giovedì 14 febbraio 2013

Le ferite aperte del Vaticano



Negri: Necessaria una riforma morale della Chiesadi Luigi Negri*
Il Papa ci lascia una straordinaria eredità di umanità. Una umanità fatta innanzitutto dalla intensità della sua fede personale in Gesù Cristo, che poi è l’aspetto più imponente dell’annunzio che ha dato. La fedeltà al Signore Gesù Cristo, un’umile appassionata appartenenza alla Chiesa e il servizio ad essa in tutte le funzioni che ha avuto, fino a quest’ultima, certamente non attesa ma abbracciata con un senso profondo di obbedienza al mistero di Cristo. Una umanità che si rinnova quotidianamente nell’esperienza della fede e della compagnia ecclesiale, proprio come mi ha insegnato per 50 anni don Giussani.

E’ un momento di umanità che è offerto a tutti gli uomini di buona volontà. Incontro quotidianamente decine di laici, qualificati o meno, che sono stati vivamente toccati dalla presenza e dal magistero di questo Papa. Toccati soprattutto per questa sua radicale proposizione della ragione: della ragione aperta al Mistero, della ragione che sente lontano ma incombente il Mistero, e che perciò non accetta più di essere una macchinetta che funziona organizzando oggetti di conoscenza e manipolandoli tecnologicamente quando è possibile manipolarli. Anche gli oggetti umani, perché la vita - così come il Papa quotidianamente ha accusato - è ridotta a oggetto biologico da sottoporre senza nessuna regola alle manipolazioni che si ritengono giuste per la terapia della malattia, ma soprattutto per le ricerche scientifiche, del presente e del futuro. Una ragione vibrante, la ragione che nasce dal cuore che esprime il cuore, e che cammina verso il senso ultimo della vita misteriosamente celato al di là della realtà, ma pur presente nella realtà.

Questa sua straordinaria testimonianza di fede e di umanità ha avuto nella formulazione della carità il suo punto più alto. La carità che è Dio, è Dio vivo, è il Dio vivente in Gesù Cristo, è il Dio vivente in tutti coloro che credono in Lui, e che perciò partecipano di questa assoluta novità di coscienza e di cuore, che è la coscienza e il cuore del Signore Gesù Cristo: «Noi abbiamo il sentimento di Cristo», diceva San Paolo. E la carità verso gli uomini - che ha dimostrato anche con l’amabilità del suo entrare a contatto con le centinaia di migliaia che l’hanno potuto accostare anche solo per pochi istanti -, la carità verso gli altri è un dilatare agli uomini quella profondità di vita nuova che è dentro il cuore del credente e che non può essere trattenuta dentro il cuore del credente. Per sua forza, per sua logica tende a debordare dalla vita della persona e a entrare nel mondo e a creare rapporti nuovi e definitivi sul ritmo della umanità e del rispetto e non sul ritmo della violenza e del possesso, che sembrano essere l’unica logica del mondo in cui viviamo.

Questa grande testimonianza ha avuto il punto terminale, inaspettato, sconvolgente nelle dimissioni che sono state in linea perfetta con questa volontà di dedizione alla Chiesa, con la consapevolezza umile e realistica di non riuscire più a vivere in modo adeguato, a onorare in modo adeguato, questo servizio pontificale per l’unità della Chiesa, per la sua verità, per la sua carità, per la comunione che deve animare la vita della Chiesa universale e delle Chiese particolari, che trova nel Papa il punto ultimo di riferimento: «Quella Chiesa che presiede a tutte le altre nella vita della carità», come dicevano gli apologeti e poi i primi padri della Chiesa.

