sabato 2 maggio 2015

V domenica di Pasqua, Anno B

Nella quinta domenica di Pasqua, la liturgia ci propone il Vangelo in cui Gesù dice:
“Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla”
Il Vangelo di oggi è preso dai discorsi di Gesù ai suoi discepoli durante l’ultima cena. L’immagine della vigna è presente in diverse pagine dell’AT: questa vigna, prima ancora che opera della mano del vignaiuolo è opera del suo cuore. Vi ha messo tutta la sua arte, la sua creatività, la sua tenerezza. Ha con essa un rapporto filiale. L’immagine rivela il rapporto d’amore che il Padre ha con il suo popolo, il progetto d’amore che ha animato l’opera creatrice di Dio verso l’uomo. Ha pensato e voluto la sua creatura in un rapporto d’amore filiale – ancora più profondo ed intimo – nuziale – con essa. L’ha voluta così per poter effondere su di essa, con un’abbondanza degna di Dio, tutti i suoi tesori. Ma perché questo sia possibile il tralcio deve restare unito alla vite: non per una dipendenza capricciosa, non per umiliare l’altro, più debole. Ma per un’esplosione di gioiosa comunione d’amore. “Chi rimane in me, ed io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla”. “Se rimanete in me…”. Nelle parole dell’apostolo Giovanni – che ha avuto la sorte di porre il suo capo sul petto del Signore – giunge a noi un’eco del rapporto d’amore tra il Padre e il Figlio, che Gesù è venuto a ricreare nella comunità dei fratelli, grazie al dono dello Spirito Santo; rimanere nel suo amore, significa anche rimanere radicati nella comunità dei fratelli. Per questo siamo stati creati, per questo è venuto a noi il Figlio unigenito del Padre, per questo abbiamo celebrato la Pasqua. Oggi siamo chiamati nell’Eucaristia a gustare, a celebrare questo essere discepoli del Signore nel frutto della comunione fraterna, e trasformare questa gioia in missione, in buona notizia per il mondo. (Pasotti)
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V DOMENICA DI PASQUAAnno B


MESSALE
Antifona d'Ingresso  Sal 97,1-2
Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto prodigi;
a tutti i popoli ha rivelato la salvezza. Alleluia.

 
Colletta

O Padre, che ci hai donato il Salvatore e lo Spirito Santo, guarda con benevolenza i tuoi figli di adozione, perché a tutti i credenti in Cristo sia data la vera libertà e l'eredità eterna. Per il nostro Signore...

Oppure:
O Dio, che ci hai inseriti in Cristo come tralci nella vera vite, donaci il tuo Spirito, perché amandoci gli uni agli altri di sincero amore, diventiamo primizie di umanità nuova e portiamo frutti di santità e di pace. Per il nostro Signore...
LITURGIA DELLA PAROLA

Prima Lettura  At 9, 26-31
Bàrnaba raccontò agli apostoli come durante il viaggio Paolo aveva visto il Signore.
 
Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, Saulo, venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo.
Allora Bàrnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Così egli poté stare con loro e andava e veniva in Gerusalemme, predicando apertamente nel nome del Signore. Parlava e discuteva con quelli di lingua greca; ma questi tentavano di ucciderlo. Quando vennero a saperlo, i fratelli lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso.
La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samarìa: si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero.

Salmo Responsoriale  
Dal Salmo 21
A te la mia lode, Signore, nella grande assemblea.

Scioglierò i miei voti davanti ai suoi fedeli.
I poveri mangeranno e saranno saziati,
loderanno il Signore quanti lo cercano;
il vostro cuore viva per sempre!

Ricorderanno e torneranno al Signore
tutti i confini della terra;
davanti a te si prostreranno
tutte le famiglie dei popoli.

A lui solo si prostreranno
quanti dormono sotto terra,
davanti a lui si curveranno
quanti discendono nella polvere.

Ma io vivrò per lui,
lo servirà la mia discendenza.
Si parlerà del Signore alla generazione che viene;
annunceranno la sua giustizia;
al popolo che nascerà diranno:
«Ecco l’opera del Signore!».
 
Seconda Lettura  
1 Gv 3, 18-24

Questo è il suo comandamento: che crediamo e ci amiamo.

Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo
Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità.
In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa.
Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito.
Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.

Canto al Vangelo 
  Cf Gv 15,4a.5b
Alleluia, alleluia.

Rimanete in me e io in voi, dice il Signore;
chi rimane in me porta molto frutto.
Alleluia.
   
 
   
Vangelo  Gv 15, 1-8
Chi rimane in me ed io in lui fa molto frutto.

Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

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Basta restare uniti a Lui

Commento al Vangelo della V domenica di Pasqua, Anno B


"Senza" Gesù siamo uno zero assoluto. Ma "in" Lui, la nostra vita, quella che abbiamo oggi tra le mani, semplice o complicata, afflitta da malattie, da paure, ferita dalle tante debolezze che ci accompagnano, questa vita è stupenda, un'avventura irripetibile donataci per disseminare di frutti squisiti i nostri giorni, capaci di mostrare Dio e il Cielo a ogni uomo.
Ma spesso, di fronte agli eventi e alle relazioni, scoprendoci incapaci di comprendere la realtà e di affrontarla, entriamo in crisi cercandone il senso, mentre è tutto così semplice: "rimanere in Lui", dimorare in Cristo, ecco tutto. Lasciarci amare, alzare bandiera bianca, gettare via da noi il pensiero "aiutati che Dio t'aiuta" che troppo spesso ci accompagna, aggrappati a Lui, alle sue braccia distese per amore, "come la vite al tralcio".
"Rimanere in Lui" non significa inventarsi chissà che cosa, è, semplicemente, essere crocifissi con LuiE' "rimanere" lì dove Lui ci conduce, nella storia concreta dell'unico oggi che ci appartiene, quello reale che siamo chiamati a vivere. "Senza di Lui non possiamo fare nulla": dovremmo scrivere questa frase e appenderla dove più spesso la possiamo leggere. Nulla.
Il Signore non dice che, sforzandoci, impegnandoci, anche senza di Lui potremmo cominciare a metterci del nostro, qualcosa, che so? buone intenzioni o progetti o altro, qualcosa a cui Lui, poi, darebbe compimento. No, il Signore ci dice che senza di Lui nulla possiamo.
San Paolo lo ha sperimentato. Che cosa ha fatto per diventare l’apostolo delle genti? Nulla. Correva fremendo di zelo contro i cristiani, sino a che non è inciampato sull’amore di Dio. E solo lì, a terra, senza forze, avvolto dalla luce della Pasqua, ha potuto ascoltare la voce che gli rivelava la Verità: tutto quello zelo non era altro che un “recalcitrare contro il pungolo”, uno sforzo inutile e dannoso.
In quella caduta Paolo ha cominciato ad imparare che solo restando unito a Cristo avrebbe potuto essere quello per cui era venuto al mondo e per cui era stato eletto. Non a caso, infatti, accanto alla missione, Gesù gli aveva profetizzato le sofferenze che avrebbe patito per il suo Nome. Perché sono le sofferenze che mettono in luce la qualità dell’opera di ciascuno. E Paolo, sin dal principio della sua vita nuova in Cristo, ha dovuto sopportarne molte, dalla paura e dalla diffidenza nei suoi confronti della prima comunità cristiana, all’odio dei suoi fratelli che, ascoltandolo “parlare apertamente nel nome di Gesù” e “discutere” con loro, “volevano ucciderlo”.
Non si scappa, senza essere uniti a Cristo anche quello che facciamo è nulla, fumo che il vento porta via. Le opere, i pensieri, le parole, tutto quello che non ha in Lui origine e compimento è destinato a sfarinarsi nell'inconsistenza. Senza di Lui non possiamo dare il frutto dell’amore che scaturisce dal Vangelo, perché senza la linfa del suo Spirito non vi è fecondità e libertà.
