giovedì 14 febbraio 2013

Benedetto XVI: La Chiesa reale e la chiesa dei media.




All’omelia del mercoledì delle Ceneri il forte invito a ritornare a Dio per superare ipocrisie, rivalità e divisioni. C’è un concilio «virtuale», veicolato dai media e costruito secondo categorie «politiche» estranee alla fede, che in questi cinquant’anni ha provocato non pochi problemi e difficoltà alla Chiesa. E che oggi sta lasciando il posto al vero concilio «dei padri», la cui forza spirituale costituisce il motore dell’autentico rinnovamento ecclesiale.Quella che doveva essere una «piccola chiacchierata» sul Vaticano II si è trasformata in una illuminante testimonianza che i preti di Roma, riuniti nell’Aula Paolo VI la mattina di giovedì 14 febbraio, hanno ascoltato dalla voce del “perito conciliare” Joseph Ratzinger. Il quale ha colto l’occasione dell’annuale incontro quaresimale con il clero della diocesi per rievocare la sua esperienza personale durante i quattro periodi dell’assise ecumenica. Una riflessione, quella del Papa, scandita dai temi principali che furono oggetto del dibattito dei padri: liturgia, ecclesiologia, Parola di Dio, ecumenismo e dialogo con le religioni, rapporto tra Chiesa e mondo. E conclusa dall’invito a vivere l’Anno della fede — proclamato proprio nel cinquantesimo dell’apertura dei lavori — come occasione per far ritornare alla luce il «concilio reale», quello «della fede», sul quale è possibile realizzare la vera riforma della Chiesa.
Molti gli spunti e le indicazioni suggerite da Benedetto XVI, che per oltre 45 minuti ha rievocato con semplicità e senza reticenze lo spirito di un avvenimento vissuto con entusiasmo e speranza, nella ferma convinzione che da esso sarebbe scaturita una nuova era nella vita della Chiesa. Per il Papa è stata soprattutto la voglia di partecipare e di essere soggetti attivi a motivare le scelte fondamentali dei padri: a cominciare da quella compiuta il primo giorno, quando l’assemblea decise di non votare subito i membri delle commissioni sulla base delle liste già preparate, chiedendo più tempo per favorire gli incontri e la conoscenza tra i diversi gruppi nazionali presenti. Un segno evidente, secondo il Pontefice, della dimensione universale della Chiesa, chiamata a vivere e crescere al di là di ogni differenza di lingua, razza e cultura.
In questo stesso spirito Benedetto XVI ha letto gli esiti del rinnovamento liturgico del Vaticano II, fondato sulla duplice esigenza dell’«intellegibilità» del linguaggio — che tuttavia non significa «banalità», ha avvertito — e della partecipazione attiva dei fedeli. Così come ha richiamato l’ecclesiologia conciliare racchiusa nell’espressione «Noi siamo Chiesa», ossia corpo vivo di Cristo e non mera organizzazione o struttura giuridica. Aggiungendo che la categoria della «collegialità» ha evidenziato il ruolo dei vescovi come successori degli apostoli ed elementi portanti nella «complementarietà» dei fattori che costituiscono il corpo della Chiesa.
Non meno significative le sottolineature del Papa sul tema del rapporto tra sacra scrittura e tradizione — la Chiesa obbedisce alla Parola di Dio ma ne rappresenta, allo stesso tempo, il soggetto vivo — e sul dialogo con le altre religioni. A proposito del quale il Pontefice non ha mancato di rievocare la vivacità del dibattito dal quale presero vita la Nostra aetate e la Dignitatis humanae, che insieme alla Gaudium et spes costituiscono una sorta di «trilogia» la cui importanza si va sempre più rivelando e confermando col passare degli anni.
Non è mancato da parte di Benedetto XVI un accenno alla decisione di rinunciare al papato annunciata lunedì scorso. Ringraziando i sacerdoti per la corale manifestazione di affetto, il Papa ha assicurato che anche nel ritiro della preghiera, nascosto al mondo, sarà sempre vicino alla sua diocesi e alla Chiesa.
Parole che hanno richiamato quelle con cui il Pontefice ha aperto l’omelia della messa del mercoledì delle Ceneri celebrata nella serata del 13 febbraio. «È un’occasione propizia per ringraziare tutti, mentre mi accingo a concludere il ministero petrino, e per chiedere un particolare ricordo nella preghiera» ha detto ai fedeli che hanno gremito la basilica Vaticana per tributargli una commossa manifestazione di affetto. Una celebrazione, l’ultima presieduta pubblicamente da Benedetto XVI, durante la quale è risuonato il forte invito a «ritornare a Dio» attraverso un cammino interiore che agisca «sul proprio cuore, sulla propria coscienza e sulle proprie intenzioni, lasciando che il Signore trasformi, rinnovi e converta». Dal Papa è venuto, in particolare, un severo monito contro l’«ipocrisia religiosa», gli «individualismi», le «rivalità» e le «divisioni» che deturpano il volto della Chiesa.
L'Osservatore Romano.

