.
Evento straordinario e fortemente simbolico la renuntiatio ha mostrato nei secoli, venendo scelta o meno, la forza intrinsecamente mistica dell’esercizio più alto della funzione petrina in una totale abnegazione di sé per il bene della Chiesa. La natura gemina, doppia, della persona del Sommo Pontefice, uomo e vicario di Cristo, si disvela nel carattere eccezionale di un evento che irrompe nella storia e interrompe, con un atto individuale e supremo della volontà, l’ordine naturale della successione apostolica, che si apre di regola con la morte fisica del Papa. Già la canonistica medievale ricordava però con due brocardi molto diffusi, il principio di stabilità del papato e di immortalità della Chiesa, sacramento di Salvezza, guidata da Cristo nella storia e fondata in terra sul suo vicario: «il Papa passa, il papato rimane stabile» e «la Chiesa non muore».
L’individualismo e il soggettivismo contemporanei rischiano però di fuorviare la lettura di questo evento, lasciando intendere che sia la volontà privata del singolo a rompere quel sigillo di responsabilità che l’accettazione del ministero petrino aveva prima costituito.
La rinuncia, al contrario, è atto non solo giuridico ma intrinsecamente pastorale che si inscrive in un ordine ecclesiologico eccezionale ma costruttivo per la vita della Chiesa. L’esercizio supremo della volontà, nella negazione del più alto ministero di direzione della Chiesa, diventa segno di riconoscimento della feconda debolezza umana, richiesta di oblio del sé che si dischiude all’ultimo, supremo atto di umiltà e di servizio: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Matteo 16, 24). Un gesto totale, oblativo, quasi uno svuotamento (una kenosis, Filippesi 2, 7) interiore che ha precedenti illustri in san Giovanni della Croce e san Francesco, e che apre alla dimensione sacrificale del servizio, supremo esercizio del ministero, dell’essere minus, rispetto alla gravità dell’onere affidato (il Papa è «servo dei servi di Dio»): «chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Marco 10, 44-45).
Anche Paolo VI, il 1° settembre 1966, commemorando a Fumone Celestino V in continuità con lo spirito di rinnovamento che da poco aveva concluso il concilio Vaticano II, volle sottolineare il ruolo dell’umiltà di colui che «diventato Papa Celestino V per obbedienza e dimissionario per coscienza» pure seppe, in un’epoca di contrasti e di contraddizioni, tener fede alla propria vocazione, rinunciando a un ufficio cui non era in grado di attendere «non per viltà ma per onestà».
Una teologia del servizio e dell’umiltà, quella della rinuncia, un esercizio della regalità che passa — lo ricorda ancora Fénelon nel Seicento rimeditando Tommaso — attraverso l’appannamento del sé per servire un bene superiore: «Il regno non è fatto per il re, ma il re per il regno».
È l’essenza stessa della regalità cristica, una regalità della debolezza e della rinuncia, al servizio della Salvezza. Da Mosé («Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato... E se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto», Esodo 32, 32) a san Paolo («Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli», Romani 9, 3) la storia della Salvezza in Cristo passa attraverso la mistica del servizio.
Il pontificato di Benedetto XVI porterà a compimento, il 28 febbraio, il programma avviato otto anni fa con la prima enciclica, Deus caritas est, e il compito a lui affidato nel tempo e nella storia: «Questo compito è grazia. Quanto più uno s’adopera per gli altri, tanto più capirà e farà sua la parola di Cristo: “Siamo servi inutili” (Luca 17, 10). Egli riconosce infatti di agire non in base a una superiorità o maggior efficienza personale, ma perché il Signore gliene fa dono. A volte l’eccesso del bisogno e i limiti del proprio operare potranno esporlo alla tentazione dello scoraggiamento. Ma proprio allora gli sarà d’aiuto il sapere che, in definitiva, egli non è che uno strumento nelle mani del Signore; si libererà così dalla presunzione di dover realizzare, in prima persona e da solo, il necessario miglioramento del mondo. In umiltà farà quello che gli è possibile fare e in umiltà affiderà il resto al Signore. È Dio che governa il mondo, non noi. Noi gli prestiamo il nostro servizio solo per quello che possiamo e finché Egli ce ne dà la forza. Fare, però, quanto ci è possibile con la forza di cui disponiamo, questo è il compito che mantiene il buon servo di Gesù Cristo sempre in movimento: «L’amore del Cristo ci spinge” (2 Corinzi 5, 14)».
