giovedì 14 febbraio 2013

Momenti di eternità



Voglio rassicurare i lettori di questo blog sui commenti che riporto: prima di pubblicarli li leggo!  Tutti...

Alla duplice domanda di un lettore che desidera conservare l'anonimato, pubblicamente rispondo così:
1. continuo a pubblicare testi e commenti di Enzo Bianchi perchè credo che non sia eretico, così come credo non lo fosse il cardinal Martini;
2.  mai ho pubblicato testi o (Dio ce ne scampi!) commenti di Vito Mancuso, perchè quello che scrive manifestamente lo pone fuori della communio cattolica.
Pb. Vito Valente.

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Sovrana certezza
di Marco Tarquinio
in “Avvenire” del 14 febbraio 2013
«Mi sostiene e mi illumina la certezza che la Chiesa è di Cristo, che non le farà mai mancare la sua
guida e la sua cura». La prima parola di Benedetto XVI ieri mattina in Udienza, proprio la prima
cosa detta alla folla, grande, che lo aspettava, è stata questa: il ricordare che la Chiesa è di Cristo, e
che dunque anche nelle circostanze più avverse Cristo non la abbandona. E noi, semplici fedeli
storditi, lunedì, dalla notizia, noi interiormente turbati da un inimmaginabile congedo, abbiamo
riconosciuto in quella prima parola la volontà paterna di dire, a quelli come noi, di non aver paura.
In questi due giorni abbiamo sentito di tutto, sul gesto di Benedetto XVI, lodi e plausi, e
contestazioni, ed evocazioni di oscuri retroscena. Abbiamo letto di desacralizzazione del Papato, di
fondamenta che vacillano, e sentito dottamente discorrere della Chiesa come di una grande
multinazionale, o una Ong – certo, dal 'brand' spiritualmente elevato. E ci occorreva davvero che
proprio Benedetto XVI, il maestro che abbiamo amato e continueremo a amare, ci ricordasse, ci
confermasse in questa semplice antica certezza: la Chiesa è di Cristo, che non l’abbandona.
La Chiesa è di Cristo, è il suo corpo, e non è mai riducibile solo agli uomini, strutture, gerarchie che
la compongono, con i loro peccati, i loro umani sforzi, le loro disunioni e persino il loro cercare un
'pubblico'. Colpe ed errori che pure, è tornato a ricordarci nell’omelia delle Ceneri il Papa, ne
possono «deturpare» il volto. Questo aspetto non visibile, non sperimentabile con le nostre consuete
misure, è tanto fondante quanto non compreso nemmeno dai più fini intellettuali, che parlano di
Chiesa come di un fatto solo storico, sociologico, umano. E spesso anche fra noi, credenti, questa
memoria ontologica facilmente sbiadisce; allora in giorni come questi ci smarriamo: e adesso? È a
questo sommesso tremare dei semplici che il Papa ieri ha teso la mano con una frase per nulla
debole, e anzi colma di certezza sovrana: la Chiesa è di Cristo, che non l’abbandona.
Poi, nell’Udienza il Papa ha affrontato il Vangelo delle tentazioni di Gesù nel deserto,
riassumendole in poche parole: 'la' tentazione eterna, ha detto, è quella di usare Dio per noi stessi.
Ecco, in quelle sole righe dell’evangelista Luca si sente già il respiro di un altro, radicale, desiderio,
di uno sguardo altro dalla logica degli uomini, inesorabilmente sedotti del potere. Di modo che chi
si imbarca sul grande millenario naviglio di Pietro, se tiene viva la fede, si trova, ha detto il Papa, a
fare scelte scomode o perfino, secondo il mondo, stolte; ad amare i deboli, e la vita dell’uomo fin
dal suo più debole invisibile inizio. Ad amare per sempre, e a generare figli, quando il mondo
attorno ripete che la vita è cosa da prendere e usare, come e finché si vuole. Quell’altro sguardo,
quell’altro respiro s’è visto bene ancora ieri sera, in San Pietro gremita di uomini e donne stretti
attorno a Benedetto nel giorno delle Ceneri – in quel gesto così umile e conscio del nostro essere,
solamente, creature. «Risuoni forte in noi l’invito alla conversione, a ritornare a Dio con tutto il
cuore, accogliendo la sua grazia che ci fa uomini nuovi», è stato il filo teso nelle parole del Papa. Di
nuovo, parole affatto stanche, anzi straordinariamente audaci in tempi di pensiero debole, di
rassegnati orizzonti. Tornare a Dio, è l’imperativo di quest’uomo il cui cuore sembra tutto fuorché
piegato, o vecchio.
Quaerere Deum, è la parola che ci lascia un grande Papa in un Anno della Fede indetto perché ciò
che è vero torni a essere concreto, e vivo fra noi. Perché la Chiesa è di Cristo, e tutto il suo essere
tenda a Cristo – Colui che ricapitolerà in sé tutte le cose, quelle della terra e quelle del cielo. E il
grande applauso a Benedetto XVI ieri sera in San Pietro testimonia la fede e la forza del popolo
cristiano. Peccatori, certo; gente però che sa da dove viene, e verso Chi va. (M. Tarquinio)
Fonte: Avvenire