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Presentata come una «piccola chiacchierata» con i parroci di Roma, la lezione sul Vaticano II che Benedetto XVI ha proposto questa mattina 14 febbraio - parlando a braccio (e qui abbiamo voluto conservare il sapore della trascrizione dal parlato), con visibile fatica fisica ma con straordinaria lucidità mentale - rimarrà invece tra i testi fondamentali della sua eredità teologica e pastorale.
Riprende, oltre sette anni dopo, il primo grande discorso, quello del 22 dicembre 2005 alla Curia Romana dove condannava quell'«ermeneutica della discontinuità e della rottura» che, per esaltarlo o per criticarlo, legge il Concilio come frattura radicale con il Magistero precedente, e proponeva invece una «ermeneutica della riforma nella continuità». Si tratta di una cifra fondamentale del pontificato di Benedetto XVI e di un'eredità che, congedandosi dal clero di Roma, ha voluto consegnare con forza al suo successore.
Tutti gli altri grandi temi di Papa Ratzinger - la rivendicazione della verità naturale e la denuncia della dittatura del relativismo, la fondazione filosofica e teologica della libertà religiosa come premessa alla sua strenua difesa ovunque, il rilancio della dottrina sociale intorno ai principi non negoziabili - stanno o cadono con la sua interpretazione del Concilio.
Certo, molta acqua è passata sotto i ponti di Roma dal 2005, e molti non hanno accolto l'indicazione ermeneutica del Papa, ritenendo che sia impossibile interpretare il Vaticano II in continuità con il Magistero precedente, perché - sostengono - la corrente teologica che vi si manifestò come dominante aveva in effetti propositi di rottura.
In uno dei suoi ultimi discorsi Benedetto XVI ieri ha battuto in breccia questa storiografia - progressista o ultra-conservatrice -, prendendola per così dire di petto e affermando, con la sua autorità sia di padre conciliare sia di Pontefice, che sì, una volontà d'innovazione anche radicale vi fu, ma furono soltanto i media a interpretare questo desiderio di riforma come ostile alla continuità, creando un nefasto «Concilio virtuale». È stato questo Concilio come evento mediatico, non il Concilio come insieme di documenti e neppure come evento storico reale, a determinare la gravissima crisi post-conciliare.
Al Vaticano II, ha esordito il Papa, io c'ero. Ne parlo, sembra dire, con cognizione di causa. E c'ero anche negli anni, spesso capiti male, che prepararono il Concilio. «Io - ha raccontato Benedetto XVI - ero stato nominato nel ’59 professore all’Università di Bonn, dove studiano gli studenti, i seminaristi della diocesi di Colonia e di altre diocesi circostanti. Così, sono venuto in contatto con il cardinale di Colonia, il cardinale [Josef] Frings [1887-1978]. Il cardinale [Giuseppe] Siri [1906-1989] di Genova, – mi sembra nel ’61 - aveva organizzato una serie di conferenze, con diversi cardinali europei, sul Concilio e aveva invitato anche l’arcivescovo di Colonia a tenere una delle conferenze, dal titolo: “Il Concilio e il mondo del pensiero moderno”.
Il cardinale mi ha invitato - il più giovane dei professori - a scrivergli un progetto; il progetto gli è piaciuto e ha proposto alla gente, a Genova, questo testo, come io l’avevo scritto». La conferenza scritta dal giovane professor Ratzinger per il cardinale Frings accennava a una serie di riforme necessarie e a un cambiamento di mentalità nei rapporti con il mondo contemporaneo. Il cardinale tedesco la lesse, ma subito cominciò a preoccuparsi che avesse causato dispiacere in Vaticano.
«Poco dopo - ha proseguito Benedetto XVI - Papa Giovanni [XXIII, 1881-1963] lo invita a venire e lui era pieno di timore di avere detto forse qualcosa di non corretto, di falso e sarebbe stato interpellato per un rimprovero, forse anche per togliergli la porpora... Sì … quando il suo segretario lo ha vestito per l’ udienza, ha detto: "Forse adesso porto per l’ultima volta questa roba"....Poi, è entrato. Papa Giovanni gli va incontro, lo abbraccia e dice: "Grazie, eminenza, lei ha detto che cose che io volevo dire, ma non avevo trovato le parole"'».
L'aneddoto ha fatto sorridere i parroci romani, ma per il Pontefice è importante. Serve a spiegare dove si collocava lui in relazione al Concilio. «Così, il cardinale sapeva di essere sulla strada giusta, e mi ha invitato ad andare con lui al Concilio, prima come suo esperto personale, poi – nel corso del primo periodo, forse nel novembre ’62 – sono stato nominato anche perito ufficiale del Concilio». E i periti del Nord Europa, tra cui il giovane Ratzinger, volevano davvero una svolta decisiva: «Allora, noi siamo andati al Concilio non solo con gioia, ma con entusiasmo. Era un’aspettativa incredibile. Speravamo che tutto si rinnovasse, veramente che venisse una nuova Pentecoste, una nuova era della Chiesa, perché la Chiesa era ancora abbastanza robusta, in quel tempo: la prassi domenicale ancora buona, anche le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa erano già un po’ ridotte, ma ancora sufficienti».
Eppure il Papa nega con forza la tesi secondo cui prima del Vaticano II tutto andava bene: «tuttavia, si sentiva che la Chiesa non andava avanti, ma si riduceva, che sembrava piuttosto una realtà del passato e non la portatrice del futuro. E adesso, speravamo che questo rapporto si rinnovasse, si cambiasse». Quello che questi teologi, tra cui Ratzinger, auspicavano era in effetti un nuovo rapporto con la modernità, che superasse le controversie emerse fin dal caso di Galileo Galilei (1564-1642).
E i teologi del Nord Europa avevano un modello da criticare, quello del Sinodo romano, che avrebbe dovuto essere - ma non fu - la prova generale del Concilio e «dove si dice che avrebbero letto testi già preparati, e i membri del Sinodo avrebbero semplicemente approvato e così si sarebbe svolto il Sinodo».
Al Vaticano II, «i vescovi hanno concordato di non fare così in quanto loro stessi sono i soggetti del Concilio». E cominciarono «subito, il primo giorno» a rifiutare le liste e i nominativi delle commissioni preparati dalla Curia perché non volevano «semplicemente votare liste già fatte». «Non era un atto rivoluzionario ma un atto di coscienza, di responsabilità da parte dei Padri conciliari». È anche vero, ha detto Benedetto XVI, che le sedute del Concilio furono spesso preparate da «piccoli incontri trasversali» in cui egli stesso ebbe modo d'interagire con teologi decisivi per la redazione dei documenti, tra cui i padri e futuri cardinali Henri-Marie de Lubac S.J. (1896-1991), Jean Daniélou S. J. (1905-1974) e Yves Congar O.P. (1904-1995). E quelli che erano venuti a Roma con le «intenzioni più definite erano l’episcopato francese, tedesco, belga, olandese, la così detta “Alleanza renana”. E nella prima parte del Concilio erano loro che indicavano la strada».
Gli storici che parlano dell'Alleanza renana e degli «incontri trasversali» hanno dunque ragione sul fatto. Ma, ha aggiunto Benedetto XVI, hanno completamente torto nell'interpretazione, se pensano - celebrandoli o deprecandoli - che quegli incontri avessero lo scopo di sovvertire la Chiesa. No: erano piuttosto «un’ esperienza della universalità della Chiesa e della realtà concreta della Chiesa, che non semplicemente riceve imperativi dall’alto, ma insieme cresce e va avanti, sempre sotto la guida – naturalmente – del Successore di Pietro».
Che cosa volevano i padri «renani», che finirono per indirizzare la prima parte del Concilio? La loro «prima intenzione», testimonia il Pontefice, «era la riforma della liturgia, che era già cominciata con Pio XII [1876-1958]» e con le sue innovazioni sulla Settimana Santa. La liturgia, dunque, non era affatto un elemento secondario del programma di rinnovamento conciliare. Dopo la Seconda guerra mondiale era infatti emerso nella Chiesa il cosiddetto movimento liturgico, come «riscoperta della ricchezza e profondità della liturgia». Questa poteva sembrare «quasi chiusa» nel Messale Romano del sacerdote, e «aperta» invece nei libri di preghiera dei fedeli, con il rischio di creare «quasi due liturgie parallele: il sacerdote con i chierichetti, che celebrava la Messa secondo il Messale, e i laici che pregavano nella Messa con i loro libri di preghiera».