L'Osservatore Romano, 23 febbraio 2013.
Nel caso eccezionale del Papa, però, si presentavano due ostacoli principali: egli non ha superiori gerarchici nella Chiesa, se non Dio stesso ed è unito alla Chiesa universale da un vincolo di matrimonio spirituale, che si perfeziona con l’accettazione del ministero petrino.
A fronte delle poche e indirette norme che regolavano la materia nel Decreto di Graziano (1142 circa), i primi giuristi decretisti fin da subito riconobbero la possibilità per il Papa di rinunciare: Baziano (1190 circa) ammette come cause il desiderio di abbracciare la vita religiosa (migratio ad religionem), l’infermità e la vecchiaia; Uguccione da Pisa nella sua Summa decretorum (1188-1190) le conferma, introducendo però un’ulteriore clausola “rivoluzionaria”: l’atto delle dimissioni del Papa sarebbe stato ammissibile solo se esso si fosse dimostrato utile al bene della Chiesa universale a lui affidata, in caso contrario l’atto avrebbe costituito peccato grave (si expediret, alias peccaret).
Successivamente, con la promulgazione delle prime collezioni di decretali, la rinuncia del Pontefice viene definita per analogia con quella dei vescovi, per cui fu redatta da Innocenzo III (1198-1216), Papa giurista e teocrate, la decretale Nisi cum pridem (1206), per regolamentare i casi di trasferimenti e rinunce dei vescovi, ma estensibile per analogia anche al caso del vescovo di Roma.
Nella disposizione si indicano sei cause legittime di rinuncia: la debolezza fisica, dovuta a malattia o vecchiaia, la mancanza di qualità intellettive, la consapevolezza di aver commesso un crimine, l’irregolarità dell’elezione, la maldicenza del popolo, lo scandalo. Si scoraggiava, invece, la rinuncia per motivi di ascesi (zelum melioris vitae), che essendo però molto diffusa da parte di vescovi che desideravano entrare (o rientrare) in monastero (tra cui anche quella del 1057 di san Pier Damiani, cardinale vescovo di Ostia «chiesto e tratto a quel cappello, / che pur di male in peggio si travasa», Paradiso XXI, 124-126), indusse Tommaso d’Aquino a legittimarla purché vi fosse giusta causa e la rinuncia giovasse al bene della Chiesa. Il fatidico 13 dicembre 1294 saranno quindi queste cause (vecchiaia, scarsa preparazione, desiderio di ascesi) a essere lette da Celestino V di fronte ai cardinali riuniti in concistoro, nella prima fase della sua complessa rinuncia, su consiglio dei cardinali giuristi Benedetto Caetani (suo successore col nome di Bonifacio VIII), Jean Lemoine e Gerardo Bianchi, presenti a Castelnuovo.
In realtà, molto probabilmente a questa pronuncia seguì la redazione formale di un atto giuridico che disciplinava la rinuncia papale in modo esaustivo, e che a noi non è finora giunto, se non in forma indiretta tramite la costituzione Quoniam aliqui di Bonifacio VIII, recepita nel Liber Sextus (1298), che asseriva, non senza creare un forte dibattito nella dottrina, che il Papa «può liberamente rinunciare», senza bisogno dell’accettazione del collegio cardinalizio.