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Riporto da "Il Foglio", a firma di Francesco Agnoli

Mi tremano le mani, ora che mi accingo a scrivere alcune misere considerazioni su Benedetto XVI. Ci sono momenti della storia che non appartengono alla storia, ma all’eternità. Questo sembra, a me, a molti, uno di quei momenti. In cui si percepisce che sta accadendo qualcosa che è ben di più di quello che sembra. Il mondo si interroga. Ma non ha chiavi di lettura, perché senza la fede non si può comprendere ciò che nasce dalla fede. In ogni modo a molti è evidente un primo fatto: quando un papa se ne va, il rumore del mondo si rivela per quello che è: un ciarlare senza vita e senza respiro. Basta leggere il più malriuscito dei discorsi di Benedetto XVI, per sentire in esso più verità, più sapore, che in tutto il ciarlare mondano dei protagonisti della politica, della televisione, dei giornali. Le prediche di Scalfari,  gli editoriali “impegnati” di De Bortoli, le trasmissioni di Fazio, i comizi para-religiosi di Vendola e di tutti quanti… dimenticheremo tutto domani. Tutta roba che scivola via, che scade, in tempo reale. Solo le parole che nascono dalla fede sincera e profonda nell’esistenza della Verità, della Carità, della Giustizia divina, così diversa da quella umana, rimarranno nei cuori e nella storia. Ancor più se dette con la “nobile serenità e quieta grandezza”, per usare le parole del Winckelmann riferite al Laocoonte (avvolto dai serpenti), con cui le ha pronunciate per anni Benedetto XVI.
Un secondo fatto: Benedetto XVI se ne va dopo aver subito attacchi di ogni sorta. Dentro e fuori la Chiesa. Chi, ai nostri giorni, è stato più calunniato di lui? Appena eletto si sono affrettati a presentarlo nientemeno che come un nazista; poi l’Europa intera lo ha processato quando ha ricordato che in Africa non si vince l’aids con il preservativo, ma educando gli uomini e le donne al rispetto reciproco, alla sessualità ordinata, alla fedeltà, al dominio della devastante violenza della cieca concupiscenza; e poi ancora, un processo dopo l’altro, e sempre il papa imputato. Imputato di fronte a giudici iniqui.
Ma non sono stati questi, a mio parere, gli attacchi che hanno logorato di più Benedetto XVI, nel corpo e nello spirito. Perché egli è stato, anzitutto, un generale non tanto senza esercito, quanto senza (quasi) ufficiali e luogotenenti. Il suo coraggio, nel rilanciare la razionalità della Fede, l’alleanza tra il pensiero greco, quello romano e la teologia cristiana, ha trovato sordi, anzitutto, molti suoi  vescovi e preti, educati da trent’anni ad un culto protestante-martiniano della Bibbia, sradicato dalla tradizione filosofica europea. La sua battaglia per il ritorno al senso del sacro, ha trovato anch’essa l’ostilità e l’incomprensione di troppi che hanno trasformato il cristianesimo in una filosofia morale, in una filantropia di stampo illuminista.
Di qui l’ostracismo al Motu proprio summorum pontificum che rimetteva in vigore secoli di liturgia latina, ridando cittadinanza al canto gregoriano, agli altari tridentini, alla pietas di generazioni e generazioni di santi. Di qui l’incapacità di molti di comprendere il tentativo di Benedetto XVI di rilanciare la devozione eucaristica, vero cuore della fede cristiana, promuovendo la comunione in ginocchio e in bocca, la pratica dell’adorazione eucaristica, la solennità della cerimonie sacre… Di qui l’inerzia di fronte alla richiesta continua del papa di ritornare a spiegare il catechismo, a spezzare il pane della sapienza, a dare le ragioni e i dogmi della Fede, nella loro essenzialità e chiarezza.
E la battaglia per la difesa dei principi non negoziabili? Pochi dei suoi ufficiali lo hanno spalleggiato: chi per incapacità di comprenderne il senso, chi per mancanza di coraggio, chi per una fede ormai così tiepida da ritenere “controproducente” ogni scontro con lo spirito del mondo.
Senza ufficiali, con un esercito di fedeli spesso disorientato, Benedetto XVI ha forse sentito un peso eccessivo sulle spalle. Gioiscono in molti, con o senza sottana.  E’ triste, invece, un popolo che lo ha amato (anche chi avrebbe voluto meno encicliche e libri e più governo; anche chi non ha condiviso certe idee,  certe scelte; anche chi non ha apprezzato alcune nomine o le dimissioni stesse…). Voglio concludere riportando un brano molto bello e attuale da uno dei suoi ultimi discorsi (19 gennaio, ai membri del Pontificio Consiglio Cor Unum): “La visione cristiana dell’uomo è un grande sì alla dignità della persona chiamata all’intima comunione con Dio, una comunione filiale, umile e fiduciosa. L’essere umano non è né individuo a sé stante né elemento anonimo nella collettività, bensì persona singolare e irripetibile, intrinsecamente ordinata alla relazione e alla socialità. Perciò la Chiesa ribadisce il suo grande sì alla dignità e bellezza del matrimonio come espressione di fedele e feconda alleanza tra uomo e donna, e il no a filosofie come quella del gender si motiva per il fatto che la reciprocità tra maschile e femminile è espressione della bellezza della natura voluta dal Creatore”. Dei sì e dei no: così parlano i pastori, di fronte ai lupi travestiti da agnelli.

