Riporto di seguito l'editoriale di monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, pubblicato sull'edizione odierna del quotidiano di economia Il Sole 24 Ore.
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Il paragone fra le scelte compiute da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI davanti al venir meno delle loro forze fisiche, è stato avanzato da più parti, talvolta soltanto per immaginare una contrapposizione e ipotizzare retroterra inquietanti. In realtà, l’accostamento fra i due Papi, figure dall’evidente diversità e dalla non meno profonda sintonia, può risultare particolarmente fecondo nell’aiutare a comprendere ciò che sta avvenendo al vertice della Chiesa cattolica e il suo possibile significato per il prossimo futuro.
La chiave di lettura più adeguata per interpretare il modo di porsi davanti alla malattia, alla sofferenza e alla morte del Papa polacco, è la mistica slava della Croce. Avendo avuto il singolare privilegio di predicare a Giovanni Paolo II gli ultimi esercizi spirituali cui egli abbia potuto partecipare, ho avuto anche modo di ascoltare dalle sue labbra parole che restano scolpite nella mia memoria e nel cuore: “Il Papa deve soffrire per la Chiesa”. Ciò che mi colpì fu l’intensità con cui le diceva, in particolare la forza posta su quel “deve”.
I Vangeli, d’altra parte, testimoniano che davanti alla sua passione Gesù usò parole simili. Si legge in Marco: “E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto…” (8,31). E nel racconto di Luca il Maestro dice: “Il Figlio dell’uomo deve soffrire…” (9,22). La cristianità slava si riconosce particolarmente in questo destino, connesso alla sequela di Cristo. Essa sa di essere stata generata nel segno della Croce: “Nella comunità dei popoli europei - scrive P. Tomas Spidlik -, gli slavi ricevettero il battesimo come operai dell’ultima ora. Ciò nonostante, il sangue dovette bagnare i nuovi campi seminati dal Vangelo… Perciò i pensatori slavi si sono sempre soffermati a indagare sul vero senso del dolore”. Per essi, “la sofferenza è una grande forza, perché santifica non soltanto gli innocenti, ma anche coloro che hanno peccato e accettano che il ‘castigo’ sani il ‘delitto’”.
Nicolaj Berdiaev non esita ad affermare: “L’intensità con la quale si sente la sofferenza può essere considerata come un indice della profondità dell’uomo. Soffro, quindi sono”. E Boris Pasternak chiude il suo romanzo Il Dottor Zivago con queste parole: “L’anima è triste fino alla morte... Eppure il libro della vita è giunto alla pagina più preziosa… Ora deve compiersi ciò che fu scritto. Lascia dunque che si compia. Amen”. In questa luce, non meraviglia che il Papa slavo comprendesse la sua missione come martirio, e che abbia voluto proclamare dalla cattedra del vissuto ciò che aveva insegnato con la parola e gli scritti: quanto era detto nella sua lettera apostolica Salvifici doloris dell’11 Febbraio 1984 sul senso incomparabile della sofferenza offerta per amore, Giovanni Paolo II lo proclama al mondo con l’eloquenza silenziosa della sua passione, fino a quel gesto muto di dolore, compiuto spontaneamente quando - affacciato alla finestra su una Piazza San Pietro gremita di folla silenziosa - non poté dire più alcuna parola.
Benedetto XVI si muove in un diverso orizzonte culturale e simbolico, quello della mistica occidentale del servizio. Egli è l’uomo che sa di dover dare gratuitamente quanto ha gratuitamente ricevuto. E sa che questo dare senza ritorno è il servizio cui è stato chiamato, tanto come pensatore della fede, quanto come pastore e apostolo, posto dal Signore a lavorare nella Sua vigna, umile operaio impegnato a spendere tutti i doni d’intelligenza e di fede, ricevuti da Dio, a favore della causa di Dio in questo mondo.
Anche questo servizio non è che una “imitatio Christi”, un ripresentare con la parola e con la vita Colui che “non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Marco 10,45). Gesù stesso si presenta così: “Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Luca 22,27). Da fine conoscitore dell’opera del mondo, Joseph Ratzinger non ignora quanto questa mistica del servizio sia alternativa alla logica del potere terreno.
È quello che afferma Gesù: “Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo” (Matteo 20, 25-27). È servendo che si diventa umili e fedeli lavoratori della vigna del Signore. Scriveva Benedetto XVI nella sua prima enciclica, la Deus caritas est (2005): “Servire rende l’operatore umile. Egli non assume una posizione di superiorità di fronte all’altro… Chi è in condizione di aiutare riconosce che proprio in questo modo viene aiutato anche lui; non è suo merito né titolo di vanto il fatto di poter aiutare… Egli riconosce di agire non in base ad una superiorità o maggior efficienza personale, ma perché il Signore gliene fa dono. A volte l’eccesso del bisogno e i limiti del proprio operare potranno esporlo alla tentazione dello scoraggiamento. Ma proprio allora gli sarà d’aiuto il sapere che, in definitiva, egli non è che uno strumento nelle mani del Signore; si libererà così dalla presunzione di dover realizzare, in prima persona e da solo, il necessario miglioramento del mondo. In umiltà farà quello che gli è possibile fare e in umiltà affiderà il resto al Signore. È Dio che governa il mondo, non noi. Noi gli prestiamo il nostro servizio solo per quello che possiamo e finché Egli ce ne dà la forza” (35).
Come mostrano chiaramente queste ultime parole, rinunciare al servizio quando le forze vengono meno è umile riconoscimento dell’imperscrutabile volontà di Dio, espressione delle fede incondizionata nella Sua fedeltà, che si manifesta secondo tempi e modi che non sono quelli della logica del potere di questo mondo.
La mistica della Croce del Papa slavo e quella del servizio del Papa tedesco si rivelano così volti di uno stesso amore: l’amore a Cristo redentore dell’uomo e al Padre che l’ha donato a noi; l’amore alla Chiesa e all’umanità, per il cui bene maggiore si è chiamati a offrire tutto di sé e a servire.
È, insomma, la mistica dell’amore che unisce i due Papi, che hanno saputo essere ciascuno se stesso, fedeli alle loro diverse identità spirituali e alle radici culturali di esse. Proprio così si potrà immaginare chi verrà dopo di loro: anche il prossimo Papa sarà chiamato a vivere la mistica dell’amore. Gli si chiederà di offrire se stesso senza riserve e di servire, mettendo a disposizione del popolo di Dio e dell’umanità i doni ricevuti. E forse, anche grazie al segnale lanciato dalla rinuncia del Papa di fronte alla presa di coscienza della propria fragilità, gli si chiederà in modo particolare di esprimere questa mistica dell’amore in una fraternità sempre più grande, affettiva ed effettiva, con coloro che con lui sono incaricati della sollecitudine per tutte le Chiese.
La collegialità episcopale, volto e strumento della carità che si dona e serve, richiamata dallo stesso Benedetto XVI all’inizio del suo pontificato come priorità decisiva, dovrà conoscere gli sviluppi rimasti ancora impliciti in quanto indicato dal Vaticano II. Ciò esigerà un sussulto di amore da parte del prossimo Successore di Pietro, come della Chiesa tutta con lui. L’agenda del prossimo pontificato, sulla base della consegna che lascia in eredità proprio il Papa ritiratosi nel silenzio, sarà segnata da questa priorità. Ed essa andrà perseguita con l’unica forza che la giustifichi e la renda possibile ed efficace: l’amore ricevuto da Cristo, per essere vissuto e donato a tutti, senza misura, dai suoi discepoli.