La questione politica e giuridica che sulla ribalta delle università vide intervenire a difesa della tesi della legittimità teologi raffinati come Pietro di Giovanni Olivi, Jean Quidort, Egidio Romano e Agostino Trionfo e giuristi esperti quali Guido da Baisio, Jean Lemoine e Giovanni d’Andrea (canonista amico di Petrarca) era però soltanto una delle anime della questione.
L’altra, più silenziosa, fu quella del popolo in processione a Castelnuovo, che esortava il Papa a non dimettersi, o che si recava a visitare l’eremita, concorrendo ad attribuire a Pietro da Morrone quella fama di santità che gli valse la canonizzazione da parte di Clemente V nel 1313, con il titolo di san Pietro Confessore. È lui, il Papa angelico, che (lo canta un inno liturgico celestino) «preferì allo scettro e alle ricchezze della terra la parte migliore (Luca 10, 42), come insegnava il verace maestro: così, fatto minore, è ritenuto maggiore di molti nell’alto dei cieli» a essere riconosciuto “santo” e contrapposto alla pur eccezionale figura di Benedetto Caetani, uomo di governo e protagonista per otto anni della politica europea di fine Duecento.
Differente valore giuridico — considerata uno dei tre modi di ricomposizione dello Scisma — ebbe invece la rinuncia (cessio è il termine tecnico) di Papi e antipapi nel periodo della lotta conciliare, che si concluse nel 1449 proprio con la rinuncia in favore di Niccolò V dell’ultimo antipapa, Amedeo VIII di Savoia-Felice V, il cui gesto pose fine al Piccolo Scisma, riunificando la Cristianità occidentale.
La stessa tormentata terzina dantesca (Inferno III, 58-60), in questi giorni così tanto citata quanto poco compresa nel suo più intrinseco significato ecclesiologico, è illuminata da questo contesto teologico e giuridico che riabilita assolutamente Dante, consapevole dei termini del dibattito a cui prende parte e che dichiara come causa del gran rifiuto la viltade, cioè la stessa debolezza fisica, unita all’umiltà del Papa nel riconoscersi inadeguato al proprio compito della tradizione canonistica. Rileggendo in sinossi anche gli altri passaggi celestiniani del poema si capisce come Dante non imputi a “colpa” il gesto di un Papa che ha scelto nell’estrema umiltà la via della contemplazione e della sequela Christi, ma solo una sorta di responsabilità oggettiva che aveva permesso a Bonifacio VIII, nemico dello stesso poeta, guelfo di parte bianca, il suo ingresso sullo scenario della vita ecclesiale.
Del resto già prima di Dante e di Petrarca — che nel De vita solitaria tesserà il più bell’elogio dell’umiltà celestiniana («chi mai però rifiutò con spirito così nobile ed elevato come Celestino il papato»?, II, 8) — Raimondo Lullo aveva supposto uno scenario giuridico ed ecclesiale profeticamente simile a quello che sarà di Celestino, descrivendo, circa dieci anni prima, la rinuncia di Papa Blanquerna desideroso di tornare alla vita religiosa (Llibre de Blanquerna, 5, 96).
Il vigente codice di diritto canonico (332, § 2), recependo la normativa celestino-bonifaciana riconosce la liceità della rinuncia papale senza necessità di alcuna giusta causa, richiedendo solo per la validità dell’atto che «avvenga liberamente» e che «sia manifestata convenientemente». Benedetto XVI, come già Celestino V, l’11 febbraio ha scelto come sede per dichiarare la propria scelta il concistoro dei cardinali, ai quali però non compete accettare o meno la rinuncia.
Evento straordinario e fortemente simbolico la renuntiatio ha mostrato nei secoli, venendo scelta o meno, la forza intrinsecamente mistica dell’esercizio più alto della funzione petrina in una totale abnegazione di sé per il bene della Chiesa. La natura gemina, doppia, della persona del Sommo Pontefice, uomo e vicario di Cristo, si disvela nel carattere eccezionale di un evento che irrompe nella storia e interrompe, con un atto individuale e supremo della volontà, l’ordine naturale della successione apostolica, che si apre di regola con la morte fisica del Papa. Già la canonistica medievale ricordava però con due brocardi molto diffusi, il principio di stabilità del papato e di immortalità della Chiesa, sacramento di Salvezza, guidata da Cristo nella storia e fondata in terra sul suo vicario: «il Papa passa, il papato rimane stabile» e «la Chiesa non muore».
