venerdì 22 maggio 2015

Il giardino dell’Eden tra mito e storia





di Chiara Santomiero
Anche quest’anno l’Ufficio Pellegrinaggi della Diocesi di Vicenzapropone, all’interno della XI edizione del Festival Biblico sul tema “Custodire il Creato, coltivare l’umano” lo spazio “Linfa dell’Ulivo”. L’obiettivo dell’iniziativa che si svolge nella città veneta dal 21 al 23 maggio è quello di offrire un approfondimento biblico, teologico, esegetico, archeologico, artistico e culturale del tema del Festival, con uno sguardo privilegiato sulle Terre Bibliche. Aleteia ha chiesto al teologo Silvio Barbaglia, di anticipare qualche riflessione del dibattito sul tema “Eden: un giardino-paradiso, al principio della storia degli uomini”.


Il paradiso terrestre, l’Eden, cos’è?

Barbaglia: Già l’espressione “paradiso terrestre” la dice lunga sull’immagine di un luogo di armonia dove tutto va bene, si vive felici in una comunione che poi viene rotta dal peccato e che assume il carattere di un mito. Parliamo di “paradiso” perchè viene dalla parola ebraica “pardés” che significa giardino. L’idea è quella di una libertà di vita perduta che deve essere ritrovata e c’è una linea interpretativa che segue questa strada.

E invece?

Barbaglia: I cosiddetti “testi di origine” – della Creazione, di Caino e Abele - sono stati definiti così dall’esegesi quando ha cominciato a dividere la scrittura del Pentateuco dalle tradizioni precedenti. Sono testi studiati con la volontà esplicita di ritrovare la radice originaria dalla quale veniamo. Non sono d’accordo che il loro posizionamento all’inizio della Scrittura serva a farli funzionare come testi di origine. Ritengo che, cambiando l’arco di lettura completo – che parte da Genesi e arriva fino al Secondo Libro dei Re, cioè al momento della distruzione di Gerusalemme e della deportazione a Babilonia del popolo di Giuda -, si possa dire che la volontà redazionale ultima sia stata quella di compiere un’opera storiografica che desse ragione del punto di arrivo, cioè della situazione di un popolo costretto a ricostruire una speranza in un momento disperato, tramite il recupero della memoria. Tutto ciò vuol dire che il testo dell’Eden, non serve a raccontare le origini, non è il punto di partenza, ma il punto di arrivo perchè aiuta a visualizzare ciò che come popolo vorrei che accadesse nel mio futuro. Il giardino in cui tutto è creato buono rappresenta la speranza che si ripresenti quello stato in cui io non vivo più.

Il giardino è anche un luogo fisico?

Barbaglia: Noi abbiamo del giardino un’idea naturalistica, di un luogo un pò incolto e selvaggio. In realtà la cultura dei giardini è una cultura delle città: i giardini venivano piantati e recintati e questo accade con la civilizzazione. Porre un giardino all’inizio della creazione non significa offrire un’immagine idilliaca, ma inserirsi in una visione organizzata della storia. L’Eden non si colloca in Mesopotamia, come alcuni pensano o anche in Armenia: il giardino descritto dal libro della Genesi rappresenta la Terra Santa e il Tempio di Gerusalemme. Questo è il luogo in cui Dio sta e stabilisce la comunione “con” e in cui ha deciso di abitare. Se l’Eden è Gerusalemme e il Tempio cambia tutto: è questo il luogo da cui Israele viene cacciato con la deportazione a Babilonia, fuori dalla comunione con Dio, perchè c’è stato il peccato dell’idolatria.


Cosa rappresenta l’albero del bene e del male?

Barbaglia: Gli alberi nel giardino sono due: quello della vita e quello della conoscenza del bene e del male, ma l’attenzione viene concentrata sul secondo. Quando vengono scacciati dal giardino Adamo ed Eva sono uguali a Dio – aveva ragione il serpente – perchè hanno mangiato dell’albero della conoscenza, ma non sono uguali a Dio rispetto alla vita, perchè non hanno potuto stendere la mano verso l’albero della vita. Stendere la mano verso l’albero della conoscenza del bene e del male ha significato preferire il serpente, l’idolatria – che è via della morte – a Dio che è via della vita. Tu sei libero di scegliere tra la vita e la morte, tra Elohim e il serpente, che sono presenti nell’Eden.

