lunedì 8 giugno 2015

Chi sono io per lamentarmi?


Giovanni Marian Vian: Passato e futuro

Da Tirana a Sarajevo le visite in Europa di Papa Francesco mostrano con evidenza la sua scelta di andare là dove, in anni non così lontani, la sofferenza è stata più grande. E lo si è capito subito dalla decisione di compiere il primo viaggio del pontificato a Lampedusa – luogo simbolo delle ricorrenti tragedie dell’immigrazione di fronte alle quali non è lecito restare inerti o chiudersi, come troppo spesso si verifica – e dai discorsi che il Pontefice ha pronunciato a Strasburgo davanti alle istituzioni europee per incoraggiare i politici a prendersi cura delle fragilità del continente

Messaggero di pace in un Paese dove ancora si soffrono le conseguenze del primo grave conflitto europeo dopo la fine della seconda guerra mondiale, Bergoglio ha ripetuto ai responsabili politici – ma rivolgendosi a ogni abitante della Bosnia ed Erzegovina – che la pace va costruita giorno per giorno, con la pazienza e la passione degli artigiani. E per questo ha pregato, in particolare durante la messa che ha riunito la minoranza cattolica, perseguitata e negli ultimi tempi ridotta di numero ma che ha saputo e sa testimoniare la fede con il perdono.
E toccante, come già era avvenuto a Tirana, è stato l’incontro in cattedrale con le religiose, i religiosi e il clero, aperto dagli interventi di don Zvonimir Matijević, fra Jozo Puškarić e suor Ljubica Šekerija: storie in prima persona di persecuzione e di martirio, eppure rischiarate da gesti di umanità di una donna musulmana e persino di uno dei persecutori. Visibilmente commosso, il Papa ha abbracciato e baciato i tre testimoni, ormai anziani e segnati dalle gravi conseguenze delle violenze subite.
Consegnato il discorso preparato, il Pontefice ha svolto una meditazione: sono testimonianze di “vite degne di Gesù Cristo”, che “parlano da sole” e che non vanno dimenticate ma “per fare pace, per amare come i perseguitati hanno amato”, trasmettendo e vivendo la fede. È stata una storia di crudeltà, ma “voi fate sempre il contrario, con la tenerezza, seguendo l’esempio di questi martiri” ha detto il Papa. Nella memoria del passato, per costruire – insieme ai credenti cristiani, musulmani ed ebrei con i quali si è poi incontrato – un futuro diverso, di pace.
Futuro che Bergoglio ha intravisto nell’ultimo incontro, quello con centinaia di giovani non solo cattolici, che lo hanno interrogato e ai quali ha risposto su uno dei temi che più riguardano la società contemporanea, quello della comunicazione mediatica, sempre più pervasiva. Parlando della propria esperienza e guardando negli occhi i suoi giovani interlocutori il Papa non ha demonizzato i nuovi media ma ha detto che bisogna scegliere e che si deve saper scegliere perché in ballo sono la libertà e la dignità.
E la consegna lasciata ai giovani di Sarajevo non riguarda certo solo la città martoriata né solo la Bosnia ed Erzegovina. Guardando al futuro – ha detto Bergoglio – non vanno costruiti muri ma soltanto ponti. Per affrettare, nel difficile e lungo inverno che sembra non finire, una nuova primavera nella quale sbocci la pace.
L'Osservatore Romano
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Non bastano le parole. ​Durante il volo di ritorno il Pontefice denuncia l’ipocrisia di chi chiede la pace e fomenta la guerra

Durante il volo da Sarajevo a Roma, Papa Francesco ha incontrato i giornalisti a bordo dell’aereo, in una conferenza introdotta dal direttore della Sala stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi. Ne riportiamo la trascrizione.
[Silvije Tomašević] Buonasera, Santità, qui sono arrivati naturalmente molti croati in pellegrinaggio, che chiedono se Sua Santità verrà in Croazia... Ma siccome siamo in Bosnia ed Erzegovina c’è anche un grande interesse per il giudizio sul fenomeno di Medjugorje...