Certo, il compito che attende il successore è un compito grande: certamente quello di evolvere, di maturare, di far passare ancora con maggiore decisione questa grande testimonianza di fede e di umanità nelle cellule vive della Chiesa cattolica. E l’Anno della Fede è l’ultima, bellissima, intuizione di papa Benedetto: questo ritorno alla presenza di Cristo, questa sequela di Lui, sequela formulata - come ebbe a formularla nel Sinodo dei vescovi - in conversione dell’intelligenza e del cuore. L’Anno della Fede sintetizza il suo cammino di Papa e lo sintetizza in modo operativo ed educativo, quindi va portata avanti questa ripresa radicale della fede come evento da incontrare e da vivere e non quindi ridotto in indicazioni, sentimenti, prospettive di carattere spiritualistico, individualistico e meno che mai a progetti di carattere sociologico, come indicava con grande chiarezza all’inizio della Deus Caritas Est. Certo, il Papa sa bene le fatiche della Chiesa - e qualcosa traspare, pur nel pudore totale della sua comunicazione -, sa bene le fatiche, quelle difficoltà spirituali che hanno gravato anzitutto e soprattutto sulle sue spalle, con un peso che certamente io credo lo abbia fatto faticare più di una volta.

La Chiesa ha ora bisogno di un Papa che proceda in modo rigoroso e veloce – se così posso dire – a una riforma intellettuale e morale della Chiesa stessa, ma innanzitutto dell’episcopato e del clero. C’è bisogno di una forte coscienza della novità cristiana, che diventi cultura, criterio di giudizio, criterio di comportamento, capacità di interlocuzione con il mondo fuori della Chiesa, capacità di vicinanza e di denuncia nei confronti di questa cristianofobia che è stata più di una volta indicata da Benedetto XVI come il contesto che sta diventando normale nella vita delle Chiese in tutti i continenti.

C’è bisogno di una riforma intellettuale e morale: io mi sono permesso durante la visita ad limina (lo scorso 4 febbraio, ndr) di sottolineare l’importanza che si cali nell’ambito dei seminari, soprattutto quelli regionali, un insegnamento sul Magistero, che faccia imparare a leggere e a valorizzare il Magistero del papa; e un insegnamento di Dottrina sociale della Chiesa, che consenta ai sacerdoti di affrontare la realtà socio-politica di oggi con coordinate molto chiare: sono quelle sintetizzate dal Papa nei principi non negoziabili ma che arrivano come l’esito di un processo secolare che sarebbe meglio conoscere e comprendere.

La tenerezza che tanta realtà ecclesiale ha nei confronti del Papa e che oggi è segnata da un grande dolore, diventa umile e certa domanda a Cristo e alla Madonna, perché accompagni la Chiesa in questo passaggio difficile consegnandola a un Papa più giovane e perciò capace di rispondere a questa sfida sulla riforma intellettuale e morale. Spesso ripenso a quella straordinaria e profetica omelia che Giovanni Paolo I tenne all’inizio del pontificato, quando prese possesso della Basilica di San Giovanni in Laterano, quindi della sede di Roma. Dopo avere enucleato le gravi difficoltà in cui la Chiesa vive - viveva e vive - disse: «Dobbiamo tornare tutti all’antica disciplina della Chiesa».

Questo è stato il tentativo inesausto di Benedetto XVI, contraddetto da tante difficoltà esterne e interne, ma questo credo che sia la strada che il successore dovrà necessariamente riaprire se vuole servire una Chiesa capace di missione e non chiusa a gestire spazi religiosi in una società secolarizzata.
* Arcivescovo eletto di Ferrara-Comacchio
Fonte: La nuova bq

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Le dimissioni e la riduzione modernista
di Stefano Fontana