Non che fosse colpa del Messale Romano: il Concilio voleva difendere «proprio la bellezza, la profondità, la ricchezza storica, umana, spirituale del Messale», nello stesso tempo però riformando e instaurando un vero «dialogo tra sacerdote e popolo» con la sua nozione di «partecipazione attiva». Qualcuno - ha detto il Papa - «ha criticato il Concilio perché parlava di tante cose, ma non di Dio»: invece, scegliendo di partire dalla liturgia, «ha parlato di Dio e il suo primo atto è stato quello di parlare di Dio e di aprire a tutto il popolo santo la possibilità dell’adorazione di Dio, nella comune celebrazione della liturgia del Corpo e Sangue di Cristo».
Anche il passaggio dal latino al volgare, che avvenne non al Vaticano II ma dopo il Concilio, voleva promuovere l'intelligibilità della Messa. Ma «intelligibilità non significa "banalità", perché i grandi testi della liturgia – anche nelle lingue parlate - non sono facilmente intellegibili», «hanno bisogno di una formazione permanente del cristiano, perché cresca ed entri sempre più nella profondità del mistero e così possa comprendere».
Non c'è garanzia che un testo sia capito «solo perché è nella propria lingua». «Solo una formazione permanente del cuore e della mente può realmente creare intelligibilità», e la vera partecipazione attiva «è più di una attività esteriore, è un entrare della persona, del mio essere nella comunione della Chiesa e così nella comunione con Cristo».
Il Concilio mediatico - da non confondere con il Concilio reale - ha presentato erroneamente tutto questo come un abbandono della sacralità. «La sacralità, dicevano, è pagana, Cristo è morto fuori dalle porte del Sacro, va esaltata la profanità del culto come partecipazione comune. Concetti nati in una visione del Concilio fuori dalla sua propria chiave della Fede», e neppure veramente biblici perché basati su una errata concezione della Sacra Scrittura come se fosse «un Libro storico da trattare storicamente e nient'altro».
Il Vaticano II ha dunque consacrato il suo primo documento alla liturgia, e si è poi concentrato su due idee essenziali: il mistero pasquale e la Chiesa. Il mistero della Redenzione «è espresso nel tempo pasquale e nella domenica che è sempre il giorno della Risurrezione», qualche cosa che oggi stiamo completamente perdendo, interpretando la domenica come l'ultimo giorno della settimana mentre è invece il primo.
Quanto alla Chiesa, il Pontefice ha ricordato che il Concilio Vaticano I si era interrotto a causa della guerra franco-tedesca e così aveva sottolineato solo la dottrina sul primato del Papa e dell'infallibilità. Benedetto XVI non condivide le critiche a questa dottrina, che è stata definita «grazie a Dio in quel momento storico» e «per la Chiesa era molto necessaria per il tempo seguente». Ma, se il Vaticano I non fosse stato interrotto, dopo il primato e l'infallibilità si sarebbe passati a parlare del Corpo mistico di Cristo: già allora «si voleva dire e capire che la Chiesa non è un’organizzazione, qualcosa di strutturale, giuridico, istituzionale, anche questo, ma è un organismo, una realtà vitale, che entra nella mia anima, così che io stesso, proprio con la mia anima credente, sono elemento costruttivo della Chiesa come tale».
In questo senso, il venerabile Pio XII scrisse poi l’enciclica «Mystici Corporis», «come un passo verso un completamento della ecclesiologia del Vaticano I». Ma successivamente, già negli anni 1950, «era già nata un po’ di critica nel concetto di Corpo di Cristo: mistico - qualcuno diceva - sarebbe troppo esclusivo», e dunque la nozione della Chiesa come Corpo mistico non andava abbandonata, ma integrata con quella della Chiesa come popolo di Dio, un concetto a sua volta non nuovo e che «nei Padri è considerato come espressione della continuità tra Antico e Nuovo Testamento. Noi pagani, non siamo di per sé il popolo di Dio, ma diventiamo adesso figli di Abramo e quindi popolo di Dio, entrando in comunione con il Cristo che è l’unico seme di Abramo. Ed entrando in comunione con Lui, essendo uno con Lui, siamo anche noi popolo di Dio», uniti nella comunione eucaristica.
Applicando queste categorie nella pratica, il Concilio cercava di definire meglio il ruolo dei vescovi. «E per fare questo - ha detto il Papa - è stata trovata la parola "collegialità", molto discussa con discussioni accanite, direi, un po’ esagerate anche».
Secondo Benedetto XVI era però tutto sommato la parola giusta «per esprimere che i vescovi, insieme, sono la continuazione dei Dodici, del corpo degli Apostoli», anche se solo il Papa è successore di Pietro. Pure sulla questione della collegialità vi è stato un vivo dibattito al Concilio. Ma anche questo acceso dibattito non è bene inteso da alcuni storici. «Appariva a molti come una lotta per il potere, e forse qualcuno ha pensato al potere, ma sostanzialmente non si trattava di potere, ma della complementarietà dei fattori e della completezza del corpo della Chiesa con i vescovi, successori degli apostoli come elementi portanti», mai però separati dal Papa.
Altri temi forti del Concilio furono quelli della libertà religiosa e del dialogo con i non cristiani. Inizialmente al Concilio «i nostri amici ebrei dicevano che, dopo gli avvenimenti tristi del nazismo, la Chiesa doveva dire una parola sull'Antico Testamento e sul popolo ebraico, anche se era chiaro che la Chiesa non era responsabile della Shoah». Ben presto, però, «sì capì anche che i vescovi dei Paesi arabi non erano felici e temevano una glorificazione dello Stato di Israele, che naturalmente non volevano. Dissero che andava bene una indicazione teologica sul popolo ebraico, era necessaria, ma allora bisognava parlare anche sull'islam». Altri rilevarono che, se si parlava dell'islam, occorreva occuparsi anche del buddhismo e dell'induismo, «e così la dichiarazione iniziale sul Popolo di Dio e l'Antico Testamento divenne una dichiarazione sul dialogo interreligioso».
Sull'islam, come su altri temi, il Concilio non andò forse sufficientemente a fondo: ma fu, secondo il Papa benemerito e preveggente, come lo fu in altri documenti. Perché, allora, dopo il Concilio c'è stata una crisi nella Chiesa con «miserie, seminari e conventi chiusi»? La colpa - ha affermato il Pontefice criticando ricostruzioni storiografiche diverse, sia progressiste sia ultra- conservatrici -, non solo non fu dei testi ma neppure dell'evento Concilio come realmente si svolse nella storia. La crisi venne dall'evento parallelo creato dai media, che in realtà non coincideva con quanto davvero era accaduto a Roma.
«Il mondo ha percepito il Concilio dei media - ha detto il Pontefice -, non quello dei padri, quello della fede». «Il Concilio dei giornalisti ha un'ermeneutica diversa, politica: il concilio era lotta di potere fra fazioni della Chiesa. Fra chi cercava la decentralizzazione della chiesa, un ruolo per i laici e la sovranità popolare e chi insisteva per culto e partecipazione. La banalizzazione del Concilio è stata violenta, ha prevalso una visione nata fuori della fede» che è stata una vera e propria «calamità».
Accanto al «Concilio reale», che lo Spirito Santo guidò - sì, anche attraverso le controversie e gli incontri privati - a produrre documenti che sono ancora oggi una bussola sicura per la Chiesa, emerse nei media un «Concilio virtuale», presentato come rottura con tutto quanto era avvenuto prima. Purtroppo nei decenni successivi al Vaticano II «il Concilio virtuale è stato più forte del Concilio reale»: ha scardinato tanti aspetti della vita della Chiesa, determinando fraintendimenti gravissimi.
E tuttavia Benedetto XVI lascia un'eredità precisa, che non è pessimista. Rifiutata da molti intellettuali progressisti e ultra-conservatori, l'ermeneutica della riforma nella continuità si sta affermando tra tanti sacerdoti e fedeli. Così, «50 anni dopo il Concilio vero appare nella sua forza». «Il nostro compito nell'anno della Fede è che il vero Concilio Vaticano II si realizzi». Un compito che Papa Ratzinger affida a tutta la Chiesa, ma che sarà indirizzato e guidato dal suo successore. «Mi ritiro adesso in preghiera – ha detto infatti ai parroci romani –, sono sempre vicino a voi e sono sicuro che anche voi sarete vicino a me, anche se per il mondo rimango nascosto». (M. Introvigne)