Sul problema di Medjugorje Papa Benedetto xvi, a suo tempo, aveva fatto una commissione presieduta dal cardinale Camillo Ruini; c’erano anche altri Cardinali, teologi e specialisti lì. Hanno fatto lo studio e il cardinale Ruini è venuto da me e mi ha consegnato lo studio, dopo tanti anni — non so, 3-4 anni più o meno. Hanno fatto un bel lavoro, un bel lavoro. Il cardinale Müller [Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede] mi ha detto che avrebbe fatto una “feria quarta” [un’apposita riunione] in questi tempi; credo sia stata fatta l’ultimo mercoledì del mese. Ma non sono sicuro... [Nota del p. Lombardi: in effetti non vi è stata ancora una feria quarta dedicata a questo tema] Siamo lì lì per prendere delle decisioni. Poi si diranno. Per il momento si danno soltanto alcuni orientamenti ai vescovi, ma sulle linee che si prenderanno. Grazie!
[Silvije Tomašević] E la visita in Croazia?
La visita in Croazia? Non so quando ci sarà. Adesso mi ricordo la domanda che mi avete fatto quando sono andato in Albania: «Lei incomincia la visita in Europa da un Paese che non appartiene alla Comunità Europea»; e io ho risposto: «È un segno. Io vorrei incominciare a fare le visite in Europa, partendo dai Paesi più piccoli, e i Balcani sono Paesi martoriati, hanno sofferto tanto!». Hanno sofferto tanto... E per questo la mia preferenza è qua. Grazie!
[Anna Chiara Valle] Lei ha parlato di chi deliberatamente fomenta il clima di guerra, e poi ha detto ai giovani: ci sono i potenti che parlando apertamente di pace e sottobanco commerciano le armi. Ci può approfondire un po’ di più questo concetto?
Sì c’è l’ipocrisia, sempre! Per questo ho detto che non è sufficiente parlare di pace: si deve fare la pace! E chi parla soltanto di pace e non fa la pace è in contraddizione; e chi parla di pace e favorisce la guerra — per esempio con la vendita delle armi — è un ipocrita. È così semplice...
[Katia Lopez] Santo Padre, nel suo ultimo incontro con i giovani ha parlato dettagliatamente della necessità di fare molta attenzione a quello che leggono, a quello che vedono: non ha detto esattamente la parola “pornografia”, ma ha detto “fantasia cattiva”. Può approfondire un po’ questo concetto della perdita di tempo?
Ci sono due cose differenti: le modalità e i contenuti. Sulle modalità, ce n’è una che fa male all’anima ed è l’essere troppo attaccato al computer. Troppo attaccato al computer! Questo fa male all’anima e toglie la libertà: ti fa schiavo del computer. È curioso, in tante famiglie i papà e le mamme mi dicono: siamo a tavola con i figli e loro con il telefonino sono in un altro mondo. È vero che il linguaggio virtuale è una realtà che non possiamo negare: dobbiamo portarla sulla buona strada, perché è un progresso dell’umanità. Ma quando questo ci porta via dalla vita comune, dalla vita familiare, dalla vita sociale, ma anche dallo sport, dall’arte e rimaniamo attaccati al computer, questa è una malattia psicologica. Sicuro! Secondo: i contenuti. Sì, ci sono cose sporche, che vanno dalla pornografia alla semi-pornografia, ai programmi vuoti, senza valori: per esempio programmi relativisti, edonisti, consumistici, che fomentano tutte queste cose. Noi sappiamo che il consumismo è un cancro della società, il relativismo è un cancro della società; di questo io parlerò nella prossima Enciclica, che uscirà entro questo mese. Non so se ho risposto. Ho detto la parola “sporcizia” per dire una cosa generale, ma tutti sappiamo questo. Ci sono genitori molto preoccupati che non permettono che ci siano i computer nelle stanze dei bambini; i computer devono essere in un posto comune della casa. Questi sono piccoli aiuti che i genitori trovano per evitare proprio questo.
Il Pontefice ha poi aggiunto:
Vi ringrazio per il lavoro, per la vostra fatica in questo viaggio... Grazie tante del vostro lavoro, grazie tante! E pregate per me, grazie!