Nel frastuono di queste ore, dopo che il sistema comunicativo mondiale si è messo a centrifugare la notizia delle “dimissioni” di Benedetto XVI, credo ci sia la necessità di contrastare fin da subito – ma credo che la lotta durerà a lungo – l’interpretazione modernista di questo atto. Ne abbiamo avuto insigni esempi fin dai primi minuti e basta leggere i giornali di martedì 12 febbraio, ossia quelli della prima ora, per rendersi conto delle energie e delle truppe che questa interpretazione modernista intende mettere in campo.
Naturalmente, anche questa volta, l’interpretazione modernista più pericolosa è quella che nasce dentro la Chiesa, piuttosto che quella proveniente dal mondo laico. L’idea modernista è che con questo atto qualcosa è cambiato nella natura della Chiesa e nella natura del papato. Se il papato diventa una “carica a tempo”, se le forze fisiche e umane sono un criterio per misurare un Papa, se il Pontefice si comporta come una persona “normale” (Gian Enrico Rusconi su La Stampa) è evidente, afferma l’interpretazione modernista, che “cambia radicalmente lo status del pontificato romano” (Ezio Mauro suRepubblica). Ratzinger avrebbe quindi “desacralizzato” e “laicizzato” la funzione pontificale.
La modernità ha fatto della “debolezza” la propria caratteristica e nel Papa che considera tutta la propria debolezza l’uomo ha prevalso sul Pontefice. E’ così che l’interpretazione modernista legge i riferimenti alla “umanità” del gesto di Benedetto XVI. Quante volte abbiamo letto e sentito in queste ore nelle interviste televisive fatte all’uomo della strada un diffuso compiacimento perché il Papa ha riconosciuto di essere un uomo come tutti noi. Torna il grande tema della Chiesa che si fa mondo, della religione che si fa umanesimo: una delle più classiche vulgate della interpretazione conciliarista del Vaticano II.
Anche il Papa si fa compagno di viaggio e scende dal soglio. E infatti non sono pochi i tentativi di collegare la scelta di Ratzinger con l’interpretazione modernista del Concilio. Il Papa che fino a ieri era colpevole di aver tradito il Concilio ora viene esaltato come il realizzatore pieno del Vaticano II. Compresa la questione della collegialità episcopale: perfino questo è stato tirato fuori.
Domenico Rosati, per esempio, su L’Unità sostiene che c’è stato come un abbassamento del papato al livello dell’episcopato e le dimissioni di Ratzinger hanno fatto sentire in tutta la sua forza l’esigenza di un Sinodo permanente che si accosti al Papa nel governo della Chiesa.
Raniero La Valle, che non poteva mancare, ha detto che il gesto di Benedetto XVI “ha rimesso il Papa all’interno del collegio dei Vescovi, all’interno della Chiesa”. E’ perfino tornata in pista l’idea di un Vaticano III o, quantomeno, di Concili tematici come aveva proposto il cardinale Martini. Non solo la collegialità, ma anche l’ecumenismo è stato tirato in ballo.
Questo depotenziamento del primato di Pietro - è stato detto – non può che aiutare nei rapporti con i fratelli separati e riavvicina la Chiesa cattolica alle “Chiese sorelle”. Il cavallo di battaglia del modernismo è però, come si sa, lo storicismo, ossia il culto del nuovo. Le parole “rivoluzionario” e “inaudito” hanno avuto un gran mercato in queste ore.
Le dimissioni del Papa sono state apprezzate dalla corrente modernista prima di tutto per questo, perché sarebbero un fatto nuovo e inaudito, una novità capace di inaugurare un volto nuovo di Chiesa, un evento, insomma, che solo per il fatto di accadere diventa testo a se stesso. Sarebbe un nuovo incipit, da cui non si potrà più tornare indietro e che avrebbe influito già sull’imminente prossimo conclave, imponendo la scelta di un Papa giovane.
L’interpretazione modernista dilagante in queste ore è sbagliata. E’ sbagliata in due sensi: prima di tutto perché contraddetta da tutto Ratzinger, dal suo pensiero come teologo e dal suo insegnamento come Pontefice, secondariamente perché è contraddetta dalla dottrina della Chiesa. La natura della Chiesa e del Papato non sono cambiati e nessuna tesi conciliarista può insidiare il primato di Pietro finché Pietro è Pietro, anche se costui decide in coscienza e davanti a Dio, come previsto dal Codice di diritto canonico, di rinunciare al suo potere di giurisdizione.
La “desacralizzazione” del papato può essere frutto di una interpretazione modernista della scelta di Benedetto XVI, ma non di quella scelta. Non è vero che la modernità ha scelto la debolezza e l’umiltà, come avrebbe fatto il Papa in questo frangente. La modernità ha scelto l’onnipotenza e la libertà assoluta, cose molto diverse dal primato di Dio ribadito da Benedetto XVI.
La collegialità episcopale, secondo i lavori teologici di Ratzinger e il suo insegnamento da Pontefice, vanno intesi in senso verticale e non orizzontale e quindi hanno bisogno del Papa al di sopra di tale collegialità, come condizione per la stessa. Sarebbe proprio curioso che questo teologo-Papa volesse dare ora a questa sua scelta un significato opposto a quanto ha insegnato fino al giorno prima.
La novità delle dimissioni è senz’altro una novità, dato che non era quasi mai accaduto prima. Ma bisogna chiedersi se questa novità intacca la Tradizione della Chiesa. La risposta è no. Le dimissioni non cancellano otto anni di pontificato, in continuità con i pontificati precedenti, i cui insegnamenti e le cui indicazioni costituiscono la base per il nuovo Pontefice di prossimo arrivo. Il pericolo che Benedetto XVI sia visto solo come il “Papa della dimissioni” c’è e il modernismo ci si spenderà.
Ma i suoi insegnamenti rimarranno come una stella nel firmamento, come ha detto il cardinale Sodano. Credo che prossimamente si scatenerà una potente lotta tra questa tesi modernista delle dimissioni di Benedetto XVI e l’interpretazione fatta alla luce della Dottrina e della Tradizione della Chiesa.
Sono convinto che egli l’abbia previsto e che nel suo cuore di Pontefice ne abbia valutato il peso. A questa sua decisione mi inchino.
Nello stesso tempo ritengo importante non farsi sommergere dalla retorica del “gesto coraggioso” e di impegnarci a difendere, per quanto sta in noi, Benedetto XVI e i suoi insegnamenti dalla interpretazione modernista.