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 Ai preti della sua diocesi, che ha incontrato per l'ultima volta prima del distacco, Benedetto XVI ha voluto consegnare "una piccola chiacchierata sul Concilio Vaticano II, come io l’ho visto".

In realtà la "piccola chiacchierata" si è prolungata per quasi 40 minuti, con l'uditorio sempre attentissimo.

Joseph Ratzinger ha parlato a braccio, senza mai gettare lo sguardo su degli appunti.

Ha proceduto per grandi capitoli, ciascuno dedicato alle maggiori questioni affrontate l'una dopo l'altra dal Concilio: la liturgia, la Chiesa, la rivelazione, l’ecumenismo, la libertà religiosa, il rapporto con l'ebraismo e le altre religioni.

Per ciascuno di questi temi ha detto la posta in gioco e ha raccontato come i padri conciliari vi si sono confrontati. Con passaggi di grande interesse sul concetto di Popolo di Dio e sul rapporto tra Scrittura e Tradizione.

Ma a tutto ha aggiunto una premessa e un finale che hanno particolarmente impressionato i presenti.


LA PREMESSA


Benedetto XVI ha cominciato con un aneddoto, raccontando di quando il cardinale Frings aveva invitato lui, giovane teologo, a scrivergli la traccia di una conferenza che avrebbe dovuto pronunciare a Genova, su richiesta del cardinale Siri, sul tema “Il Concilio e il pensiero moderno”.