Come quella sperimentata da San Paolo che, unito a Cristo nella comunione con “i discepoli” “stava con loro, e andava e veniva” ed era da loro difeso e protetto. Senza di Lui ogni sforzo è inutile, e la vita non è che vanità di vanità, “amore a parole e di lingua”, ben lontano dai “fatti” e dalla “verità”.
Pensiamo al nostro matrimonio, al fidanzamento, allo studio, al lavoro, all'amicizia. Pensiamo a una passeggiata tra i boschi, a una visita al museo, alla spesa del sabato, a una cena in pizzeria con la fidanzata, o a una dolorosa degenza in ospedale, una notte di studio alla vigilia di un esame, una discussione con la figlia che non riusciamo proprio a capire, pensiamo a qualunque momento della nostra vita, pensiamolo vissuto in Cristo, alla sua presenza, illuminato dalla sua Parola, sostenuto dalla sua forza; e pensiamolo chiuso in noi stessi, schiacciato sulle nostre forze, preda dei nostri impulsi e delle nostre ispirazioni.
Scopriremo la stessa differenza che vi è tra il giorno e la notte, tra la luce e le tenebre, tra la vita e la morte. In Cristo tutto ha un sapore, una forza, un'autenticità impensabili. In Lui anche una semplice passeggiata è tutta un'altra cosa. Anche un viaggio, anche una partita allo stadio. Proprio dal non accettare la verità che "senza il Signore non possiamo fare nulla", provengono tante sofferenze. 
Il tentare e ritentare di farcela da soli, liberi dal giogo della Croce, staccati dalla vite che sola può trasmetterci la vita e dare pienezza a ogni cosa. E vediamo "seccarsi" i rapporti, e dobbiamo "gettare" nel "fuoco che brucia" gli "amori" che sembravano eterni, le amicizie che ritenevamo inossidabili. Spesso scopriamo come rami secchi i nostri stessi pensieri, sterili e angoscianti, i nostri progetti irrealizzati, i nostri sogni infranti.
Ma questa Domenica il Signore viene a cercarci per prenderci con Lui, per attirarci a sé, per "potare" i rami secchi che già abbiamo staccato dal tronco della Croce, perché abbandoniamo finalmente l'inganno di ritenerci importanti, indispensabili, imprescindibili.
Il Padre, infatti, ci "pota" come "un vignaiolo" pieno di amore e pazienza, perché possiamo offrire al mondo i "frutti" di ogni istante della nostra vita, della gioventù, dell'età matura, della vecchiaia, della salute e della malattia, del successo e del fallimento. Apri gli occhi allora, e vedrai che tutta la tua storia è stata una “potatura” piena di misericordia.
Eccolo dunque il Signore che viene a unirci di nuovo a sé, con questo Vangelo, con i sacramenti e la comunione della Chiesa. Abbandoniamoci dunque al suo amore, oggi, nell'eucarestia, nella preghiera, nella vita. Consegniamogli tutto noi stessi e chiediamogli l'unico necessario: il suo Spirito che, come linfa vitale, ci leghi a Lui eternamente per operare in noi le sue opere, che parli in noi le "sue parole", che faccia scaturire il "frutto" per il quale siamo nati. 
Fratelli, “Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa”. Dio sa che siamo deboli, ma che nel fondo del nostro cuore c’è il desiderio di amarlo e di amare i fratelli. Per questo ci ha donato suo Figlio, nel quale ogni nostra parola, pensiero e gesto "porta un frutto che rimane". Se “crediamo nel Nome del Signore Gesù Cristo”, se cioè ci appoggiamo a Lui, sarà Gesù stesso a compiere in noi l’amore tra i fratelli, “secondo il precetto che ci ha dato”.