Fonte: La nuova bq

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Riporto da "La Repubblica" di oggi, 14 febbraio 2013
a firma di Enzo Bianchi.
L’ultima liturgia pubblica di papa Benedetto XVI sarà stata una liturgia penitenziale anzi, la liturgia penitenziale per eccellenza: il rito dell’imposizione delle ceneri all’inizio della quaresima durante il quale risuonano le parole di Gesù: “Convertitevi a credete nel vangelo” o l’ammonimento “Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai!”. Con questa celebrazione è iniziato, come ogni anno, il tempo della penitenza quaresimale ma, caso unico nella storia della chiesa, questa volta è iniziato anche il tempo del discernimento per l’elezione di un nuovo successore di Pietro mentre il predecessore è ancora in vita e nell’esercizio del suo ministero di vescovo di Roma. E papa Benedetto XVI ha voluto che questo passaggio cruciale avvenisse nel segno del pentimento e della richiesta di perdono. Già lunedì, nel dare l’annuncio sorprendente della sua rinuncia al papato, aveva aggiunto un sincero “chiedo perdono per tutti i miei difetti”. Oggi, l’omelia rivolta ai cardinali, ai vescovi, al clero e ai fedeli di Roma che partecipavano al rito penitenziale in San Pietro è stata anche un esigente richiamo a riflettere su come “il volto della Chiesa venga a volte deturpato da colpe contro l’unità della Chiesa e divisioni del corpo ecclesiale”. Una riflessione che deve condurre alla conversione e alla rinuncia a ogni comportamento e azione che contrastino con l’unità voluta dal Signore per i suoi discepoli.

Un papa che si dimette deve interrogarci, anche se ha dichiarato – e noi gli crediamo radicalmente perché Benedetto XVI si è mostrato affidabile – di farlo nella libertà, per il bene della chiesa e per essere giunto in coscienza alla valutazione di insufficienza delle proprie forze. Man mano che passano i giorni, le domande crescono, anche perché il pontificato è stato sovente scosso da eventi che hanno turbato tutta la chiesa e quindi tanto più chi in essa ha ricevuto dal Signore responsabilità e compiti così particolari. Nel suo primo discorso dopo l’elezione, Benedetto XVI disse che non aveva programmi ma che voleva servire la comunione e fare di tutto perché la rete della chiesa ormai strappata non fosse lacerata ancor di più ma conoscesse una dinamica di ricomposizione. E invece... la mano tesa ai seguaci di Lefebvre non è stata accolta, la sua esortazione a evitare ricerca di poteri, interessi personali, disonestà e malaffare economico è stata troppe volte evasa, la sua volontà di eliminare la sporcizia ha trovato macigni enormi. Conosco abbastanza la persona del papa per affermare che non si è scoraggiato, che non fugge né diserta, ma comprendo la sua fatica, la sua stanchezza e il suo desiderio di mostrare a tutti che non ha mai ritenuto la chiesa come qualcosa di suo, di cui potersi servire, bensì solo e sempre una proprietà del Signore. L’ho detto e lo ripeto, c’è in Benedetto XVI una capacità di decentrarsi rispetto a Cristo che molti non sanno neanche cosa sia e quanto costi in termini di abbassamento e anche di svuotamento.