La traccia piacque al cardinale, che la lesse tale quale il giovane Ratzinger gliel'aveva scritta. Ma il bello venne dopo:

"Poco dopo papa Giovanni chiamò Frings, e lui era pieno di timore di aver detto forse qualcosa di non corretto, di falso, e che era stato interpellato per un rimprovero, forse anche per togliergli la porpora… Sì, quando il suo segretario lo stava vestendo per l’udienza dal papa disse: 'Forse adesso porto per l’ultima volta questa roba'. Poi entrò. Papa Giovanni gli andò incontro, lo abbracciò e disse: 'Grazie, eminenza, lei ha detto le cose che io volevo dire, ma non avevo trovato le parole'. Così, il cardinale seppe di essere sulla strada giusta, e mi invitò ad andare con lui al Concilio, prima come suo esperto personale, e poi anche come perito ufficiale".

Benedetto XVI ha quindi così proseguito:

"Andammo al Concilio non solo con gioia, ma con entusiasmo. Era un’aspettativa incredibile. Speravamo che tutto si rinnovasse, che venisse una nuova Pentecoste, una nuova era della Chiesa, perché la Chiesa era ancora abbastanza robusta, in quel tempo, ma sembrava più una realtà del passato che del futuro. E allora speravamo che ciò cambiasse, che la Chiesa fosse di nuovo forza del domani e forza dell’oggi".

Il modello negativo – ha ricordato il papa – era considerato il Sinodo romano, "dove si  si dice che avrebbero letto in aula dei testi già preparati, che i membri del Sinodo avrebbero semplicemente approvato". Nel Concilio i vescovi non vollero fare così, in quanto loro stessi ne erano i soggetti, e "il primo momento nel quale questo atteggiamento si mostrò, fu subito il primo giorno".

Erano state previste, per questo primo giorno, le elezioni delle commissioni, su liste compilate in precedenza. I padri rifiutarono, vollero prima conoscersi un po’, e poi preparare loro stessi delle nuove liste. Così accadde. E questo "non fu un atto rivoluzionario, ma un atto di coscienza, di responsabilità da parte dei padri conciliari".

Così – ha ricordato il papa – cominciò una forte attività di conoscenza reciproca. E questo diventò usuale per tutto il periodo del Concilio. "In questo modo ha potuto conoscere grandi figure come i padri de Lubac, Daniélou, Congar. Era un’esperienza dell'universalità della Chiesa, che non riceve semplicemente imperativi dall’alto ma insieme cresce e va avanti, sempre sotto la guida, naturalmente, del successore di Pietro".

Tra i vescovi di tutto il mondo, quelli che avevano intenzioni più definite in partenza erano gli episcopati francese, tedesco, belga, olandese, la così detta “Alleanza renana”. Nella prima parte del Concilio "furono così loro che indicavano la strada, ma poi si è velocemente allargata l’attività e tutti sempre di più hanno partecipato alla creatività dell'assise".


IL FINALE


Nel finale della conversazione, Benedetto XVI ha invece sottoposto a critica il rapporto che si è instaurato tra il "vero Concilio" e il "Concilio dei media", tra il Concilio reale e quello virtuale.

Qui è bene affidarsi alla trascrizione letterale e integrale delle sue parole:

"Vorrei adesso aggiungere ancora un punto: c’era il Concilio dei Padri – il vero Concilio –, ma c’era anche il Concilio dei media. Era quasi un Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio tramite questi, tramite i media.

"Quindi il Concilio immediatamente efficiente arrivato al popolo è stato quello dei media, non quello dei Padri. E mentre il Concilio dei Padri si realizzava all’interno della fede, ed era un Concilio della fede che cerca l’'intellectus', che cerca di comprendersi e cerca di comprendere i segni di Dio in quel momento, che cerca di rispondere alla sfida di Dio in quel momento e di trovare nella Parola di Dio la parola per oggi e domani, mentre tutto il Concilio – come ho detto – si muoveva all’interno della fede, come 'fides quaerens intellectum', il Concilio dei giornalisti non si è realizzato, naturalmente, all’interno della fede, ma all’interno delle categorie dei media di oggi, cioè fuori dalla fede, con un’ermeneutica diversa.

"Era un’ermeneutica politica. Per i media, il Concilio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa. Era ovvio che i media prendessero posizione per quella parte che a loro appariva quella più confacente con il loro mondo. C’erano quelli che cercavano la decentralizzazione della Chiesa, il potere per i vescovi e poi, tramite la parola "popolo di Dio", il potere del popolo, dei laici. C’era questa triplice questione: il potere del papa, poi trasferito al potere dei vescovi e al potere di tutti, sovranità popolare. Naturalmente, per loro era questa la parte da approvare, da promulgare, da favorire.

"E così anche per la liturgia: non interessava la liturgia come atto della fede, ma come una cosa dove si fanno cose comprensibili, una cosa di attività della comunità, una cosa profana. E sappiamo che c’era una tendenza, che si fondava anche storicamente, a dire: la sacralità è una cosa pagana, eventualmente anche dell’Antico Testamento, ma nel Nuovo vale solo che Cristo è morto fuori: cioè fuori dalle porte, cioè nel mondo profano. Sacralità quindi da terminare, profanità anche del culto: il culto non è culto, ma un atto dell’insieme, della partecipazione comune, e così anche partecipazione come attività.

"Queste traduzioni, banalizzazioni dell’idea del Concilio, sono state virulente nella prassi dell’applicazione della riforma liturgica; esse erano nate in una visione del Concilio al di fuori della sua propria chiave, della fede. E così, anche nella questione della Scrittura: la Scrittura è un libro, storico, da trattare storicamente e nient’altro, e così via.

"Sappiamo come questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata… E il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale.

"Ma la forza reale del Concilio era presente e, man mano, si realizza sempre più e diventa la vera forza che poi è anche vera riforma, vero rinnovamento della Chiesa. Mi sembra che, cinquant'anni dopo il Concilio, vediamo come questo Concilio virtuale si rompa, si perda, e appare il vero Concilio con tutta la sua forza spirituale. Ed è nostro compito, proprio in questo Anno della fede, cominciando da questo Anno della fede, lavorare perché il vero Concilio, con la sua forza dello Spirito Santo, si realizzi e sia realmente rinnovata la Chiesa. Speriamo che il Signore ci aiuti. Io, ritirato con la mia preghiera, sarò sempre con voi, e insieme andiamo avanti con il Signore. Nella certezza: vince il Signore!". (S. Magister)

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Di seguito il testo integrale del discorso del Papa.