L’amore che risplende nella comunità cristiana, infatti, è il “frutto bello, buono”, consistente, “glorioso” - ovvero "di peso" – offerto da Dio ad ogni uomo. Tutto, infatti, è per la maggior "Gloria" di Dio, la sua presenza più vera e credibile in questa terra, perché la sua "gloria" è l'uomo che vive davvero, in pienezza, libero e adulto nella fede, l'uomo che si dona per amore, gratuitamente. 
Se in noi si dà l’amore possiamo “rassicurare il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri”. Coscienti dei nostri limiti e difetti ci appoggeremo con “fiducia” a Cristo uniti al quale “faremo quello che è gradito a Dio”; nulla più sarà impossibile, perché “ogni cosa che chiederemo” avrà il gusto del bene da offrire al fratello e non l’effimera gioia di un istante, e per questo la “riceveremo da Dio”.
Fantastico no? La salvezza di ogni uomo, di tuo figlio e di tua zia, l'incontro con Cristo per ogni uomo - "ci sarà donato": basta restare uniti a Lui e lasciare che “le sue parole rimangano” e si compiano in noi. Perché la volontà di Dio fluisce come linfa da Cristo a noi e al mondo attraverso il legno della Croce.
Coraggio allora, perché lo Spirito Santo ci fa “dimorare in Dio” concretamente, ovvero amando che è la sintesi di ogni “comandamento”. E chi ama “osserva i comandamenti”, cammina cioè come un “discepolo” sulle orme luminose della volontà di Dio per “portare il molto frutto” che “glorifica il Padre” nella storia.
La Gloria di Dio, infatti, brilla nel mondo attraverso il "frutto" squisito di un fidanzamento nel quale, "uniti a Lui come i tralci alla vite", due fidanzati possono lottare per custodire la castità e vedere la propria relazione risplendere ogni giorno di una luce serena che li accompagna al matrimonio illuminando la volontà di Dio: un fidanzamento "potato", tagliato nei rami secchi della concupiscenza e dell'egoismo impaziente, un fidanzamento che cresce rispettoso, prudente, avvolto di santo timore, protetto dal pudore.
Il "frutto" di un matrimonio santo, aperto alla vita, nel dono libero e totale di sé, "potato" nei rami secchi dell'infedeltà quotidiana all'unica sposa e all'unico sposo, quella che difende il proprio tempo e afferma violentemente i propri criteri.
Il "frutto" di un lavoro "potato" attraverso le difficoltà e le ingiustizie e, per questo, che diviene un'occupazione nella quale offrirsi per i colleghi, per i superiori e gli inferiori, rintracciando in ogni mansione il momento favorevole per aprirsi agli altri e far gustare il proprio sapore unico e inconfondibile dell'amore di Cristo.
Il "frutto" dello studio "potato" della pigrizia e dell'idolatria di voti e risultati che lo fa offrire a se stessi, nel quale apprendere a non fare la propria volontà, a soffrire per compiere quella di Dio, la libertà di chi non è più schiavo del dover fare sempre e solo quello che piace, consola e costruisce se stessi; lo studio che prepara a un futuro di amore autentico, al lavoro e alla famiglia. 
Che Dio ci doni di “diventare suoi discepoli", che lo seguono ascoltando umilmente le "sue parole" che ci "purificano" dall'idolatria, "osservandole", cioè custodendole e curandole perché diano frutto. E ciò avviene solo attraverso un serio cammino di iniziazione cristiana nella Chiesa, nel quale crescere sino alla statura adulta della fede per imparare a "rimanere" nel torchio della storia: stretti alla Croce di ogni giorno, pigiati completamente dalle difficoltà, dalle sofferenze e dagli imprevisti che, proprio perché ci spremono, costituiscono l'occasione grazie alla quale il succo di vita che Cristo depone in noi possa dissetare il mondo.