Le parole pronunciate ieri dal papa sono parse dirette alle ferite resa alla comunione ecclesiale dalle tensioni e divisioni vissute all’interno stesso della chiesa cattolica e anche tra coloro che sono pastori e hanno in essa un particolare ed essenziale ministero di comunione. Sono parse riecheggiare le parole forti già usate da Benedetto XVI in altre circostanze riguardo a quello “sbranarsi a vicenda” che pare aver preso piede anche tra cristiani. Basilio di Cesarea, il grande padre della chiesa tanto amato anche dal papa, in un testo dal titolo significativo –  “il giudizio di Dio” – stigmatizza severamente le divisioni, le rivalità, le lotte, la ricerca di potere, il carrierismo  presenti nella chiesa del suo tempo: “Vedo nella chiesa di Dio grandissimo disaccordo ... e i capi, che con giudizi contrapposti lacerano le chiese, turbano il gregge”. Devono essere parole ben presenti alla mente e al cuore di Benedetto XVI in questo momento particolarissimo del suo pontificato: ci pare di scorgere nel suo accorato appello all’unità anche la sofferenza di chi ha visto il proprio ministero di comunione compreso da qualcuno come causa di divisione. Dobbiamo riconoscerlo con la stessa parresia usata dal papa: la chiesa è oggi lacerata da divisioni e contrapposizioni, sovente si registra anche una confusione che non permette alla comunità ecclesiale di pervenire pur con fatica a quell’unanimità possibile, mai piena ma sempre da ricercarsi, in modo da essere reale comunione animata dall’amore ed essere testimonianza e profezia per il mondo.

Questo dato non è solo fonte di sofferenza, ma anche opportunità di ritorno al Signore, di discernimento della volontà di Dio: ogni volta che nella storia appare con maggior chiarezza il segno della croce di Cristo, le forze avverse alla logica scandalosa della croce si scatenano. È stato così nei confronti di Gesù, è stato, è e sarà così di fronte alla chiesa ogniqualvolta questa cerca di essere più fedele al suo Signore. E in questi anni recenti abbiamo purtroppo assistito anche allo svelamento di una cattiveria che sembra regnare di diritto anche nello spazio ecclesiale ed essere utilizzata come strumento per prevalere sugli altri, per delegittimarli. Io stesso più volte l’ho denunciato come il male più evidente nell’attuale tessuto ecclesiale. 
Credo che questa liturgia penitenziale conclusiva del ministero petrino di Benedetto XVI possa allora essere accostata a un altro grande segno evangelico lasciato dal suo predecessore: la liturgia del perdono celebrata in San Pietro per la quaresima dell’anno giubilare. Allora come oggi, il successore dell’umile pescatore di Galilea riconduce la chiesa intera ai piedi della croce per implorare il perdono di Dio e per intraprendere ancora una volta il cammino di conversione verso l’unico Signore: discernere e confessare il peccato, infatti, è condizione essenziale per ritrovare, per pura grazia, la vera identità propria.