Eminenza,
cari fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio!
E’ per me un dono particolare della Provvidenza che, prima di lasciare il ministero petrino, possa ancora vedere il mio clero, il clero di Roma. E’ sempre una grande gioia vedere come la Chiesa vive, come a Roma la Chiesa è vivente; ci sono Pastori che, nello spirito del Pastore supremo, guidano il gregge del Signore. E’ un clero realmente cattolico, universale, e questo risponde all’essenza della Chiesa di Roma: portare in sé l’universalità, la cattolicità di tutte le genti, di tutte le razze, di tutte le culture. Nello stesso tempo, sono molto grato al Cardinale Vicario che aiuta a risvegliare, a ritrovare le vocazioni nella stessa Roma, perché se Roma, da una parte, dev’essere la città dell’universalità, dev’essere anche una città con una propria forte e robusta fede, dalla quale nascono anche vocazioni. E sono convinto che, con l’aiuto del Signore, possiamo trovare le vocazioni che Egli stesso ci dà, guidarle, aiutarle a maturare, e così servire per il lavoro nella vigna del Signore.Oggi avete confessato davanti alla tomba di san Pietro il Credo: nell’Anno della fede, mi sembra un atto molto opportuno, necessario forse, che il clero di Roma si riunisca sulla tomba dell’Apostolo al quale il Signore ha detto: “A te affido la mia Chiesa. Sopra di te costruisco la mia Chiesa” (cfr Mt 16,18-19). Davanti al Signore, insieme con Pietro, avete confessato: “Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivo” (cfr Mt 16,15-16). Così cresce la Chiesa: insieme con Pietro, confessare Cristo, seguire Cristo. E facciamo questo sempre. Io sono molto grato per la vostra preghiera, che ho sentito – l’ho detto mercoledì – quasi fisicamente. Anche se adesso mi ritiro, nella preghiera sono sempre vicino a tutti voi e sono sicuro che anche voi sarete vicini a me, anche se per il mondo rimango nascosto.
Per oggi, secondo le condizioni della mia età, non ho potuto preparare un grande, vero discorso, come ci si potrebbe aspettare; ma piuttosto penso ad una piccola chiacchierata sul Concilio Vaticano II, come io l’ho visto. Comincio con un aneddoto: io ero stato nominato nel ’59 professore all’Università di Bonn, dove studiano gli studenti, i seminaristi della diocesi di Colonia e di altre diocesi circostanti. Così, sono venuto in contatto con il Cardinale di Colonia, il Cardinale Frings. Il Cardinale Siri, di Genova – mi sembra nel ’61 - aveva organizzato una serie di conferenze di diversi Cardinali europei sul Concilio, e aveva invitato anche l’Arcivescovo di Colonia a tenere una delle conferenze, con il titolo: Il Concilio e il mondo del pensiero moderno.
Il Cardinale mi ha invitato – il più giovane dei professori – a scrivergli un progetto; il progetto gli è piaciuto e ha proposto alla gente, a Genova, il testo come io l’avevo scritto. Poco dopo, Papa Giovanni lo invita ad andare da lui e il Cardinale era pieno di timore di avere forse detto qualcosa di non corretto, di falso, e di venire citato per un rimprovero, forse anche per togliergli la porpora. Sì, quando il suo segretario lo ha vestito per l’udienza, il Cardinale ha detto: “Forse adesso porto per l’ultima volta questo abito”. Poi è entrato, Papa Giovanni gli va incontro, lo abbraccia, e dice: “Grazie, Eminenza, lei ha detto le cose che io volevo dire, ma non avevo trovato le parole”. Così, il Cardinale sapeva di essere sulla strada giusta e mi ha invitato ad andare con lui al Concilio, prima come suo esperto personale; poi, nel corso del primo periodo - mi pare nel novembre ’62 – sono stato nominato anche perito ufficiale del Concilio.
Allora, noi siamo andati al Concilio non solo con gioia, ma con entusiasmo. C’era un’aspettativa incredibile. Speravamo che tutto si rinnovasse, che venisse veramente una nuova Pentecoste, una nuova era della Chiesa, perché la Chiesa era ancora abbastanza robusta in quel tempo, la prassi domenicale ancora buona, le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa erano già un po’ ridotte, ma ancora sufficienti. Tuttavia, si sentiva che la Chiesa non andava avanti, si riduceva, che sembrava piuttosto una realtà del passato e non la portatrice del futuro. E in quel momento, speravamo che questa relazione si rinnovasse, cambiasse; che la Chiesa fosse di nuovo forza del domani e forza dell’oggi. E sapevamo che la relazione tra la Chiesa e il periodo moderno, fin dall’inizio, era un po’ contrastante, cominciando con l’errore della Chiesa nel caso di Galileo Galilei; si pensava di correggere questo inizio sbagliato e di trovare di nuovo l’unione tra la Chiesa e le forze migliori del mondo, per aprire il futuro dell’umanità, per aprire il vero progresso. Così, eravamo pieni di speranza, di entusiasmo, e anche di volontà di fare la nostra parte per questa cosa. Mi ricordo che un modello negativo era considerato il Sinodo Romano. Si disse - non so se sia vero – che avessero letto i testi preparati, nella Basilica di San Giovanni, e che i membri del Sinodo avessero acclamato, approvato applaudendo, e così si sarebbe svolto il Sinodo. I Vescovi dissero: No, non facciamo così. Noi siamo Vescovi, siamo noi stessi soggetto del Sinodo; non vogliamo soltanto approvare quanto è stato fatto, ma vogliamo essere noi il soggetto, i portatori del Concilio. Così anche il Cardinale Frings, che era famoso per la fedeltà assoluta, quasi scrupolosa, al Santo Padre, in questo caso disse: Qui siamo in altra funzione. Il Papa ci ha convocati per essere come Padri, per essere Concilio ecumenico, un soggetto che rinnovi la Chiesa. Così vogliamo assumere questo nostro ruolo.
Il primo momento, nel quale questo atteggiamento si è mostrato, è stato subito il primo giorno. Erano state previste, per questo primo giorno, le elezioni delle Commissioni ed erano state preparate, in modo – si cercava – imparziale, le liste, i nominativi; e queste liste erano da votare. Ma subito i Padri dissero: No, non vogliamo semplicemente votare liste già fatte. Siamo noi il soggetto. Allora, si sono dovute spostare le elezioni, perché i Padri stessi volevano conoscersi un po’, volevano loro stessi preparare delle liste. E così è stato fatto. I Cardinali Liénart di Lille, il Cardinale Frings di Colonia avevano pubblicamente detto: Così no. Noi vogliamo fare le nostre liste ed eleggere i nostri candidati. Non era un atto rivoluzionario, ma un atto di coscienza, di responsabilità da parte dei Padri conciliari.
Così cominciava una forte attività per conoscersi, orizzontalmente, gli uni gli altri, cosa che non era a caso. Al “Collegio dell’Anima”, dove abitavo, abbiamo avuto molte visite: il Cardinale era molto conosciuto, abbiamo visto Cardinali di tutto il mondo. Mi ricordo bene la figura alta e snella di mons. Etchegaray, che era Segretario della Conferenza Episcopale Francese, degli incontri con Cardinali, eccetera. E questo era tipico, poi, per tutto il Concilio: piccoli incontri trasversali. Così ho conosciuto grandi figure come Padre de Lubac, Daniélou, Congar, eccetera. Abbiamo conosciuto vari Vescovi; mi ricordo particolarmente del Vescovo Elchinger di Strasburgo, eccetera. E questa era già un’esperienza dell’universalità della Chiesa e della realtà concreta della Chiesa, che non riceve semplicemente imperativi dall’alto, ma insieme cresce e va avanti, sempre sotto la guida – naturalmente – del Successore di Pietro.
Tutti, come ho detto, venivano con grandi aspettative; non era mai stato realizzato un Concilio di queste dimensioni, ma non tutti sapevano come fare. I più preparati, diciamo quelli con intenzioni più definite, erano l’episcopato francese, tedesco, belga, olandese, la cosiddetta “alleanza renana”. E, nella prima parte del Concilio, erano loro che indicavano la strada; poi si è velocemente allargata l’attività e tutti sempre più hanno partecipato nella creatività del Concilio. I francesi ed i tedeschi avevano diversi interessi in comune, anche con sfumature abbastanza diverse. La prima, iniziale, semplice - apparentemente semplice – intenzione era la riforma della liturgia, che era già cominciata con Pio XII, il quale aveva già riformato la Settimana Santa; la seconda, l’ecclesiologia; la terza, la Parola di Dio, la Rivelazione; e, infine, anche l’ecumenismo. I francesi, molto più che i tedeschi, avevano ancora il problema di trattare la situazione delle relazioni tra la Chiesa e il mondo.
Cominciamo con il primo. Dopo la Prima Guerra Mondiale, era cresciuto, proprio nell’Europa centrale e occidentale, il movimento liturgico, una riscoperta della ricchezza e profondità della liturgia, che era finora quasi chiusa nel Messale Romano del sacerdote, mentre la gente pregava con propri libri di preghiera, i quali erano fatti secondo il cuore della gente, così che si cercava di tradurre i contenuti alti, il linguaggio alto, della liturgia classica in parole più emozionali, più vicine al cuore del popolo. Ma erano quasi due liturgie parallele: il sacerdote con i chierichetti, che celebrava la Messa secondo il Messale, ed i laici, che pregavano, nella Messa, con i loro libri di preghiera, insieme, sapendo sostanzialmente che cosa si realizzava sull’altare. Ma ora era stata riscoperta proprio la bellezza, la profondità, la ricchezza storica, umana, spirituale del Messale e la necessità che non solo un rappresentante del popolo, un piccolo chierichetto, dicesse “Et cum spiritu tuo” eccetera, ma che fosse realmente un dialogo tra sacerdote e popolo, che realmente la liturgia dell’altare e la liturgia del popolo fosse un’unica liturgia, una partecipazione attiva, che le ricchezze arrivassero al popolo; e così si è riscoperta, rinnovata la liturgia.
Io trovo adesso, retrospettivamente, che è stato molto buono cominciare con la liturgia, così appare il primato di Dio, il primato dell’adorazione. “Operi Dei nihil praeponatur”: questa parola della Regola di san Benedetto (cfr 43,3) appare così come la suprema regola del Concilio. Qualcuno aveva criticato che il Concilio ha parlato su tante cose, ma non su Dio. Ha parlato su Dio! Ed è stato il primo atto e quello sostanziale parlare su Dio e aprire tutta la gente, tutto il popolo santo, all’adorazione di Dio, nella comune celebrazione della liturgia del Corpo e Sangue di Cristo. In questo senso, al di là dei fattori pratici che sconsigliavano di cominciare subito con temi controversi, è stato, diciamo, realmente un atto di Provvidenza che agli inizi del Concilio stia la liturgia, stia Dio, stia l’adorazione. Adesso non vorrei entrare nei dettagli della discussione, ma vale la pena sempre tornare, oltre le attuazioni pratiche, al Concilio stesso, alla sua profondità e alle sue idee essenziali.