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 Riflessioni e risposte di alcuni docenti della PUSC (Pontificia Università della Santa Croce)
La rinuncia del Santo Padre Benedetto XVI alla sua funzione di Vescovo di Roma e Successore di San Pietro ha aperto nell'opinione pubblica un prevedibile dibattito sul significato di questa scelta e sul senso che lo stesso Pontefice le ha attribuito. Alcuni professori della PUSC intervengono rispondendo a sottintese domande che i cristiani e l'opinione pubblica si stanno ponendo in questi giorni.

RINUNCIA DI BENEDETTO XVI E OPINIONE PUBBLICA
Prof. Norberto González Gaitano, Docente di Opinione Pubblica
Di fronte alla decisione in coscienza, meditata e sofferta di un uomo - anche se Papa – non c’è altra reazione che quella di manifestare rispetto, profondo rispetto. E in questa reazione l'opinione pubblica mondiale è stata unanime: leaders religiosi, capi di Stato, presidenti di Governo e gente comune. Questa forma di giudizio la si può racchiudere con il classico aforisma "vox populi, vox Dei".
Qualunque altro giudizio, se vuole essere ragionevole, non può che vertere sugli effetti, calcolati o imprevedibili, dell’azione compiuta, e non sulla persona o sull’azione in sé. Pertanto, il giudizio è necessariamente storico, formulato da una prospettiva temporale, e quindi soggetto esso stesso a cambiamenti. Lasciamo questo giudizio agli storici.
Tuttavia, l’opinione pubblica non può attendere il giudizio degli storici per formarsi. E su questo avvenimento in corso si sta effettivamente già formando. In merito a questo tipo di giudizio, ancora più contingente di quello degli storici, mi azzardo a formulare alcune considerazioni dal punto di vista di chi si occupa da diversi anni della ricerca sull’opinione pubblica e la Chiesa.
1. Un’analisi, necessariamente provvisoria, dell’opinione pubblica internazionale così come traspare dai mezzi di comunicazione, è chiaramente molto positiva, anche tra i non cristiani. Già il solo fatto che si presti un’attenzione globale così rilevante – ad eccezione della Cina per ovvie ragioni di censura – alla rinuncia del “capo di una delle religioni” dimostra che, in qualche modo, l’opinione pubblica percepisce la singolarità della Chiesa Cattolica e dell’uomo che la governa, le cui pretese sono diverse dalle altre religioni. Queste pretese, potranno essere accettate o meno, a seconda che si abbia fede oppure no, ma sono comunque percepite come tali. Non si riserva una simile attenzione alla rinuncia di nessun altro leader religioso. Evidentemente, ci sono altri fattori: numero di seguaci, storici, ecc. Ma da soli non spiegano questo interesse.
2. Negli ambienti cattolici, all’interno della Chiesa, insieme ad una esplicita adesione a Benedetto XVI e ad un’accettazione della sua decisione, trovo domande e a volte perplessità. Una decisione come questa, cambia il ruolo del Papa nella Chiesa? Sarà di beneficio o pregiudizievole per il futuro della Chiesa? Condiziona le decisioni dei suoi successori, e in che modo? Queste sono domande che hanno a che fare con l’opinione pubblica nella Chiesa. Su questo piano, quello della formulazione e della formazione dell’opinione pubblica nella Chiesa, avanzo alcuni argomenti:
a) A livello di fede (a livello del dogma, dei contenuti essenziali della fede), l’opinione pubblica non ha un ruolo discorsivo. Si è dentro o fuori della comunione della fede. Il Credo non dice nulla delle dimissioni del Vicario di Cristo. Però l’opinione pubblica si manifesta anche su questo piano comesensus fidelium, che non giudica la decisione del Papa ma che prega. Infatti, si sta manifestando come plebiscito di preghiera per la Chiesa, per il Papa e per il suo successore. Basta navigare in Internet per “ascoltare” questo clamore.