Rispondendo infine a una domanda di Caroline Pigozzi sulla possibilità di un viaggio in Francia il Papa ha detto:
Sì, sì, io ho in programma di andare in Francia. L’ho promesso ai vescovi. No, non ci sono problemi. I piccoli problemi non sono un problema.
L'Osservatore Romano
*Da Sarajevo a Loreto: chi sono io per lamentarmi?
di Riccardo Cascioli

C’è soprattutto un momento della visita a Sarajevo di Papa Francesco che vale la pena tenere vivo nella memoria. Sono state le testimonianze di un prete, un frate e una suora che hanno raccontato la loro personale terribile esperienza durante la guerra dei Balcani tra il 1992 e il 1995. Racconti che hanno dato un’altra consistenza a quel grido risuonato anche in questo viaggio del Papa: «Mai più la guerra»; un’altra consistenza a quell’impegno per la pace che papa Francesco intende testimoniare. Riprendo alcuni passaggi:
«La Domenica delle Palme, il 12 aprile 1992, dopo la messa i soldati mi hanno catturato e portato nella città di Knin, nella vicina Croazia. Più volte mi hanno percosso fino al punto di farmi perdere conoscenza a causa del dolore. Hanno cercato di farmi dire, pubblicamente in televisione, che sono un criminale di guerra, che i sacerdoti sono criminali e che educano criminali. Quando hanno capito che sarei stato pronto a morire piuttosto che pronunciare queste menzogne, mi hanno portato davanti al comandante militare. Ho camminato con molta fatica. Le manette erano così strette ai polsi che ancora oggi ne porto i segni. Al comandante era chiaro che non avrei resistito a lungo. Quindi hanno deciso di portarmi in ospedale in fin di vita… Tante volte ho perso conoscenza. (…) A causa di questa esperienza ora sono affetto da sclerosi multipla che è una croce per tutta la vita. (…) Ma io perdono di cuore tutti coloro che mi hanno fatto del male e prego per loro affinché Dio misericordioso li perdoni ed essi si convertano verso un cammino di bene» (don Zvonimir Matijevic)".
«Il 14 maggio 1992 poliziotti serbi sono arrivati nella casa parrocchiale e mi hanno portato al campo di concentramento, insieme a molti miei parrocchiani, pur non avendo fatto nulla di male. La parrocchia, a Bosanski Samac, è rimasta senza popolazione e la maggior parte delle case distrutte. A quaranta anni ho trascorso quattro mesi nel campo di concentramento. Il tempo nel campo di concentramento non si conta per mesi, ma secondo i giorni, le ore, i secondi.I giorni erano molto lunghi perché erano pieni di incertezza e di paura. 120 giorni sono stati come 120 anni o più. Abbiamo vissuto in condizioni disumane! Per tutto il tempo abbiamo patito la fame e la sete; in tutti quei giorni e quelle notti abbiamo vissuto senza le minime condizioni igieniche, senza poterci lavare, rasare, tagliare i capelli; ogni giorno venivamo maltrattati fisicamente, picchiati, torturati con diversi oggetti, con le mani e con i piedi... Colpendomi, mi hanno rotto, tra l'altro, tre costole» (fra Jozo Puskaric)
«Quando è scoppiata la guerra, sono comparsi miliziani stranieri provenienti da alcuni paesi arabi del Medio Oriente", "i miliziani hanno costretto don Vinko a calpestare il mio rosario con le sue scarpe. Lui ha rifiutato. Uno dei miliziani, sguainando la sua spada, ha minacciato il parroco di massacrarmi se non avesse calpestato e profanato il rosario. Allora ho detto al parroco: "Don Vinko, lasciate pure che mi uccidano, ma, per l'amore di Dio, non calpestate il nostro oggetto sacro".  "In quei momenti difficili, don Vinko ci ha detto sottovoce: 'Non temete, vi ho dato l'assoluzione a tutti. Ora siamo pronti a morire in pace! … Quella notte ci hanno picchiato tutti; A un certo punto ho sentito la canna del fucile sulla mia fronte e una voce che mi ordinava di confessare l'Islam come unica e vera religione. Ero spaventata ma restavo zitta, e la stessa voce mi ha ordinato di non riferire a nessuno quelle cose, altrimenti la mia testa sarebbe finita all'inferno. Ho pensato che fosse arrivato il momento della mia morte. (…) Per quanto i nemici siano stati insensibili e malvagi, ha sovrabbondato la grazia di Dio su di noi». (suor Ljubica Sekerija)
Questi racconti sono stati così veri, così pieni di dignità e speranza da indurre anche il Papa ad abbandonare i fogli con il discorso già preparato e improvvisare un intervento, in cui ha invitato tutti a ricordare, la «memoria dei martiri» l’ha chiamata. Per covare la vendetta? No, ricordare per fare la pace. Può sembrare assurdo, ma anche questo è il paradosso cristiano. Il perdono non nasce dal “dimenticare le offese”, ma dal ricordarle. La pace mondana, infatti, può essere solo il frutto di compromessi, si mette da parte qualcosa di sé per poter andare d’accordo con gli altri: vale per i rapporti personali così come per quelli degli Stati.