Ve n’erano, direi, diverse: soprattutto il Mistero pasquale come centro dell’essere cristiano, e quindi della vita cristiana, dell’anno, del tempo cristiano, espresso nel tempo pasquale e nella domenica che è sempre il giorno della Risurrezione. Sempre di nuovo cominciamo il nostro tempo con la Risurrezione, con l’incontro con il Risorto, e dall’incontro con il Risorto andiamo al mondo. In questo senso, è un peccato che oggi si sia trasformata la domenica in fine settimana, mentre è la prima giornata, è l’inizio; interiormente dobbiamo tenere presente questo: che è l’inizio, l’inizio della Creazione, è l’inizio della ricreazione nella Chiesa, incontro con il Creatore e con Cristo Risorto. Anche questo duplice contenuto della domenica è importante: è il primo giorno, cioè festa della Creazione, noi stiamo sul fondamento della Creazione, crediamo nel Dio Creatore; e incontro con il Risorto, che rinnova la Creazione; il suo vero scopo è creare un mondo che è risposta all’amore di Dio.
Poi c’erano dei principi: l’intelligibilità, invece di essere rinchiusi in una lingua non conosciuta, non parlata, ed anche la partecipazione attiva. Purtroppo, questi principi sono stati anche male intesi. Intelligibilità non vuol dire banalità, perché i grandi testi della liturgia – anche se parlati, grazie a Dio, in lingua materna – non sono facilmente intelligibili, hanno bisogno di una formazione permanente del cristiano perché cresca ed entri sempre più in profondità nel mistero e così possa comprendere. Ed anche la Parola di Dio – se penso giorno per giorno alla lettura dell’Antico Testamento, anche alla lettura delle Epistole paoline, dei Vangeli: chi potrebbe dire che capisce subito solo perché è nella propria lingua? Solo una formazione permanente del cuore e della mente può realmente creare intelligibilità ed una partecipazione che è più di una attività esteriore, che è un entrare della persona, del mio essere, nella comunione della Chiesa e così nella comunione con Cristo.
Secondo tema: la Chiesa. Sappiamo che il Concilio Vaticano I era stato interrotto a causa della guerra tedesco-francese e così è rimasto con una unilateralità, con un frammento, perché la dottrina sul primato - che è stata definita, grazie a Dio, in quel momento storico per la Chiesa, ed è stata molto necessaria per il tempo seguente - era soltanto un elemento in un’ecclesiologia più vasta, prevista, preparata. Così era rimasto il frammento. E si poteva dire: se il frammento rimane così come è, tendiamo ad una unilateralità: la Chiesa sarebbe solo il primato. Quindi già dall’inizio c’era questa intenzione di completare l’ecclesiologia del Vaticano I, in una data da trovare, per una ecclesiologia completa. Anche qui le condizioni sembravano molto buone perché, dopo la Prima Guerra Mondiale, era rinato il senso della Chiesa in modo nuovo. Romano Guardini disse: “Nelle anime comincia a risvegliarsi la Chiesa”, e un vescovo protestante parlava del “secolo della Chiesa”. Veniva ritrovato, soprattutto, il concetto, che era previsto anche dal Vaticano I, del Corpo Mistico di Cristo. Si voleva dire e capire che la Chiesa non è un’organizzazione, qualcosa di strutturale, giuridico, istituzionale - anche questo -, ma è un organismo, una realtà vitale, che entra nella mia anima, così che io stesso, proprio con la mia anima credente, sono elemento costruttivo della Chiesa come tale. In questo senso, Pio XII aveva scritto l’Enciclica Mystici Corporis Christi, come un passo verso un completamento dell’ecclesiologia del Vaticano I.
Direi che la discussione teologica degli anni ’30-’40, anche ’20, era completamente sotto questo segno della parola “Mystici Corporis”. Fu una scoperta che ha creato tanta gioia in quel tempo ed anche in questo contesto è cresciuta la formula: Noi siamo la Chiesa, la Chiesa non è una struttura; noi stessi cristiani, insieme, siamo tutti il Corpo vivo della Chiesa. E, naturalmente, questo vale nel senso che noi, il vero “noi” dei credenti, insieme con l’”Io” di Cristo, è la Chiesa; ognuno di noi, non “un noi”, un gruppo che si dichiara Chiesa. No: questo “noi siamo Chiesa” esige proprio il mio inserimento nel grande “noi” dei credenti di tutti i tempi e luoghi. Quindi, la prima idea: completare l’ecclesiologia in modo teologico, ma proseguendo anche in modo strutturale, cioè: accanto alla successione di Pietro, alla sua funzione unica, definire meglio anche la funzione dei Vescovi, del Corpo episcopale. E, per fare questo, è stata trovata la parola “collegialità”, molto discussa, con discussioni accanite, direi, anche un po’ esagerate. Ma era la parola - forse ce ne sarebbe anche un’altra, ma serviva questa - per esprimere che i Vescovi, insieme, sono la continuazione dei Dodici, del Corpo degli Apostoli. Abbiamo detto: solo un Vescovo, quello di Roma, è successore di un determinato Apostolo, di Pietro. Tutti gli altri diventano successori degli Apostoli entrando nel Corpo che continua il Corpo degli Apostoli. Così proprio il Corpo dei Vescovi, il collegio, è la continuazione del Corpo dei Dodici, ed ha così la sua necessità, la sua funzione, i suoi diritti e doveri. Appariva a molti come una lotta per il potere, e forse qualcuno anche ha pensato al suo potere, ma sostanzialmente non si trattava di potere, ma della complementarietà dei fattori e della completezza del Corpo della Chiesa con i Vescovi, successori degli Apostoli, come elementi portanti; ed ognuno di loro è elemento portante della Chiesa, insieme con questo grande Corpo.
Questi erano, diciamo, i due elementi fondamentali e, nella ricerca di una visione teologica completa dell’ecclesiologia, nel frattempo, dopo gli anni ’40, negli anni ’50, era già nata un po’ di critica nel concetto di Corpo di Cristo: “mistico” sarebbe troppo spirituale, troppo esclusivo; era stato messo in gioco allora il concetto di “Popolo di Dio”. E il Concilio, giustamente, ha accettato questo elemento, che nei Padri è considerato come espressione della continuità tra Antico e Nuovo Testamento. Nel testo del Nuovo Testamento, la parola “Laos tou Theou”, corrispondente ai testi dell’Antico Testamento, significa – mi sembra con solo due eccezioni – l’antico Popolo di Dio, gli ebrei che, tra i popoli, “goim”, del mondo, sono “il” Popolo di Dio. E gli altri, noi pagani, non siamo di per sé il Popolo di Dio, diventiamo figli di Abramo, e quindi Popolo di Dio entrando in comunione con il Cristo, che è l’unico seme di Abramo. Ed entrando in comunione con Lui, essendo uno con Lui, siamo anche noi Popolo di Dio. Cioè: il concetto “Popolo di Dio” implica continuità dei Testamenti, continuità della storia di Dio con il mondo, con gli uomini, ma implica anche l’elemento cristologico. Solo tramite la cristologia diveniamo Popolo di Dio e così si combinano i due concetti. Ed il Concilio ha deciso di creare una costruzione trinitaria dell’ecclesiologia: Popolo di Dio Padre, Corpo di Cristo, Tempio dello Spirito Santo.
Ma solo dopo il Concilio è stato messo in luce un elemento che si trova un po’ nascosto, anche nel Concilio stesso, e cioè: il nesso tra Popolo di Dio e Corpo di Cristo, è proprio la comunione con Cristo nell’unione eucaristica. Qui diventiamo Corpo di Cristo; cioè la relazione tra Popolo di Dio e Corpo di Cristo crea una nuova realtà: la comunione. E dopo il Concilio è stato scoperto, direi, come il Concilio, in realtà, abbia trovato, abbia guidato a questo concetto: la comunione come concetto centrale. Direi che, filologicamente, nel Concilio esso non è ancora totalmente maturo, ma è frutto del Concilio che il concetto di comunione sia diventato sempre più l’espressione dell’essenza della Chiesa, comunione nelle diverse dimensioni: comunione con il Dio Trinitario - che è Egli stesso comunione tra Padre, Figlio e Spirito Santo -, comunione sacramentale, comunione concreta nell’episcopato e nella vita della Chiesa.
Ancora più conflittuale era il problema della Rivelazione. Qui si trattava della relazione tra Scrittura e Tradizione, e qui erano interessati soprattutto gli esegeti per una maggiore libertà; essi si sentivano un po’ – diciamo – in una situazione di inferiorità nei confronti dei protestanti, che facevano le grandi scoperte, mentre i cattolici si sentivano un po’ “handicappati” dalla necessità di sottomettersi al Magistero. Qui, quindi, era in gioco una lotta anche molto concreta: quale libertà hanno gli esegeti? Come si legge bene la Scrittura? Che cosa vuol dire Tradizione? Era una battaglia pluridimensionale che adesso non posso mostrare, ma importante è che certamente la Scrittura è la Parola di Dio e la Chiesa sta sotto la Scrittura, obbedisce alla Parola di Dio, e non sta al di sopra della Scrittura. E tuttavia, la Scrittura è Scrittura soltanto perché c’è la Chiesa viva, il suo soggetto vivo; senza il soggetto vivo della Chiesa, la Scrittura è solo un libro e apre, si apre a diverse interpretazioni e non dà un’ultima chiarezza.
Qui, la battaglia - come ho detto - era difficile, e fu decisivo un intervento di Papa Paolo VI. Questo intervento mostra tutta la delicatezza del padre, la sua responsabilità per l’andamento del Concilio, ma anche il suo grande rispetto per il Concilio. Era nata l’idea che la Scrittura è completa, vi si trova tutto; quindi non si ha bisogno della Tradizione, e perciò il Magistero non ha niente da dire. Allora, il Papa ha trasmesso al Concilio mi sembra 14 formule di una frase da inserire nel testo sulla Rivelazione e ci dava, dava ai Padri, la libertà di scegliere una delle 14 formule, ma disse: una deve essere scelta, per rendere completo il testo. Io mi ricordo, più o meno, della formula “non omnis certitudo de veritatibus fidei potest sumi ex Sacra Scriptura”, cioè la certezza della Chiesa sulla fede non nasce soltanto da un libro isolato, ma ha bisogno del soggetto Chiesa illuminato, portato dallo Spirito Santo. Solo così poi la Scrittura parla ed ha tutta la sua autorevolezza. Questa frase che abbiamo scelto nella Commissione dottrinale, una delle 14 formule, è decisiva, direi, per mostrare l’indispensabilità, la necessità della Chiesa, e così capire che cosa vuol dire Tradizione, il Corpo vivo nel quale vive dagli inizi questa Parola e dal quale riceve la sua luce, nel quale è nata. Già il fatto del Canone è un fatto ecclesiale: che questi scritti siano la Scrittura risulta dall’illuminazione della Chiesa, che ha trovato in sé questo Canone della Scrittura; ha trovato, non creato, e sempre e solo in questa comunione della Chiesa viva si può anche realmente capire, leggere la Scrittura come Parola di Dio, come Parola che ci guida nella vita e nella morte.