b) A livello pratico, della comunione di vita –la Chiesa non è una comunità democratica, però si che è una comunione – l’eventuale dimissione di un Papa spetta soltanto a lui, ponendosi davanti a Dio e alla sua coscienza. Però lui, come gli altri fedeli, deve dare conto in qualche modo alla comunione dei fedeli (accountability), dato che non è un potere dispotico. E ciò è precisamente quello che ha fatto Benedetto XVI, dando conto della sua scelta direttamente al Concistoro di Cardinali che lo assistono nel suo governo, in rappresentanza di tutta la Chiesa. E così a tutti i fedeli e all’opinione pubblica in generale.
c) Sul piano contingente, regna la libertà, con argomenti, ragionevoli oppure no, con migliore o peggiore fondamento. In questo ambito, le discussioni sono aperte e necessarie. Nel futuro, i Papi e i Cardinali, i canonisti e i teologi,... e in qualche modo tutti i fedeli, dovranno pensare a come governare la Chiesa in maniera chiara e trasparente quando il Papa è impedito, si dimetta o no. L’azione di Benedetto XVI rappresenta una lezione di comunicazione anche in questo ambito: liberare ciò che è contingente con decisioni contingenti. Solo i santi hanno questa libertà di spirito, perché a loro importa il giudizio di Dio, e non quello della storia, come fece Giovanni Paolo II quando decise di continuare fino alla morte.


RICONOSCERE CIÒ CHE È DOVUTO...
Rev. Prof. Jesús Miñambres, Docente di Diritto Patrimoniale Canonico
La notizia della rinuncia del Papa alla Sede provoca al giurista una prima reazione di ringraziamento: poiché è giusto dare a ciascuno ciò che gli spetta, innanzitutto bisogna ringraziare il fedele Joseph Ratzinger per il percorso di vita fin qui fatto e per la sua disponibilità all'azione della grazia, che lo ha portato lontano dalla sua passione per l'insegnamento e la ricerca verso un impegno in ruoli di governo al servizio della Chiesa.
In termini più tecnici, la rinuncia di Benedetto XVI all'ufficio di Romano Pontefice attua una delle possibilità previste nella Chiesa per provocare la vacanza della Sede Apostolica, l'altra è la morte del Papa. Ipotesi "prevista" legalmente (can. 332 § 2 CIC e 44 § 2 CCEO; n. 3 e 77 Universi Dominici Gregis) ma mai avvenuta pratica; ipotesi trattata dagli autori (vi è perfino una voce di P. Majer in un recente Diccionario General de Derecho Canónico, Pamplona 2013) ma mai verificatasi nella prassi. Ipotesi che adesso si avvera e che pone alcuni quesiti giuridici interessanti: come si configura lo statuto giuridico personale di chi "è stato" Romano Pontefice? Analogamente a quello che succede con le altre sedi episcopali, si potrà anche parlare di un vescovo "emerito" di Roma? In termini più fondamentali, cosa spetta a chi "è stato" Romano Pontefice?
Sono quasi sicuro che Benedetto XVI ha meditato su queste questioni e ha consultato degli esperti per procedere con prudenza. Sono altrettanto certo che non sono stati questi gli aspetti più importanti da prendere in considerazione prima di decidere il passo da fare.
Penso che, indipendentemente dalle riflessioni giuridiche che si possano fare, la libertà di spirito e la trasparenza con cui è stata portata a termine la decisione, meritino accoglimento grato da parte dei fedeli nei confronti di chi è ancora per qualche settimana il pastore supremo della Chiesa, e accompagnamento nella preghiera durante questa tappa senza precedenti nella storia cristiana.


