sabato 13 giugno 2015

La meditazione e il colloquio del Papa. Una stessa Pasqua




La Chiesa cattolica è disposta a stabilire una data comune per la Pasqua, in modo che cattolici, ortodossi e protestanti possano festeggiare la risurrezione di Cristo nello stesso giorno. A confermarlo è stato Papa Francesco, ricordando che già dai tempi di Paolo VI era stata considerata questa possibilità per la determinazione da parte delle diverse confessioni cristiane del giorno in cui si celebra la festa centrale dell’anno liturgico.
La questione del mancato accordo su una data comune per la Pasqua è stata uno dei passaggi centrali del lungo e articolato colloquio tra il Pontefice e i sacerdoti riuniti venerdì 12 giugno nella basilica lateranense. Per Francesco l’attuale situazione costituisce uno scandalo: «Quando resuscita il tuo Cristo? Il mio risuscita oggi, il tuo la settimana prossima» ha chiosato con una battuta, rivelando l’esistenza di contatti col patriarca di Costantinopoli Bartolomeo e con quello di Mosca Cirillo per raggiungere un’intesa.
Di «scandalo» il Papa ha parlato anche più in generale a proposito della divisione tra i cristiani. L’ecumenismo, ha rimarcato, non è un compito in più da fare ma un mandato d’amore affidato da Gesù ai cristiani nel momento in cui stava per essere consegnato alla morte. Si tratta dunque di ricercare l’unità del corpo di Cristo infranta dai peccati che nel corso dei secoli hanno allontanato cattolici, ortodossi, protestanti. In proposito il Papa ha invitato a guardare alla testimonianza dei martiri di oggi, dei tanti uomini e donne — ha ricordato ancora una volta i copti decapitati sulle coste libiche — morti a causa della fede. È l’ecumenismo del sangue. E chi uccide, ha ribadito, sa che il sangue è lo stesso: è il sangue di coloro che credono in Gesù.
Rispondendo poi a una delle cinque domande postegli da altrettanti preti dei vari continenti, Francesco ha confermato i buoni rapporti con il Patriarcato di Costantinopoli e i frequenti contatti con quello di Mosca. E ha confidato di nutrire grandi speranze nel Concilio panortodosso in programma nel 2016. Ex oriente lux, ex occidente luxus (“da oriente la luce, da occidente il lusso”) ha scandito per elogiare le risorse spirituali dell’oriente cristiano e per sottolineare che il futuro della Chiesa sta soprattutto in Asia: è chiaro, ha affermato, che relativismo, consumismo ed edonismo stanno provocando la decadenza dell’occidente, mentre il continente asiatico conserva grandi riserve spirituali. Il Pontefice ha poi annunciato il suo viaggio in Africa, nel novembre prossimo, che toccherà sicuramente la Repubblica Centroafricana e l’Uganda.
Nell’ampia riflessione introduttiva al dialogo con i preti il Papa si è soffermato soprattutto sull’identità e sulla vocazione sacerdotale. Che hanno come misura l’amore, perché il prete deve essere «un innamorato»: in primo luogo di Cristo, poi della Chiesa e di tutti i fratelli. Uomo donato agli altri, che non si tira indietro davanti alle difficoltà e non risparmia fatiche, il prete è una persona che conclude la giornata con la preghiera e si addormenta stanco anche davanti al Santissimo sacramento, come un bimbo in braccio a sua madre.
Amore, misericordia, perdono, tenerezza, testimonianza, coerenza di vita, senza dicotomia tra condotta e predicazione: sono gli atteggiamenti suggeriti da Francesco ai sacerdoti. Con i quali ha toccato diversi temi, invitandoli a riflettere sul loro ruolo nella Chiesa, sulla missione in mezzo al popolo di Dio, sul rapporto tra confratelli e superiori. Tutto incentrato sul filo conduttore dell’incontro: «Esseri trasformati dall’amore e per l’amore».
Uno degli obiettivi del Papa è stato quello di far comprendere l’importanza dell’unione tra i vescovi e i sacerdoti: il vescovo, ha raccomandato, deve essere prossimo, vicino al suo clero, anche quando c’è da discutere, senza frapporre distanze nei confronti dei presbiteri. Dove c’è prossimità, ha detto il Pontefice, c’è lo Spirito di Dio. E questa è una grazia che va invocata continuamente per ogni Chiesa particolare. Quello che salvò la Chiesa primitiva dalla divisione, ha ricordato, è stato proprio il coraggio di Paolo di dire le cose apertamente, e il coraggio degli apostoli di riunirsi e di discutere tra di loro.
Ringraziando in particolare alcune laiche presenti, Francesco ha ricordato che c’erano anche delle donne quando lo Spirito discese sugli apostoli. Il genio femminile nella Chiesa, ha detto, è una grazia, perché la Chiesa è donna: è sposa di Cristo, è madre del popolo di Dio. Le donne, ha aggiunto, sono immagine e figura della Chiesa e di Maria, che è molto più importante degli apostoli.
Nella riflessione del Pontefice è tornato il monito ai sacerdoti che di fronte alla gente si comportano come semplici funzionari o ligi osservanti della lettera della legge. Così come è risuonato nuovamente l’invito ad avere misericordia e tenerezza, senza doppiezza di cuore e di vita. È l’amore infatti la prima motivazione per annunciare il Vangelo. Il rischio da evitare è soprattutto quello del clericalismo, uno dei peccati che frenano la libertà della Chiesa coinvolgendo in un’unica complicità preti e laici.
Altro compito importante indicato dal Papa ai sacerdoti è stata la cura dell’omelia. C’è sempre il rischio di oltrepassare i limiti e snaturarne il valore: ci sono omelie che rappresentano eccellenti conferenze, lezioni di teologia, ma non arrivano al cuore della gente. L’omelia, ha ribadito, è un sacramentale. E come tale deve essere strutturata in modo semplice: puntando soprattutto sull’annuncio e sulle sue conseguenze per la vita del cristiano.
 