Come ho detto, questa era una lite abbastanza difficile, ma grazie al Papa e grazie – diciamo – alla luce dello Spirito Santo, che era presente nel Concilio, è stato creato un documento che è uno dei più belli e anche innovativi di tutto il Concilio, e che deve essere ancora molto più studiato. Perché anche oggi l’esegesi tende a leggere la Scrittura fuori dalla Chiesa, fuori dalla fede, solo nel cosiddetto spirito del metodo storico-critico, metodo importante, ma mai così da poter dare soluzioni come ultima certezza; solo se crediamo che queste non sono parole umane, ma sono parole di Dio, e solo se vive il soggetto vivo al quale ha parlato e parla Dio, possiamo interpretare bene la Sacra Scrittura. E qui - come ho detto nella prefazione del mio libro su Gesù (cfr vol. I) - c’è ancora molto da fare per arrivare ad una lettura veramente nello spirito del Concilio. Qui l’applicazione del Concilio ancora non è completa, ancora è da fare.
E, infine, l’ecumenismo. Non vorrei entrare adesso in questi problemi, ma era ovvio – soprattutto dopo le “passioni” dei cristiani nel tempo del nazismo – che i cristiani potessero trovare l’unità, almeno cercare l’unità, ma era chiaro anche che solo Dio può dare l’unità. E siamo ancora in questo cammino. Ora, con questi temi, l’”alleanza renana” – per così dire – aveva fatto il suo lavoro.
La seconda parte del Concilio è molto più ampia. Appariva, con grande urgenza, il tema: mondo di oggi, epoca moderna, e Chiesa; e con esso i temi della responsabilità per la costruzione di questo mondo, della società, responsabilità per il futuro di questo mondo e speranza escatologica, responsabilità etica del cristiano, dove trova le sue guide; e poi libertà religiosa, progresso, e relazione con le altre religioni. In questo momento, sono entrate in discussione realmente tutte le parti del Concilio, non solo l’America, gli Stati Uniti, con un forte interesse per la libertà religiosa. Nel terzo periodo questi hanno detto al Papa: Noi non possiamo tornare a casa senza avere, nel nostro bagaglio, una dichiarazione sulla libertà religiosa votata dal Concilio. Il Papa, tuttavia, ha avuto la fermezza e la decisione, la pazienza di portare il testo al quarto periodo, per trovare una maturazione ed un consenso abbastanza completi tra i Padri del Concilio. Dico: non solo gli americani sono entrati con grande forza nel gioco del Concilio, ma anche l’America Latina, sapendo bene della miseria del popolo, di un continente cattolico, e della responsabilità della fede per la situazione di questi uomini. E così anche l’Africa, l’Asia, hanno visto la necessità del dialogo interreligioso; sono cresciuti problemi che noi tedeschi – devo dire – all’inizio, non avevamo visto. Non posso adesso descrivere tutto questo. Il grande documento “Gaudium et spes” ha analizzato molto bene il problema tra escatologia cristiana e progresso mondano, tra responsabilità per la società di domani e responsabilità del cristiano davanti all’eternità, e così ha anche rinnovato l’etica cristiana, le fondamenta. Ma, diciamo inaspettatamente, è cresciuto, al di fuori di questo grande documento, un documento che rispondeva in modo più sintetico e più concreto alle sfide del tempo, e cioè la “Nostra aetate”. Dall’inizio erano presenti i nostri amici ebrei, che hanno detto, soprattutto a noi tedeschi, ma non solo a noi, che dopo gli avvenimenti tristi di questo secolo nazista, del decennio nazista, la Chiesa cattolica deve dire una parola sull’Antico Testamento, sul popolo ebraico. Hanno detto: anche se è chiaro che la Chiesa non è responsabile della Shoah, erano cristiani, in gran parte, coloro che hanno commesso quei crimini; dobbiamo approfondire e rinnovare la coscienza cristiana, anche se sappiamo bene che i veri credenti sempre hanno resistito contro queste cose. E così era chiaro che la relazione con il mondo dell’antico Popolo di Dio dovesse essere oggetto di riflessione. Si capisce anche che i Paesi arabi – i Vescovi dei Paesi arabi – non fossero felici di questa cosa: temevano un po’ una glorificazione dello Stato di Israele, che non volevano, naturalmente. Dissero: Bene, un’indicazione veramente teologica sul popolo ebraico è buona, è necessaria, ma se parlate di questo, parlate anche dell’Islam; solo così siamo in equilibrio; anche l’Islam è una grande sfida e la Chiesa deve chiarire anche la sua relazione con l’Islam. Una cosa che noi, in quel momento, non abbiamo tanto capito, un po’, ma non molto. Oggi sappiamo quanto fosse necessario.
Quando abbiamo incominciato a lavorare anche sull’Islam, ci hanno detto: Ma ci sono anche altre religioni del mondo: tutta l’Asia! Pensate al Buddismo, all’Induismo…. E così, invece di una Dichiarazione inizialmente pensata solo sull’antico Popolo di Dio, si è creato un testo sul dialogo interreligioso, anticipando quanto solo trent’anni dopo si è mostrato in tutta la sua intensità e importanza. Non posso entrare adesso in questo tema, ma se si legge il testo, si vede che è molto denso e preparato veramente da persone che conoscevano le realtà, e indica brevemente, con poche parole, l’essenziale. Così anche il fondamento di un dialogo, nella differenza, nella diversità, nella fede sull’unicità di Cristo, che è uno, e non è possibile, per un credente, pensare che le religioni siano tutte variazioni di un tema. No, c’è una realtà del Dio vivente che ha parlato, ed è un Dio, è un Dio incarnato, quindi una Parola di Dio, che è realmente Parola di Dio. Ma c’è l’esperienza religiosa, con una certa luce umana della creazione, e quindi è necessario e possibile entrare in dialogo, e così aprirsi l’uno all’altro e aprire tutti alla pace di Dio, di tutti i suoi figli, di tutta la sua famiglia.
Quindi, questi due documenti, libertà religiosa e “Nostra aetate”, connessi con “Gaudium et spes” sono una trilogia molto importante, la cui importanza si è mostrata solo nel corso dei decenni, e ancora stiamo lavorando per capire meglio questo insieme tra unicità della Rivelazione di Dio, unicità dell’unico Dio incarnato in Cristo, e la molteplicità delle religioni, con le quali cerchiamo la pace e anche il cuore aperto per la luce dello Spirito Santo, che illumina e guida a Cristo.
Vorrei adesso aggiungere ancora un terzo punto: c’era il Concilio dei Padri – il vero Concilio –, ma c’era anche il Concilio dei media. Era quasi un Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio tramite questi, tramite i media. Quindi il Concilio immediatamente efficiente arrivato al popolo, è stato quello dei media, non quello dei Padri. E mentre il Concilio dei Padri si realizzava all’interno della fede, era un Concilio della fede che cerca l’intellectus, che cerca di comprendersi e cerca di comprendere i segni di Dio in quel momento, che cerca di rispondere alla sfida di Dio in quel momento e di trovare nella Parola di Dio la parola per oggi e domani, mentre tutto il Concilio – come ho detto – si muoveva all’interno della fede, come fides quaerens intellectum, il Concilio dei giornalisti non si è realizzato, naturalmente, all’interno della fede, ma all’interno delle categorie dei media di oggi, cioè fuori dalla fede, con un’ermeneutica diversa. Era un’ermeneutica politica: per i media, il Concilio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa. Era ovvio che i media prendessero posizione per quella parte che a loro appariva quella più confacente con il loro mondo. C’erano quelli che cercavano la decentralizzazione della Chiesa, il potere per i Vescovi e poi, tramite la parola “Popolo di Dio”, il potere del popolo, dei laici. C’era questa triplice questione: il potere del Papa, poi trasferito al potere dei Vescovi e al potere di tutti, sovranità popolare. Naturalmente, per loro era questa la parte da approvare, da promulgare, da favorire. E così anche per la liturgia: non interessava la liturgia come atto della fede, ma come una cosa dove si fanno cose comprensibili, una cosa di attività della comunità, una cosa profana. E sappiamo che c’era una tendenza, che si fondava anche storicamente, a dire: La sacralità è una cosa pagana, eventualmente anche dell’Antico Testamento. Nel Nuovo vale solo che Cristo è morto fuori: cioè fuori dalle porte, cioè nel mondo profano. Sacralità quindi da terminare, profanità anche del culto: il culto non è culto, ma un atto dell’insieme, della partecipazione comune, e così anche partecipazione come attività. Queste traduzioni, banalizzazioni dell’idea del Concilio, sono state virulente nella prassi dell’applicazione della Riforma liturgica; esse erano nate in una visione del Concilio al di fuori della sua propria chiave, della fede. E così, anche nella questione della Scrittura: la Scrittura è un libro, storico, da trattare storicamente e nient’altro, e così via.
Sappiamo come questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata … e il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale. Ma la forza reale del Concilio era presente e, man mano, si realizza sempre più e diventa la vera forza che poi è anche vera riforma, vero rinnovamento della Chiesa. Mi sembra che, 50 anni dopo il Concilio, vediamo come questo Concilio virtuale si rompa, si perda, e appare il vero Concilio con tutta la sua forza spirituale. Ed è nostro compito, proprio in questo Anno della fede, cominciando da questo Anno della fede, lavorare perché il vero Concilio, con la sua forza dello Spirito Santo, si realizzi e sia realmente rinnovata la Chiesa. Speriamo che il Signore ci aiuti. Io, ritirato con la mia preghiera, sarò sempre con voi, e insieme andiamo avanti con il Signore, nella certezza: Vince il Signore! Grazie!