COERENZA E UMILTÀ NELLA DECISIONE DI BENEDETTO XVI
Rev. Prof. Philip Goyret, Vicerettore, Docente di Ecclesiologia
Tutti siamo rimasti sorpresi da questo gesto inatteso di Benedetto XVI, e la prima reazione naturale di ogni cattolico deve essere la preghiera intensa e profonda per la sua persona e per la Chiesa.
A ben guardare, però, la decisione del Papa si pone in grande coerenza col suo pensiero e, più particolarmente, con il modo di capire la funzione petrina. Essa, infatti, non si regge secondo i parametri del governo delle nazioni. Quando gli apostoli discutono su chi sarebbe il più grande, Gesù dice loro: “Chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve” (Lc 22,26).
Per il capo degli apostoli, e per i suoi successori nel governo della Chiesa, è essenziale la consapevolezza di essere totalmente al servizio del gregge. Quando si percepisce che le condizioni per svolgere questo servizio vengono meno - e ciò può succedere in diversi modi, non solo nell’ambito della salute fisica o mentale -, la decisione di ritirarsi emerge come scelta non solo coerente, ma anche come risultato di un atteggiamento personale segnato dall’umiltà, lontano dall’attaccamento despotico al potere. Così, il “semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore”, come volle presentarsi al mondo quando il 19 aprile 2005 si affacciò in Piazza San Pietro per salutare la folla ivi congregata, si è mantenuto tale fino alla fine.
Ma l’aspetto essenziale è sempre il servizio, come detto nel Vangelo di Luca. Il modo di servire può essere molto incisivo anche attraverso la sofferenza e la malattia, come fu il caso degli ultimi anni del pontificato precedente.
Teniamo presente che il governo della Chiesa più efficace fu quello fatto da Gesù dalla croce, in qualche modo continuato da Pietro apostolo, anche lui morto in croce.
Possiamo dire, in definitiva, che la dimissione dalla funzione primaziale è anche un morire alla gloria, e così Benedetto XVI ci lascia un esempio tanto valido quanto quello di Giovanni Paolo II.


UNA SVOLTA STORICA
Rev. Prof. Johannes Grohe, Direttore 'Annuarium Historiae Conciliorum', Docente di Storia della Chiesa
Dal punto di vista storico, la rinuncia di Benedetto XVI rappresenta una svolta: sebbene si possano indicare come esempio le rinunce di San Clemente I (97) oppure di S. Ponziano (235), tuttavia si tratta –ugualmente ad altri casi simili durante i primi secoli– di situazioni di persecuzione della Chiesa in cui la dimissione aveva lo scopo di non lasciare la Chiesa senza pastore.
Nemmeno la rinuncia al papato di San Celestino V (1294) può essere seriamente addotta come esempio, giacché il santo eremita dopo pochi mesi si rese conto della propria inadeguatezza e di una dipendenza sempre più soffo­cante della corte napoletana, e con grande umiltà trasse le conseguenze.
Il Papa ieri ha preso la sua decisione con grande coraggio e piena libertà: quando un Papa giunge alla chiara consapevo­lezza di non essere più in grado fisicamente, psicologicamente e mentalmente di svolgere l’incarico affidatogli, allora ha il diritto ed in alcune circostanze anche il dovere di dimettersi, aveva dichia­rato nel libro-intervista di Peter Seewald 'Luce nel Mondo' del 2010.


LA COSCIENZA DELLA RINUNCIA
Dott. Joaquín Navarro-Valls, Professore Visitante della Facoltà di Comunicazione