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Riporto da "Libero" di oggi, 14 febbraio, a firma di Antonio Socci.
Perché una corazzata come il “Corriere della sera” sta così amplificando il presunto smarrimento della Chiesa in seguito alle dimissioni del Papa?
Ieri l’apertura della prima pagina strillava: “Tutte le insidie di un interregno. Ansia e timori tra i cardinali ‘Ora va fermato il contagio’ ”.
Non si capisce a che tipo di contagio ci si riferisca. C’è forse un’epidemia di peste in Vaticano? O di gotta? O di lebbra?
O forse al “Corriere” temono che a cascata vi sia una sequela di dimissioni? Magari. Del resto le dimissioni del Pontefice azzerano automaticamente tutte le cariche. E’ forse questo il problema?
Spero che la scelta “interventista” del “Corriere” non sia una replica – in grande – dell’ “operazione Todi” con cui il quotidiano di via Solferino teleguidò dove voleva le organizzazioni cattoliche nell’autunno 2011.
Fu un successone per il giornale di De Bortoli. Ma una catastrofe per i cattolici.
Torniamo a ieri. Non so chi sia l’anonimo ecclesiastico che avrebbe dichiarato a Massimo Franco: “Queste dimissioni di Benedetto XVI sono un vulnus; una ferita istituzionale, giuridica di immagine. Sono un disastro”.
Franco sostiene che l’anonimo monsignore sarebbe “uno degli uomini più in vista della Curia”. Io ho i miei dubbi.
Comunque se davvero un monsignore importante di Curia attacca così il papa (e sui giornali, sotto anonimato, cioè tirando il sasso – al Pontefice a cui dovrebbe lealtà – e nascondendo la mano) si capisce perché Benedetto XVI ha dovuto soffrire tanto in questi anni.
E si capisce perché si è dimesso per aprire la strada a un papa forte, energico, che metta in riga tanti bei soggettini del genere. Che sono braccia rubate all’agricoltura e andrebbero mandati a faticare raccogliendo pomodori.
Anche perché non si vede come si possa definire “vulnus, ferita istituzionale e giuridica”, una possibilità come le dimissioni perfettamente prevista dal Codice di diritto canonico.
Si ha piuttosto l’impressione che i monsignori anonimi che attaccano il Papa siano quelli che temono di perdere peso. E che la buttano in caciara per salvare qualche cadrega.
Il “Corriere” titolava l’articolo di Franco con questa assurda formula: “La Chiesa teme la ‘ferita’ al ruolo del Pontefice”. Sposando così le fantasiose teorie di Scalfari su “Repubblica”.
Ma non c’è nessun uomo di Chiesa serio e ferrato nella dottrina che può affermare una tale baggianata.
Perché la sacralità, o meglio l’essere “Vicario di Cristo” e l’ “infallibilità” sono prerogative del ministero petrino, non della persona momentaneamente incaricata.
E il gesto di umiltà di Benedetto XVI – così raro in un mondo dove ci si sbrana per conquistare potere – ha proprio lo scopo di esaltare il ministero e mettere in secondo piano se stesso, ovvero la persona che si trova a portare questa responsabilità.
Per lo stesso motivo il grande don Bosco correggeva i suoi ragazzi che gridavano “Viva Pio IX” dicendo loro: “bisogna dire: Viva il Papa!”. E si badi bene che lui era un convinto ammiratore di Pio IX.
Il presunto ecclesiastico anonimo poi si mette anche a teorizzare il “virus” che sarebbe stato scatenato dal pontefice: “se passa l’idea dell’efficienza fisica come metro di giudizio per restare o andare via, rischiamo effetti devastanti. C’è solo da sperare che arrivi un nuovo Pontefice in grado di riprendere in mano la situazione, fissare dei confini netti, romani, impedendo una deriva”.
E’ la conferma che questo “prelato” anonimo è soprattutto preoccupato  della cadrega.
E’ evidente che non può capire uno come Joseph Ratzinger che mette l’amore di Dio e della Chiesa sopra a tutto e si fa liberamente da parte, rinunciando al pontificato per il bene della Chiesa.
Ma il ragionamento dell’anonimo fa acqua anche da un punto di vista pratico. Perché Ratzinger ha semplicemente usato una possibilità già riconosciuta dal Codice di diritto canonico, non impone niente a nessuno dei suoi successori. Tanto meno a chi non ha una perfetta efficienza fisica.