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Una decisione per la vita: rimanere in Cristo, la Vite vera

Lectio Divina sulle letture per la V Domenica di Pasqua (Anno B) - 3 maggio 2015


Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture per la V Domenica di Pasqua (Anno B).
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1) Rimanere in ….
Nel Vangelo di oggi Cristo dice di se stesso che è la Vite e invita i discepoli - di allora e di oggi - a rimanere in Lui come Lui rimane in noi. La prima risposta a questo invito  è di chiederGli di darci la grazia di essere degni del fatto che Lui abiti in noi. L’audacia di questa domanda ha il suo fondamento in ciò che è stato detto da Dio stesso: Lui ha promesso di abitare, di rimanere nel cuore di chi è retto e sincero. “Un cuore che nessuna intenzione equivoca può sviare; un cuore fermo che resiste ad ogni avversità; un cuore libero che nessuna passione violenta può soggiogare” (cfr San Tommaso d’Aquino).
Il verbo “rimanere”[1] è un verbo chiave del quarto vangelo e significa prendere dimora, fondare un legame stabile, abitare.
Questo è il disegno di Dio: noi creature piccole, incoerenti e peccatrici, siamo chiamate ad essere la dimora di Dio.
Viene alla mente la meraviglia di re Salomone quando consacrò il tempio di Gerusalemme ed esclamò: “Ma è proprio vero che Dio abita in una casa sulla terra?” (1 Re 8, 27).
La meraviglia di Salomone non è niente di fronte allo stupore del cristiano per il fatto che Dio sceglie come sua dimora, come sua casa il nostro cuore, la nostra vita.
Questa decisione di Dio di farci sua dimora è stupenda, ma l’immensità dell’amore di Dio non può entrare nel nostro cuore, se Lui stesso non ci desse la grazia di accoglierlo. Quindi, non ci resta che domandare un cuore come quello di Maria, la Vergine Madre, l’umile Serva di Dio, la quale più di tutti ha fatto spazio nella sua vita al Signore, diventando anche fisicamente la Sua dimora di Dio.
L’importante è avere un cuore retto e sincero, come quello della Madonna, cioè un cuore che non ha altro desiderio, se non quello di essere una cosa sola con il Figlio di Dio venuto tra noi.
Per essere cristiani bisogna avere un grande e santo desiderio. È necessario desiderare con tutte le nostre forze di essere niente meno che il luogo in cui Dio abita, per poter noi stessi abitare in lui e, rimanendo in lui, avere i la sicurezza, la gioia, la misericordia e la pace.
Per dare un’immagine del rimanere, Gesù usa la metafora della vite e dei tralci: “Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla [...]. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli” (Gv 15,4-8). Il rimanere non è sterile, si riconosce dal fatto che porta frutto e questo frutto è l’amore e l’amore produce gioia.  Quindi credo sia giusto affermare che il vero frutto, segno della presenza di Dio, è la gioia. Appunto, la vite che produce il vino è il segno della gioia, dell’amore, del frutto che tutti dobbiamo produrre.
2) La vera Vite: Cristo, e noi in Lui.
L’affermazione di Gesù: “Io sono la vite” introduce una novità rispetto all'Antico Testamento, dove si afferma che Dio ha una vigna[2]  e si lamenta con la sua vite, cioè con il suo popolo: “Ma cosa ho fatto? Forse ho sbagliato qualcosa? Forse non ho avuto abbastanza cura di te? Perché mi fai questo e non produci i frutti?”.
Nell'Antico Testamento si parla di una vigna e di una vite che non sono all’altezza delle attese di Dio. Nel Nuovo Testamento si dice che Dio stesso è la vite. Nel Vangelo è insegnato che la vite è finalmente all’altezza delle attese di Dio, perché Gesù è la vite.
La vera vite è quella che produce frutto. Questa vite si contrappone alla vigna “falsa”, sterile, che non produce frutto.
E’ il dramma di Dio, non ha trovato un uomo che rispondesse al suo amore. Il primo uomo che risponde all’amore è il Figlio, il Figlio suo che diventa Figlio dell’uomo e lui è la vite, è il primo uomo che produce il frutto desiderato da Dio, che produce l’uva vera: il frutto dolce che è l’amore. Cristo è la vite che produce il frutto dell’amore del Padre e dei fratelli. Per questo è la vite vera.
E’ un dramma per Dio che questa vite non risponda alle sue cure, e si chiede: “Cosa dovevo fare che non abbia fatto?? E’ un vero dramma per Dio ed è questo dramma che verrà fuori anche nella parabola dei vignaioli come ci è raccontata da Marco al capitolo 12 e paralleli.