Il serpente rappresenta quindi l’idolatria?

Barbaglia: Un particolare tipo di idolatria. Secondo la nuova tesi che propongo si tratta di divinazione. Nelle intenzioni originarie il serpente è simbolo dei culti idolatrici cananaici e delle arti divinatorie, in cui l’uomo cerca di carpire i segreti di Dio, invece che vivere la relazione con lui che assicura la vita. Alla base di questa spiegazione c’è un gioco terminologico che fa riferimento al Secondo Libro dei Re e al re Ezechia che fece tutto ciò che era gradito al Signore. In pratica cancellò le azioni idolatriche a Gerusalemme e fece a pezzi Necustàn, il “serpente di bronzo” fatto da Mosè nel deserto per guarire dal morso dei serpenti. Necustàn è una parola che ha la stessa radice del “serpente” della Genesi. Suo figlio Manasse, invece, compì le peggiori nefandezze e ripristinò la divinazione in Gerusalemme. La parola ebraica divinazione ha le stesse consonanti di serpente. Tutto ciò serve a capire il cosiddetto proto-Vangelo in cui si parla della donna la cui stirpe schiaccerà la testa al serpente, ma questi gli insidierà il calcagno: si pensa all’Immacolata Concezione, ma attraverso una serie di rimandi e interpretazioni, dovrebbe invece essere identificata con la madre di Ezechia, il più grande re di Giuda perchè ha estirpato l’idolatria da Gerusalemme che però poi torna con il figlio Manasse. Il male che era stato scacciato è tornato, così come il serpente schiacciato insidia il calcagno. E’ l’idolatria che provoca l’espulsione di Giuda da Gerusalemme-Eden e l’esilio a Babilonia perchè non è rimasto fedele.

Cosa dice il racconto biblico al nostro oggi?

Barbaglia: Gli elementi testuali possono essere riletti a vari livelli e rilanciati. A proposito del giardino che diventa città quale responsabilità esercita l’uomo? Cosa significa la responsabilità politica e sociale del coltivare e custodire che sono i verbi tipici di Dio, “custode di Israele”? Coltivare, a sua volta, viene dal verbo del culto, cioè servire Gerusalemme nel Tempio.  Queste declinazioni sono gradi di responsabilizzazione dell’uomo nella storia. 
sources: ALETEIA

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Dialogo tra un biblista e un archeologo

Eden, il giardino dell'inizio e dellla fine

di G. Bernardelli
Un giardino-paradiso all’inizio della storia degli uomini: è il tema biblico dell’Eden, che ritorna anche in tanti altri racconti dell’antichità. Perché ricorre così spesso? E che sguardo ci offre davvero sul tema del rapporto tra l’uomo e il mondo che lo circonda? È intorno a questo tema che l’archeologo Valerio Massimo Manfredi e il biblista don Silvio Barbaglia si confrontano oggi a Vicenza alla «Linfa dell’Ulivo», il focus su esegesi e archeologia promosso nell’ambito del Festival Biblico.


Che cos’è l’Eden per l’uomo dell’antichità?
Manfredi: «Nel mondo classico i giardini sono isole fortunate, dove piove solo di notte, non c’è freddo, soprattutto non c’è la fatica per guadagnarsi il cibo. È l’illusione che gli abitanti della Terra hanno sempre avuto: guardando alle guerre, alla fame, alla peste si è sempre immaginato che all’origine ci fosse un luogo perfetto. Ma è chiaro che l’uomo si attribuisce anche la colpa di aver distrutto questa perfezione, attraverso l’intelligenza del "sarete come Dio", come dice il serpente. Allo stesso tempo però il giardino è presente in tutte le civiltà come costruzione umana: l’uomo costruisce un angolo di natura perfetto in cui fugge. Non c’è residenza principesca che non sia dotata di un giardino, luogo che imita la natura pensando di riuscire a creare una perfezione ancora superiore. È il luogo più artificiale che esista».

