domenica 17 maggio 2015

Sul significato dello “stare con” le persone più deboli.



Nel cuore dei poveri 

Anticipiamo, in una nostra traduzione, parte del Templeton Talk che il fondatore dell’Arca terrà il 18 maggio a St Martin in the Fields a Londra.
(Jean Vanier) Nel suo libro A Nazareth Manifesto (New Jersey, Wiley Blackwell, 2015, pagine 336, euro 25) Samuel Wells rivela che Gesù è venuto per insegnarci non soltanto a fare qualcosa per le persone senza una casa, ma anche a stare con loro. È questo il vero segreto della Chiesa, come anche delle nostre comunità, e si spera che un giorno possa essere il segreto dell’intera umanità: stare con.
Stare con significa vivere fianco a fianco, significa entrare in relazioni reciproche di amicizia e di sollecitudine. Significa ridere e piangere insieme, significa trasformarsi reciprocamente. Ogni persona diventa un dono per l’altra, rivelando all’altro che facciamo tutti parte di un’immensa e meravigliosa famiglia, la famiglia di Dio. Siamo tutti profondamente uguali come esseri umani, ma anche profondamente diversi; tutti abbiamo i nostri doni speciali e la nostra missione unica nella vita. Questa straordinaria famiglia, sin dalle sue lontane origini, e da allora con tutti coloro che generazione dopo generazione sono stati sparpagliati su questo pianeta, è composta da persone di cultura e capacità diverse, ognuna con le sue forze e debolezze, e tutte preziose.
L’evoluzione di questa famiglia, dagli inizi a oggi, certamente ha comportato guerre, violenza e la ricerca infinita di dominazione e di maggiori possedimenti. È anche un’evoluzione nella quale profeti di pace hanno continuato a chiedere “pace, pace”, chiamando le persone a incontrarsi e a vedersi belle e preziose. Molti di noi, nel mondo attuale, continuano ad anelare la pace e l’unità. Tuttavia, in tanti restiamo impigliati nella nostra cultura, dove ci ritroviamo coinvolti nella lotta per vincere e avere di più. Come possiamo liberarci dalla cultura che incita le persone non alla responsabilità verso la famiglia umana e il bene comune, ma al successo individuale e al predominio sugli altri? Come possiamo svincolarci dai tentacoli e dalle catene di questa cultura, così da essere liberi per noi stessi, liberi dal nostro ego sovradimensionato e dalle nostre compulsioni, liberi di amare gli altri così come sono, diversi e tuttavia uguali?
Stare con significa anche mangiare insieme, così come ci ha invitati a fare Gesù: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare la tua famiglia, i tuoi amici, o i tuoi vicini ricchi, bensì poveri, storpi, zoppi e ciechi e sarai beato». Essere beati, dice Gesù, significa invitare i poveri alla nostra mensa (cfr. Luca 14). È bene specificare che non sono gli ospiti a essere beati perché possono gustare il cibo al banchetto, bensì il padrone di casa attraverso il suo incontro con i poveri. Perché il padrone di casa è detto beato? Non è forse perché il suo cuore è trasformato quando viene toccato dagli straordinari doni dello spirito nascosti nel cuore dei poveri? 
È stato questo il dono del mio percorso personale e anche di quello di molti altri. Siamo stati guidati da quanti sono deboli sul cammino della beatitudine dell’amore, dell’umiltà e della pacificazione.
Per essere trasformati, dobbiamo anzitutto incontrare persone che sono diverse, non soltanto i nostri familiari, amici e vicini, che sono come noi. Incontriamoci al di là delle differenze, siano esse intellettuali, culturali, nazionali, razziali, religiose o di altro genere. Poi, a partire da questo incontro iniziale, possiamo cominciare a costruire insieme comunità e luoghi di appartenenza.
La comunità non è mai chiamata a essere un gruppo chiuso, nel quale le persone si nascondono dietro le barriere dell’identità di gruppo, interessate solo al proprio benessere o alla propria visione, come se fosse l’unica o la migliore. Non può essere una prigione o una fortezza. Purtroppo, per molto tempo è stata questa la visione piuttosto ristretta di diverse Chiese e religioni. Ognuna si riteneva la migliore, detentrice di ogni conoscenza e verità. Pertanto, tra loro non c’erano comunicazione o dialogo. Non c’è forse in questo il pericolo che ci rinchiudiamo nel nostro gruppo professionale, religioso o familiare, dove non incontriamo mai chi è diverso?
La comunità, d’altro canto, è un luogo dello stare insieme nonostante le differenze, di persone unite nell’amore e aperte a tutte le altre persone. La comunità, dunque, è come una fonte o una luce splendente, dove si vive e si rivela uno stile di vita, aperta agli altri e attraente. È un luogo di pace, che svela una via verso la pace e l’unità per la famiglia umana. 
La comunità è un luogo di appartenenza, dove ogni persona può crescere per divenire pienamente se stessa. È appartenere per divenire. Apparteniamo gli uni agli altri, di modo che ogni membro possa divenire più umano, più amorevole, più libero, più aperto agli altri, specialmente a quanti sono diversi. Quando ogni membro può sviluppare i suoi doni unici e aiutare gli altri a sviluppare i propri, i membri non sono più in una situazione di competizione, bensì di collaborazione, di cooperazione e di sostegno reciproco. Divenire non significa dimostrare di essere migliore rispetto all’altro, ma piuttosto sostenersi insieme gli uni gli altri nell’aprire i propri cuori. Pertanto, la comunità è un luogo di trasformazione. La comunità è un luogo di appartenenza dove ognuno può essere trasformato e trovare la propria realizzazione umana.
Quali alternative abbiamo per la crescita umana? Un’appartenenza troppo rigida soffoca il divenire; d’altra parte, troppa crescita o troppo divenire individuale senza appartenenza possono portare a una lotta per arrivare al vertice, oppure trasformarsi in solitudine e angoscia. Vincere significa sempre essere soli, e ovviamente nessuno vince a lungo.
La comunità, dunque, non è un gruppo chiuso, bensì un modo di vivere che aiuta ogni persona a crescere fino alla propria realizzazione umana. I due elementi chiave della comunità sono la missione e la mutua sollecitudine. Ci riuniamo per un fine, che è la missione, e anche per essere segno di amore, o piuttosto per crescere nell’amore reciproco. È la missione a definire il motivo per cui stiamo insieme, e stando insieme impariamo ad amarci gli uni gli altri.
La comunità è un luogo dove levighiamo i punti dolenti dell’altro. È auspicabile che in tal modo riusciamo a levigare alcuni dei tratti fastidiosi e aspri del nostro carattere, così da poter diventare veramente noi stessi. Amare, dunque, significa guardare dentro l’altro, vedere il cuore della persona, nascosto dietro a tutto ciò che ci infastidisce. Per questo, amare significa, con le parole di san Paolo, essere pazienti, ovvero aspettare e tener duro. Significa credere e confidare che sotto tutta la confusione nell’altra persona ci sia la sua natura segreta, il suo cuore.
L'Osservatore Romano