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Durante la messa con i sacerdoti il Pontefice parla della tenerezza di Dio. La frusta in sacrestia. E ricorda i martiri copti decapitati sulle coste libiche

Un migliaio tra preti, religiosi e religiose, laici e laiche, partecipanti al terzo ritiro mondiale sacerdotale organizzato dall’International Catholic Renewal Services e dalla Catholic Fraternity of Charismatic Covenant Communities and Fellowships, hanno accolto Papa Francesco, venerdì pomeriggio, 12 giugno, nella basilica di San Giovanni in Laterano. Dopo la meditazione a braccio in spagnolo e dopo aver risposto a cinque domande, il Pontefice ha presieduto la concelebrazione eucaristica, insieme con i cardinali Vallini e De Giorgi e alcuni vescovi, tra i quali George Bakouni, José Luis Azcona e Alberto Taveira, oltre ai relatori dell’incontro: Raniero Cantalamessa, Daniel Ange, Kevin Scallon, Jonas Abib, Joseph Malagreca, Livio Tacchini. Pubblichiamo qui di seguito il testo italiano dell’omelia pronunciata in spagnolo da Francesco.

Nella prima Lettura ci addentriamo nella tenerezza di Dio: Dio racconta al suo popolo quanto lo ama, quanto lo cura. Quello che Dio dice al suo popolo, in questa Lettura del profeta Osea, capitolo 11, lo dice a ciascuno di noi. E sarà bene prendere questo testo, in un momento di solitudine, metterci alla presenza di Dio e ascoltare: «Quando tu eri bambino, io ti ho amato; ti ho amato da bambino; ti ho salvato; ti ho portato dall’Egitto, ti ho salvato dalla schiavitù», dalla schiavitù del peccato, dalla schiavitù dell’autodistruzione e da tutte le schiavitù che ciascuno conosce, che ha avuto e che ha dentro. «Io ti ho salvato. Io ti ho insegnato a camminare». Che bello ascoltare che Dio che mi insegna a camminare! L’Onnipotente si abbassa e mi insegna a camminare. Ricordo questa frase del Deuteronomio, quando Mosè dice al suo popolo: «Ascoltate voi — sono così duri di testa! —: quando mai avete visto un dio tanto vicino al suo popolo, così come Dio è vicino a noi?». E la vicinanza di Dio è questa tenerezza: mi ha insegnato a camminare. Senza di Lui non saprei camminare nello Spirito. «E ti tenevo per mano. Però non hai compreso che ti guidavo, tu credevi che ti avrei lasciato solo». Questa è la storia di ciascuno di noi. «Io ti traevo con legami umani, non con leggi punitive». Con legami di amore, legature d’amore. L’amore lega, ma lega nella libertà; lega nel lasciarti lo spazio affinché tu risponda con amore. «Ero per te come chi solleva un bimbo alla sua guancia e lo bacia. E mi chinavo e gli davo da mangiare». Questa è la nostra storia, almeno è la mia storia. Ciascuno di noi può leggere qui la propria storia. «Dimmi, come ti posso abbandonare ora? Come ti posso consegnare al nemico?». Nei momenti in cui abbiamo paura, nei momenti in cui abbiamo insicurezza, Lui ci dice: «Se ho fatto tutto questo per te, come puoi pensare che ti lasci solo, che ti possa abbandonare?».