Così come la decisione di Giovanni Paolo II di restare papa anche durante la grave malattia (per testimoniare il valore della sofferenza) non è stata affatto vincolante per il successore. Entrambi hanno deciso con lo stesso cuore: l’amore per la Chiesa.
L’anonimo del “Corriere” che lancia un apocalittico allarme per il “precedente” creato dalle dimissioni, dovute alla stanchezza dell’età, sembra non sia a conoscenza di una regola stabilita da Paolo VI e, questa sì, “dagli effetti devastanti” (per usare il suo linguaggio), perché obbligatoria, non facoltativa: il limite di età.
Sia quello dei vescovi (75 anni) sia quello per i cardinali, che dopo gli 80 anni non possono più entrare in Conclave. E a prescindere dalla loro efficienza fisica (potrebbero anche essere in perfetta salute a 82 anni, ma non entrano). Questa è la regola già esistente.
Invece Benedetto XVI non stabilisce nessuna nuova regola e nessun vincolo per nessuno. Che senso ha dunque – da parte del “Corriere” – alimentare tanto allarmismo e su dichiarazioni così assurde?
Oltretutto il senso che a queste dimissioni è stato dato da “Corriere” e “Repubblica” è totalmente smentito perfino dai precedenti storici.
Tanto per fare un esempio: Pio XII.
Era il 1954. Il Pontefice era gravemente malato. La fidata assistente suor Pascalina Lehnert, nel suo libro di memorie, “Pio XII. Il privilegio di servirlo” (Rusconi), alla pagina 199, riferisce quello che accadde: “ ‘Mi dica la verità: crede veramente che potrò guarire e adempiere interamente la mia missione?’, chiese il Santo Padre al dottor Niehans. ‘Altrimenti – aggiunse, come inciso – mi ritiro senza esitazioni. Ho appunto terminato di completare il Sacro Collegio; i cardinali non si troveranno in imbarazzo nell’eleggere un nuovo papa, perché di questi tempi può essere papa solo qualcuno in grado di impegnarsi a fondo’ ”.
Sembra lo stesso identico ragionamento di Benedetto XVI. In quel caso Pio XII guarì e dunque non ebbe bisogno di dimettersi, ma – come si vede dalle sue parole – era decisissimo a farlo. E senza alcun dramma.
Anche Pacelli dunque “relativizzava” o “laicizzava” il papato, come scrivono oggi certi giornali? Al contrario, voleva proteggerlo.
Dunque niente allarmismo per il gesto del Papa. Casomai l’allarme va suonato per il fatto stesso che esistono ecclesiastici importanti in Curia che possono attaccare il papa sui giornali e sotto anonimato.
Questo sì che è un problema: la (mancata) fedeltà al Papa. E “il carrierismo”, come Benedetto XVI ha denunciato a più riprese.
Da questo punto di vista la lezione più bella e dirompente – quanto a libertà dal potere e dalle tentazioni mondane – il Pontefice l’ha data, a tutta la Chiesa, proprio con le sue dimissioni.
Come ha scritto don Julian Carron: “Con questo gesto, tanto imponente quanto imprevisto, il Papa ci testimonia una tale pienezza nel rapporto con Cristo da sorprenderci per una mossa di libertà senza precedenti… Il gesto del Papa è un richiamo potente a rinunciare a ogni sicurezza umana, confidando esclusivamente nella forza dello Spirito Santo”.
Don Carron lancia anche un’esortazione importante ai cattolici:“accogliamo anche noi con libertà e pieni di stupore questo estremo gesto di paternità, compiuto per amore dei suoi figli, affidando la sua persona alla Madonna affinché continui a esserci padre dando la vita per l’opera di un Altro, cioè per l’edificazione della Chiesa di Dio. Con tutti i fratelli, insieme a Benedetto XVI, domandiamo allo Spirito di Cristo di assistere la Chiesa nella scelta di un padre che possa guidarla in un momento storico così delicato e decisivo”.
Il monsignore anonimo (“uno degli uomini più in vista della Curia”) avrebbe fatto meglio a pregare così per il Papa e la Chiesa piuttosto che parlare – sotto anonimato – con i giornalisti per attaccare e screditare il Pontefice.