Barbaglia: «Sgombriamo il campo dall’idea della natura incontaminata; per capire l’Eden dobbiamo guardare al giardino come a un’esperienza di città. È il giardino recintato, l’idea dell’hortus conclusus. Il racconto biblico è scritto avendo in mente la questione di Gerusalemme e del Tempio. Nei quattro fiumi dell’Eden in Genesi 2 è citata Gihon, la sorgente che porta l’acqua a Gerusalemme e che fu al centro delle opere di canalizzazione del re Ezechia. Lo stesso re che aveva cercato di bandire l’idolatria, in un cammino che poi Israele aveva abbandonato: per questo – nella logica biblica – era giunta l’esperienza dell’esilio (che è dunque la cacciata dall’Eden). Il racconto, dunque, più che come punto d’origine va letto nella prospettiva di uno sguardo sulla fine: l’Eden è la speranza nel tempo dell’esilio».


Tra i tanti giardini possibili a quale modello si rifà l’Eden biblico?

Manfredi: «Ogni civiltà ha il suo giardino: quello che consideriamo nella tradizione biblica, il paradeisos, viene da una parola persiana ellenizzata e indicava i giardini degli imperatori persiani. Poi c’è la tradizione del giardino pensile babilonese, considerata una delle sette meraviglie del mondo antico, con la leggenda della principessa malinconica, che rimpiangeva la sua terra boscosa e verdeggiante, per la quale il re avrebbe costruito questa montagna artificiale. È un mito ma anche una pratica: il ricordo ancestrale del tempo in cui l’uomo viveva immerso nella natura. E in fondo anche i grandi parchi cittadini di oggi nascono sempre dall’ideale dell’urbs in horto. E le architetture contemporanee riproducono il giardino pensile, con possibilità tecniche che l’antichità non aveva».

Barbaglia: «La Gerusalemme dell’Eden rimanda molto al tema dell’acqua, che nella Bibbia ha una profonda ambivalenza: è all’origine della vita, con la sua esuberanza che infonde colore, sapore, odore. Ma può diventare anche elemento di morte, come nel Mar Rosso. Ecco allora l’idea del giardino nella città fondata sulla sorgente: è un’immagine fortemente metaforica; dice di un uomo capace di scegliere la vita e non la morte».


In occasione dell’Expo 2015 oggi si parla molto del tema della sostenibilità nella sfida di nutrire l’uomo. Che cosa può suggerire in proposito l’idea dell’Eden?

Manfredi: «Non credo che miti arcaici di questo genere debbano essere necessariamente d’aiuto. Il mondo oggi è tutt’altra cosa: siamo 8 miliardi, non è certo un mito a poterci salvare... La diffusione del genere umano è talmente prepotente, aggressiva; la stessa nostra economia, basata su una crescita senza fine, è la nostra condanna. Oggi non ci può salvare il mito; l’unica risposta forse sarebbe un’economia diversa, un tipo di energia diversa. Può darsi che la scienza ci insegni come invertire il processo. Però intanto ogni anno vediamo estinguersi nuove specie di animali e vegetali, viviamo in società fondate su castelli di carte. Perché allora studiare questi miti? Sono manifestazioni spontanee delle civiltà e vale la pena di conoscerle. Possono essere motivo di ispirazione, sì, ma più che altro a livello individuale».

Barbaglia: «All’uomo l’Eden è affidato come un giardino da custodire e coltivare, che sono due verbi teologicamente istruiti. Custodire è un’azione propria di Dio che nella Bibbia è descritto come il custode di Israele. E coltivare è un verbo che ha la stessa radice dell’azione del culto nel Tempio. Dunque non sei padre e padrone della Terra, ma sei chiamato a servirla attraverso il tuo lavoro. Dentro l’idea di un giardino organizzato, in cui l’uomo ha un ruolo positivo, da protagonista. A patto che – anche qui – non ricada nella tentazione dell’idolatria, evocata nel racconto biblico dalla figura del serpente».
Avvenire