Ma la pace che questi religiosi hanno testimoniato è un’altra cosa, nasce dall’associare le proprie sofferenze, le sofferenze di ogni uomo, a quelle di Cristo. Lo ha spiegato bene un’altra testimonianza che quasi contemporaneamente veniva ascoltata da oltre 100mila pellegrini sulla sponda opposta dell’Adriatico, i partecipanti al pellegrinaggio Macerata-Loreto. Si tratta di un altro prete, padre Douglas Bazi, parroco di Erbil, in Iraq, città dove hanno trovato rifugio migliaia di cristiani costretti ad abbandonare la piana di Ninive a causa dell’arrivo dell’ Isis. Per padre Douglas quelle violenze non sono ancora una memoria, bensì la sua realtà quotidiana:
«È un tempo di guerra, è un tempo di crisi e di persecuzione quello che stiamo vivendo ora. Personalmente mi hanno cacciato, hanno fatto esplodere la mia chiesa, mi hanno sparato a una gamba, ho perso la mia comunità, sono stato rapito per nove giorni, sono sopravvissuto a due attacchi con le bombe, sono ancora sopravvissuto a un attacco alla chiesa durante la messa: nonostante tutto questo, chi sono io per lamentarmi? Mettiamo la nostra mano su quella di Dio». E ancora: «Dobbiamo smettere di lamentarci, perché Gesù ha offerto la vita per noi col suo sacrificio..» «Apparteniamo a Dio, non apparteniamo a nessun altro. Dio è il nostro modello. Noi dobbiamo seguire il nostro maestro perché noi esistiamo ancora. Fratelli e sorelle, perché i cristiani esistono ancora nel mio paese? Semplice, perché noi apparteniamo a Cristo, non a questa terra. Io non sono sorpreso dal fatto che ci attacchino, ma sono sorpreso per il fatto che la mia gente ancora sopravvive. E noi sopravviviamo perché apparteniamo a Gesù. Non apparteniamo a un settarismo o a gente che vuole portarci da qualche parte. Gesù è il nostro scopo. (…) Noi siamo pronti al sacrificio. Ma ricordate anche che noi siamo una parte del corpo e il capo di quel corpo è Gesù Cristo. Ora siamo nella sofferenza e nella persecuzione e voglio che sappiate che ci uccideranno e non smetteranno di ucciderci; forse non avrò più un’altra occasione di parlare con voi, ma sono certo che non possono cambiare la nostra mente, perché la nostra mente è collegata col cuore. Vi chiedo di restare uniti a noi nella preghiera perché i credenti con la preghiera possono abbattere qualsiasi porta chiusa».
Non c’è nulla da aggiungere, solo tenere viva la memoria di questi martiri perché anche noi possiamo imparare ad affrontare la vita con la coscienza che la pace, la speranza nasce solo dall’appartenenza a Cristo.