Sulle coste della Libia, i ventitré martiri copti erano sicuri che Dio non li avrebbe abbandonati. E si sono fatti decapitare pronunciando il nome di Gesù! Sapevano che Dio, mentre tagliavano loro la testa, non li avrebbe abbandonati.
«Come ti posso trattare come nemico? Il mio cuore si commuove dentro di me e si accende tutta la mia tenerezza». La tenerezza di Dio si accende, questa calda tenerezza: è l’Unico capace di una calda tenerezza. Non darò libero sfogo all’ira per i peccati che esistono, per tutte queste incomprensioni, per il fatto di adorare idoli. Perché io sono Dio, sono il Santo in mezzo a te. E’ una dichiarazione di amore di un padre a suo figlio. E a ciascuno di noi.
Quante volte penso che abbiamo paura della tenerezza di Dio e per il fatto che abbiamo paura della tenerezza di Dio non lasciamo che essa si sperimenti in noi stessi. E per questo tante volte siamo duri, severi, castigatori ... Siamo pastori senza tenerezza. Che ci dice Gesù nel capitolo 15 di Luca? Di quel pastore che notò che aveva 99 pecore e gliene mancava una. Le lasciò ben custodite, chiuse a chiave e andò a cercare l’altra, che era imprigionata tra i rovi ... E non la picchiò, non la rimproverò: la prese fra le sue braccia e la strinse e la curò, perché era ferita. Lo stesso fate voi con i vostri fedeli? Quando vi accorgete che manca uno nel gregge? O siamo abituati a essere una Chiesa che ha una sola pecora nel suo gregge e lasciamo che le altre 99 si perdano sul monte? Ti commuove tutta questa tenerezza? Sei un pastore di pecore o sei diventato uno che sta a «pettinare» l’unica pecora rimasta? Perché cerchi solo te stesso e ti sei dimenticato della tenerezza che ti ha dato tuo Padre, e te lo racconta qui, nel capitolo 11 di Osea. E ti sei dimenticato di come si dà tenerezza. Il Cuore di Cristo è la tenerezza di Dio. «Come posso farti venir meno? Come posso abbandonarti? Quando sei solo, disorientato, perso, vieni da me, e io ti salverò, ti consolerò».
Oggi chiedo a voi, in questo ritiro, di essere pastori con la tenerezza di Dio. Di lasciare la «frusta» appesa nella Sacrestia e di essere pastori con tenerezza, anche con coloro che vi creano più problemi. È una grazia. È una grazia divina. Noi non crediamo in un Dio etereo, crediamo in un Dio che si è fatto carne, che ha un cuore e questo cuore oggi ci parla così: «Venite a me. Se siete stanchi, oppressi e io vi darò ristoro. Ma i più piccoli trattateli con tenerezza, con la stessa tenerezza con cui li tratto io». Questo ci dice oggi il Cuore di Gesù Cristo, ed è ciò che in questa Messa chiedo per voi, e anche per me.
L'Osservatore Romano

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La mossa geo-politica del Vaticano 