Questo dramma in Gesù si risolve, perché Lui è la vite, come Lui è la vita così Lui è la vite e produce frutto.
“Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla [...]. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli”. (Gv 15,4-8).
Il rimanere non è sterile, si riconosce dal fatto che porta frutti. I frutti principali sono il cambiamento e la gioia che lo stesso rimanere gratuitamente provoca.
Il rimanere con Gesù implica - come dovere a livello di coerenza, ma prima e innanzitutto come conseguenza a livello dell’essere - vivere come Gesù: “Chi dice di dimorare in Lui, deve comportarsi come Lui si è comportato” (1 Gv 2,6).  A questo punto, sorge una domanda ovvia: “Come è possibile comportarsi come Cristo, vero uomo ma anche vero Dio, l’Innocente che muore per i colpevoli?”. Restando attaccati a Lui, come tralci alla vite. In effetti, Gesù dice anche a noi: “Io-Sono la vite, voi i tralci”. Quindi se restiamo attaccati a Lui, allora portiamo molto frutto, cioè il suo stesso frutto, abbiamo la sua a stessa vita di Figlio, il suo stesso amore per il Padre, il suo stesso amore per i fratelli. Se restiamo uniti a Lui continuiamo la sua opera e la sua opera è dare vita e dare amore; se ci separiamo da Lui distruggo la sua opera e diamo frutti di morte.
Ma allora, come rimanere in lui? Come perseverare in questa adesione a Lui, vincendo la fragilità della nostra povera natura umana ferita ed infedele?.
Prima di tutto, chiedendo questo dono di “rimanere il lui”, Amore che diventa la nostra casa. Se non chiediamo, se non siamo mendicanti dell’Amore, non possiamo riceverlo in dono.
In secondo luogo, se cresciamo nella consapevolezza che per vivere in questa casa, dobbiamo abitarvi con il cuore pieno di riconoscenza. Dunque il sentimento da coltivare è la gratitudine, perché un cuore grato è un cuore fedele, lieto di essere amato da Dio e di amare i fratelli, lieto di essere amico di Cristo, che non vuole servi ma amici.  Ed essere amici di Gesù vuol dire accettare la sua Persona, vuol dire accettare il suo amore per noi, vuol dire amarLo e amare il nostro prossimo.
Un esempio speciale di questa accettazione di Cristo, di questa adesione a Lui è quello delle Vergini consacrate nel mondo. Queste donne sono chiamate ad essere nel mondo testimoni della fedeltà di Dio che è il custode della loro.
Fedeli alla Parola rivolta a loro da Dio fin dal giorno del battesimo e che nel tempo ha preso la forma di una chiamata a vivere la vocazione cristiana nella forma particolare della consacrazione verginale.
Fedeli come spose al loro Sposo, perché la caratteristica delle dell’Ordo Virginum che è quella di vivere il loro essere spose di Cristo nella vigilante custodia della promessa di Gesù: “Sì, vengo presto!” (Ap 22,20) e nell’essere voce che, nella gratuità, responsabilità e libertà pura delle relazioni, grida alla Chiesa e al mondo: “Ecco lo Sposo! Andategli incontro!” (Mt 25,6).
Fedeli a Cristo, le donne dell’Ordo Virginum sono portatrici della Parola dell’Amato. E’ dall'amore sempre fedele di Dio che esse attingono forza nel perseverare nell’abbraccio la verginità per il Regno dei cieli (Mt 19,12) e si impegnano a vivere ogni giorno con autenticità e concretezza quell'Amore che manifesta il volto di Dio.
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NOTE
[1] Il verbo rimanere (μένειν, menein,) s’incontra 118 volte nel Nuovo Testamento, di cui soltanto 12 nei Vangeli sinottici, 17 in Paolo e ben 67 nel Vangelo e nelle Lettere di Giovanni. Il termine appare il più delle volte (43 dei 67 casi) nell’espressione composta rimanere in. Direi che si possono distinguere tre modalità dell’uso del verbo rimanere e delle espressioni ad esso collegate: innanzitutto l’uso semplicemente biografico-spaziale, connesso alla descrizione degli spostamenti di Gesù nella sua missione pubblica. In secondo luogo le espressioni che ricorrono nei racconti degli incontri evangelici, come quelli con Giovanni e Andrea (Gv 1,38-39) e con i samaritani (Gv 4,40-42). E infine le formule contenute nei discorsi di Gesù o nelle Lettere: si tratta di inviti rivolti ai discepoli a rimanere in Lui, rimanendo nella sua parola e nel suo amore. Ci sono affermazioni in cui è indicato insieme il rapporto di Gesù con i discepoli e il rapporto di Gesù con il Padre e la comunione con il Padre e con il Figlio che è sperimentata dai discepoli.
[2] Si vedano, per esempio, Isaia 5, 1-7, il Salmo 80 e Osea 10.