L’individualismo e il soggettivismo contemporanei rischiano però di fuorviare la lettura di questo evento, lasciando intendere che sia la volontà privata del singolo a rompere quel sigillo di responsabilità che l’accettazione del ministero petrino aveva prima costituito.
La rinuncia, al contrario, è atto non solo giuridico ma intrinsecamente pastorale che si inscrive in un ordine ecclesiologico eccezionale ma costruttivo per la vita della Chiesa. L’esercizio supremo della volontà, nella negazione del più alto ministero di direzione della Chiesa, diventa segno di riconoscimento della feconda debolezza umana, richiesta di oblio del sé che si dischiude all’ultimo, supremo atto di umiltà e di servizio: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Matteo 16, 24). Un gesto totale, oblativo, quasi uno svuotamento (una kenosis, Filippesi 2, 7) interiore che ha precedenti illustri in san Giovanni della Croce e san Francesco, e che apre alla dimensione sacrificale del servizio, supremo esercizio del ministero, dell’essere minus, rispetto alla gravità dell’onere affidato (il Papa è «servo dei servi di Dio»): «chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Marco 10, 44-45).
Anche Paolo VI, il 1° settembre 1966, commemorando a Fumone Celestino V in continuità con lo spirito di rinnovamento che da poco aveva concluso il concilio Vaticano II, volle sottolineare il ruolo dell’umiltà di colui che «diventato Papa Celestino V per obbedienza e dimissionario per coscienza» pure seppe, in un’epoca di contrasti e di contraddizioni, tener fede alla propria vocazione, rinunciando a un ufficio cui non era in grado di attendere «non per viltà ma per onestà».
Una teologia del servizio e dell’umiltà, quella della rinuncia, un esercizio della regalità che passa — lo ricorda ancora Fénelon nel Seicento rimeditando Tommaso — attraverso l’appannamento del sé per servire un bene superiore: «Il regno non è fatto per il re, ma il re per il regno».
È l’essenza stessa della regalità cristica, una regalità della debolezza e della rinuncia, al servizio della Salvezza. Da Mosé («Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato... E se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto», Esodo 32, 32) a san Paolo («Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli», Romani 9, 3) la storia della Salvezza in Cristo passa attraverso la mistica del servizio.
Il pontificato di Benedetto XVI porterà a compimento, il 28 febbraio, il programma avviato otto anni fa con la prima enciclica, Deus caritas est, e il compito a lui affidato nel tempo e nella storia: «Questo compito è grazia. Quanto più uno s’adopera per gli altri, tanto più capirà e farà sua la parola di Cristo: “Siamo servi inutili” (Luca 17, 10). Egli riconosce infatti di agire non in base a una superiorità o maggior efficienza personale, ma perché il Signore gliene fa dono. A volte l’eccesso del bisogno e i limiti del proprio operare potranno esporlo alla tentazione dello scoraggiamento. Ma proprio allora gli sarà d’aiuto il sapere che, in definitiva, egli non è che uno strumento nelle mani del Signore; si libererà così dalla presunzione di dover realizzare, in prima persona e da solo, il necessario miglioramento del mondo. In umiltà farà quello che gli è possibile fare e in umiltà affiderà il resto al Signore. È Dio che governa il mondo, non noi. Noi gli prestiamo il nostro servizio solo per quello che possiamo e finché Egli ce ne dà la forza. Fare, però, quanto ci è possibile con la forza di cui disponiamo, questo è il compito che mantiene il buon servo di Gesù Cristo sempre in movimento: «L’amore del Cristo ci spinge” (2 Corinzi 5, 14)».