(Franco Garelli) “Una data fissa per la Pasqua”. L’invito del Papa agli ortodossi. L’apertura del Pontefice ai patriarchi di Costantinopoli e Mosca. I due giorni oggi non coincidono a causa del calendario diverso -- Possono essere molte le ragioni sottese alla rivoluzionaria proposta di Francesco di stabilire una data fissa per celebrare la risurrezione di Cristo, in modo che ogni anno, nello stesso giorno, tutti i cristiani – cattolici, ortodossi o protestanti – vivano insieme la Pasqua. 
La prima è dare un segno di concretezza ad una istanza ecumenica che da tempo fatica ad andare oltre le buone intenzioni, dal momento che si scontra con differenze teologiche e di tradizione cristallizzate nel corso della storia e che persistono anche nell’epoca attuale. Come si sa, per il mondo cattolico la Pasqua è una festa mobile, e la sua data cambia di anno in anno, in quanto connessa al ciclo lunare. La Pasqua si celebra la domenica successiva alla prima luna di primavera, e viene sempre compresa nel periodo tra il 22 marzo e il 25 aprile. Gli ortodossi invece seguono il calendario giuliano, che prevede la ricorrenza della Pasqua in una data diversa da quella celebrata in Occidente. Si tratta di opzioni e di tradizioni differenti che al mondo secolarizzato di oggi possono apparire poco rilevanti, ma che invece per il popolo dei fedeli e per i cultori della tradizione mantengono un forte valore identitario. In altri termini, dietro le diverse sequenze del calendario vi è l’affermazione di specifiche identità confessionali, che si sono delineate nel tempo e impediscono il dialogo e la convergenza tra quanti professano l’unica fede in Gesù Cristo. Di qui la mano tesa del Papa soprattutto nei confronti delle Chiese ortodosse, con la disponibilità a trovare una data comune, in modo che a Roma, a Costantinopoli e a Mosca venga celebrata la Pasqua ogni anno nello stesso giorno. Ciò per evitare, nelle parole di Francesco, che i cattolici e gli ortodossi celebrino la Pasqua in giorni diversi; che gli uni festeggino la più grande festa dei cristiani quando gli altri ritengono che il Signore non sia ancora risorto.
Ma oltre ad essere dettata da ragioni ecumeniche, questa apertura del Pontefice sembra far parte della grande attenzione che Francesco riserva a ciò che accade a livello religioso e politico nel Medio Oriente e nell’Est europeo. E’ grande la preoccupazione del Papa non soltanto per le sorti delle comunità cristiane in Paesi e in territori in cui l’islam è fortemente maggioritario e in cui esse hanno problemi di sopravvivenza fisica; ma anche per il ruolo che le chiese ortodosse possono avere in nazioni (come la Russia e l’Ucraina) che sono al centro di conflitti identitari ed etnici. Di qui, l’attenzione - che oggi si arricchisce di un nuovo gesto - nei confronti del Patriarcato di Mosca e delle Chiese ad esso collegate perché venga ribadita la comune radice cristiana, al fine di rafforzare l’azione di pace e di riconciliazione in terre ricche di contrapposizioni. Ciò vale soprattutto per l’Ucraina, dove la confessione maggioritaria (la chiesa ortodossa cattolica) è chiamata dal Pontefice a svolgere un ruolo di maggior mediazione politica grazie alla sua duplice identità «ortodossa» e «cattolica».
Come sempre dunque in questo pontificato, un gesto religioso (come appunto la proposta di una data fissa per la Pasqua per tutti i cristiani) ha anche una forte valenza geo-politica. 

La Stampa, 13 giugno 2015

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La mano tesa del Papa alle Chiese d’Oriente e quella diatriba che dura da millenni. La lite sui calendari, incomprensibile per il mondo di oggi 
 Corriere della Sera 
(Luigi Accattoli) GRANDE SCISMA. Con il Grande Scisma o Scisma d’Oriente la Chiesa cattolica si separò da quella di rito ortodosso. La prima propugnava il primato del vescovo di Roma in quanto successore dell’apostolo Pietro, la seconda si riteneva la continuatrice della tradizione delle prime comunità di cristiani. Storicamente il Grande Scisma viene fatto risalire al 1054, anno in cui papa Leone IX scomunicò il patriarca Michele I Cerulario. Quest’ultimo rispose scomunicando a sua volta il Papa. In realtà la divisione fu il frutto di un conflitto e di dispute che si andavano trascinando da parecchi anni.