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La geopolitica di Francesco e il dialogo 

(Silvia Ronchey) “Una terza guerra mondiale combattuta a pezzi” l’ha definita Bergoglio nell’omelia tenuta sabato mattina allo stadio olimpico Koševo di Sarajevo durante l’oceanica messa gremita di reduci della guerra che ha insanguinato i Balcani negli anni ’90 del Novecento. Così, con l’usuale raffinatezza di un linguaggio solo apparentemente semplice, di una comunicazione intellettuale a più livelli, in contrapposizione a quello che ha definito “il clima di guerra della comunicazione globale”, papa Francesco ha fotografato lo scenario bellico su cui si è aperto il terzo millennio e rinominato il conflitto cui è stata applicata da molti, non ultimo il precedente papa, la contestabile nozione di scontro di civiltà.
“Scontro fra culture” al plurale, ha concesso Bergoglio, può se mai definirsi la guerra in corso. Non ci si aspetta di meno da un papa colto che ha fatto dell’understatement la propria cifra e del sottotesto il proprio mezzo; che ha adottato il motto di Ignazio di Loyola e di Hölderlin: Non coerceri maximo, contineri minimo, divinum est , “Scavalco il grande confinandomi nel piccolo”; che battendosi contro il “tomismo decadente” ha rivendicato il manifestarsi di dio nella rivelazione storica; il cui programma affonda nei millenni e guarda all’eredità dell’ellenismo e di Bisanzio, dunque all’ecumenismo come priorità; che sul dialogo interconfessionale, prima e oltre che interreligioso, gioca la sua partita a scacchi col secolo.
Il pontificato di Bergoglio è in questo senso erede diretto di quello del “papa geopolitico” Wojtyla. Dopo il definitivo esaurirsi nel secolo breve del fantasma imperiale postbizantino il blocco ottomano caduto al suo inizio, nel conflitto innescato proprio a Sarajevo, quello russo-sovietico dissolto alla sua fine, con la caduta del muro e il golpe di Eltsin — il millennio si è aperto su un nuovo scenario di conflitto. La Terza Guerra Mondiale a Pezzi di Bergoglio è molteplice, scava più solchi, dischiude più fronti; faglie di attrito antichissime ricominciano a entrare in moto complesso; un unico macroscopico sussulto tellurico scuote i Balcani, il Caucaso, la Mesopotamia, dilaga nel Medio Oriente, destabilizza e arroventa pezzo a pezzo le aree geografiche in cui i due imperi avevano imposto identità unitarie trasversali sia alla divisione stereotipa tra oriente e occidente, sia a quella tra religioni. È allora che si insinua nella fantasia collettiva l’idea di uno scontro frontale di civiltà tra oriente islamico e occidente cristiano.
Un’idea che Bergoglio rifiuta. Lo indica già in sé la mossa del cavallo con cui ha fatto slittare il discorso sull’islam allo scacchiere balcanico e partire il messaggio da Sarajevo, covo di antichi demoni e città martire dall’uno all’altro capo del Novecento, menzionando le sue diversità etniche e religiose, sottolineando la sua sofferenza storica, definendola “la Gerusalemme dell’occidente” con l’antico linguaggio che i papi rinascimentali applicarono a Costantinopoli nel primo frangente geopolitico che cinque secoli fa, a metà del quindicesimo, fece riflettere l’élite della curia romana sulla sorte degli equilibri mondiali alla prima islamizzazione ottomana dei Balcani.
Non è un caso che Bergoglio lanci il suo messaggio alla vigilia del G7, dove sia sulla questione ucraina, sia sui dossier Libia, Iraq e Siria il principale invitato è quello assente: il convitato di pietra Putin. Nella Terza Guerra Mondiale a Pezzi l’area slavo-balcanica interseca alla memoria islamica il più decisivo interlocutore di Bergoglio: la chiesa ortodossa, assuefatta a una perdurante fedeltà politica alla sfera russa, che già nel ’99 Julia Kristeva analizzava su Le monde partendo dalla millenaria alterità teologica tra chiesa d’oriente e d’occidente sintetizzabile nella contesa trinitaria sulla processione dello Spirito Santo. Il problema di Francesco, più ancora che quello della jihad, è quello del Filioque. È il risanamento dello scisma tra le chiese cristiane, prima ancora del patteggiamento tra cristianesimo e islam, a pesare nell’agenda del papa che per primo dopo Wojtyla, con raffinatezza gesuitica, ha ripreso il filo della geopolitica.
La Repubblica