lunedì 8 giugno 2015

Chi si lascia ferire dalla realtà



di Andrea Tornielli
Il momento più intenso del viaggio-lampo di sole undici ore di Papa Francesco a Sarajevo è stato l’incontro con i preti, i religiosi e le religiose avvenuto nella cattedrale della capitale bosniaca il pomeriggio di sabato 6 giugno. Qui Bergoglio ha ascoltato tre testimonianze. Quelle di don Zvonomir Matijevic, del francescano fra’ Jozo Puskaric e di suor Ljubica Sekerija: un prete, un frate, una suora. Tre racconti semplici delle sofferenze che quei consacrati hanno subito durante la guerra fratricida degli anni Novanta. E i persecutori avevano in due casi il volto dei miliziani serbi, dunque di altri cristiani: un significativo monito a non cadere nelle semplificazioni di chi è abituato a leggere tutto, spesso interessatamente, in chiave di scontro tra cristianesimo e islam. Mentre in un altro caso, quello di suor Ljubica, si trattava di miliziani musulmani (anche se la religiosa ci ha tenuto a precisare che si trattava di guerriglieri «d’importazione», dunque non bosniaci).
I tre testimoni hanno parlato con la voce rotta dall’emozione, a volte incespicando nella lettura, come quando fra’ Jozo, dopo aver descritto la vita nel campo di concentramento, ha detto al Papa: «Confesso davanti a lei che una volta ho desiderato morire per porre fine alla mia agonia. Mi hanno minacciato di scorticarmi vivo, di strapparmi le unghie e di mettere il sale sulle mie ferite… Una volta mi è stato talmente difficile resistere che ho pregato la guardia di uccidermi». E ha concluso dicendo: «Sono particolarmente grato al Signore perché non ho mai provato odio per i miei aguzzini. Io li ho perdonati…». O come quando don Zvonomir ha raccontato di essere sopravvissuto anche grazie all’aiuto di una donna musulmana di nome Fatima, che gli portava di nascosto del cibo. O ancora, quando suor Ljubica ha raccontato di quando uno dei suoi aguzzini, invece di percuoterla, le ha portato un frutto.
Proprio com’era accaduto a Tirana, durante l’incontro con altri preti e suore martiri, le parole di questi testimoni non contenevano neanche un accento di rivalsa, di ripicca, di vendetta, di odio. Soltanto amore e perdono. E la capacità di scorgere semi di bene anche nei persecutori. O in quella donna musulmana che portava aiuto di nascosto a un prete cristiano perseguitato da altri cristiani.
Francesco ha ascoltato in silenzio, commosso. Ha abbracciato a lungo i tre consacrati, ai due sacerdoti si è chinato a baciare la mano e i polsi con le cicatrici delle ferite. Poi ha rigirato tra le mani fogli del discorso «pre-fatto», e ha deciso di consegnarlo al cardinale Vinko Puljic senza leggerne nemmeno una riga. Non perché ci fossero problemi di contenuto, ma perché il Papa si è lasciato «ferire» dalla realtà, dal racconto vivo impastato di lacrime di quei testimoni della fede che hanno subito la persecuzione. Si è lasciato mettere in discussione, si è lasciato spiazzare dalle loro parole semplici e vere nelle quali era descritto il cuore del martirio dei cristiani che si conformano al «primo martire» Gesù e salgono il loro Calvario senza mai odiare. Francesco ha considerato semplicemente inadeguate le parole giù scritte di fronte alla circostanza, al momento, all’accadere di quella comunicazione così autentica. E ha deciso, altrettanto semplicemente, di reagire lasciando fluire dal cuore «ferito» la sua risposta.
Ha parlato della necessità di ricordare sempre la fede «degli antenati», di chi ci ha preceduto, di chi ha sofferto. Per relativizzare – ecco il sano relativismo cristiano – tanti problemi, tante piccole e grandi beghe, tante rivendicazioni di bottega, tante questioni autoreferenziali che assillano il corpo ecclesiale. Di fronte a quella sofferenza e a quella fede semplice e vera testimoniata, molto dell’affanno quotidiano di tanti nella Chiesaappare semplicemente ridicolo, anzi «mondano», come ha detto Francesco.
Il Papa ha aggiunto: «Vorrei dirvi che questa è stata una storia di crudeltà, che oggi in questa guerra mondiale vediamo tante, tante crudeltà! Fate sempre il contrario della crudeltà. Abbiate atteggiamenti di tenerezza, di fratellanza, di perdono, e portate la croce di Gesù Cristo. La Chiesa, la santa Madre Chiesa vi vuole così: piccoli, piccoli martiri davanti a questi martiri, piccoli testimoni della croce di Gesù». È un’indicazione a non rispondere con la vendetta, e a non mostrare i muscoli, ma a seguire la via del «primo martire». È l’invito a non strumentalizzare mai le persecuzioni dei cristiani per fini ideologici, a non cadere del «persecuzionismo», a rivestirsi degli stessi sentimenti di Cristo.
Ma la decisione del Papa di lasciarsi «ferire» e mettere in discussione dalla realtà contiene un’indicazione che va al di là dell’esempio specifico dei perseguitati e dei martiri. Un’indicazione per tutti, che potrebbero far propria ad esempio quei vescovi e quei preti che invece di lasciarsi «ferire» e mettere in discussione dalla testimonianza del Papa e dal suo modo di essere vicino alle persone, si preoccupano di ribadire le loro preoccupazioni sulla gente che non li segue, oppure di far rientrare tutto nelle loro pre-comprensioni. Riportando sempre ogni cosa, ogni provocazione, ogni realtà spiazzante, ai propri schemi predefiniti. Perché tutto continui come prima. Magari in attesa che l’«anomalia» rappresentata da una parola o da un esempio del Papa, come da ogni altra provocazione che arriva dalla realtà, passi senza lasciare traccia. Scorra via senza lasciare un segno. E tutto possa al più presto tornare come prima, nel guscio delle piccole certezze acquisite, dietro la rassicurante corteccia delle frasi fatte sulla pastorale, sull’evangelizzazione, sui valori, sul mondo.
Dimenticando che anche Gesù si è lasciato commuovere fin nelle viscere, si è lasciato «ferire» dalla realtà, si è lasciato strappare miracoli. Ha saputo dire «donna, non piangere», ha saputo abbracciare, perdonare, effondere misericordia. Ha pianto. Perché era un Dio con il cuore di carne, che ai drammi umani non rispondeva con la fredda elencazione delle perfette dottrine dei dottori della legge, con la ripetitività delle formule o l’algida geometria degli schemi pastorali che ancora oggi, nella Chiesa, creano tanta auto-occupazione e fanno sì che il Verbo, invece di farsi carne, si faccia troppo spesso soltanto carta.