C’è del sale e c’è del pepe nella battuta di papa Francesco sulla data della Pasqua. Il sale attiene alla buona volontà di arrivare a un accordo su una materia che divide ancora il mondo cristiano per ragioni ormai incomprensibili alla cultura contemporanea. Il pepe sta nel tono tranciante dell’accenno: come a dire che non solo è tempo di accordarsi, ma è già tardi.
Nel 2016 dovrebbe riunirsi a Istanbul un Concilio Panortodosso, cioè di tutte le Chiese dell’Ortodossia. Il pressing di Francesco sulla data della Pasqua — è almeno la quarta volta che ne parla in pubblico da quando è Papa — mira a facilitare il compito al moderatore della convocazione panortodossa che è il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo: Francesco con la sua mano tesa permette a Bartolomeo (con il quale ha ripetutamente parlato della questione) di presentare alle Chiese Ortodosse una via relativamente spianata.
Ma sarebbe ingenuo immaginare che l’accordo possa arrivare in tempi rapidi: sulla data della Pasqua si battaglia tra cristiani occidentali e orientali dalla fine del secondo secolo e pur trattandosi di una questione minore, non bisogna dimenticare che spesso ai religiosi appare grande ciò che alla ragione laica parrebbe piccolo.
Tre sono i problemi principali che finora hanno impedito un accordo: la diversa maniera del computo astronomico della data, il conflitto tra Chiese che seguono il calendario giuliano (risalente a Giulio Cesare) e quelle che hanno adottato il calendario Gregoriano (da papa Gregorio XIII), la novità di stabilire una data fissa per una celebrazione che gli antichi consideravano mobile al fine di farla coincidere con il momento «lunare» nel quale Cristo riunì i dodici per l’Ultima Cena.
I cristiani hanno sempre inteso celebrare la Pasqua nel giorno della risurrezione di Cristo, che i Vangeli collocano a metà del mese ebraico di Nisan: al 14° giorno di questo mese cadeva la Pasqua ebraica, che dà il nome a quella cristiana. Subito nacquero divergenze su come trasferire ai calendari ellenistico-romani una datazione del calendario ebraico.
Il conflitto aperto tra Oriente e Occidente, che nei primi secoli produsse lacerazioni e scomuniche, risale a papa Vittore I (189-199) e al suo antagonista d’Oriente che fu Policrate vescovo di Efeso: Vittore voleva che la Pasqua fosse celebrata sempre di domenica, comunque venisse calcolato il «14 di Nisan»; secondo Policrate invece la Pasqua si sarebbe dovuta celebrare in qualsiasi giorno uscisse da quel calcolo, fosse o no domenica.
Il Concilio di Nicea stabilì nel 325 che la Pasqua coincidesse con la prima domenica successiva alla luna piena che viene dopo l’equinozio di primavera dell’emisfero Nord. La pace seguita a questa decisione – mai accettata da tutte le Chiese, ma fatta propria sia da Roma sia dalle principali comunità orientali – fu infranta dalla riforma del calendario: da allora (1582) le Chiese dell’Ortodossia continuano a calcolare e celebrare secondo il vecchio calendario, mentre la Chiesa Cattolica – seguita in questo da quelle protestanti – ha cambiato passo e le due date non solo non coincidono ma vanno sempre più distanziandosi per effetto del progressivo allontanamento del computo giuliano rispetto al più corretto – anche se non perfetto – metodo gregoriano.
I tentativi di arrivare a un accordo durano da quasi cent’anni. Una prima proposta nacque in campo laico negli anni 20 del secolo scorso, per iniziativa della Società delle Nazioni che suggerì a tutte le Chiese di fissare la Pasqua alla domenica successiva al secondo sabato di aprile. La proposta trovò favore negli ambienti protestanti, ma lasciò fredda la Chiesa Cattolica e contrarie le Chiese dell’Ortodossia.
Toccò poi al Vaticano II rilanciare la questione affermando – nella Costituzione sulla Liturgia (1963) – che la Chiesa di Roma «non ha nulla in contrario a che la festa di Pasqua venga assegnata a una determinata domenica nel calendario gregoriano». Ovviamente già il solo richiamo al calendario gregoriano provocò lo sgradimento degli orientali.
Da allora passi in avanti se ne sono fatti un po’ ovunque, ma restano ancora varie resistenze. Favorevoli a un accordo che fissi la data sono sia i cattolici sia i protestanti. Ancora legati al computo di una data variabile dipendente dalle fasi lunari sono invece gli orientali.
Corriere della Sera

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Il teologo Giovanni Cereti. “Una mossa per unire le confessioni” 
 La Repubblica 
(Paolo Rodari) «Mi sembra tutto molto chiaro: il vescovo di Roma Jorge Mario Bergoglio vuole la piena comunione con gli ortodossi e in generale con tutte le Chiese e le comunità cristiane; ogni passo utile in questo senso è da lui percorso e, nello stesso tempo, cercato, desiderato».Giovanni Cereti, fine teologo, esperto di ecumenismo, rettore dell’Abbazia dei genovesi nella chiesa di San Giovanni Battista in Trastevere a Roma, è abituato alle risposte a braccio di Papa Francesco date in occasione degli incontri col clero. Già lo scorso 10 febbraio, infatti, fu lo steso Cereti a chiedere al Papa durante un colloquio coi sacerdoti di Roma avvenuto sempre in Laterano, di fare qualcosa per i sacerdoti di rito latino impossibilitati a sposarsi.
Francesco la sorprende?
«Fin dall’inizio del pontificato. Si presentò come vescovo di Roma. E non fu un’uscita a caso. Era consapevole, credo, che per gli ortodossi la questione del primato di Pietro è argomento delicato. Come vescovo di Roma egli è riconosciuto da tutti i cristiani. Per questo ha insistito su quel titolo».
La Chiesa ortodossa non riconosce il primato?
«Fin dalle origini la Chiesa ortodossa riconosce un primato “nella carità” o “di onore” al vescovo di Roma, ma ritiene che non sia valido finché continua la suddivisione tra chiesa orientale ed occidentale successiva al Grande Scisma; le Chiese protestanti, invece, non riconoscono nessun primato, né al Papa né ai patriarchi delle chiese orientali, in quanto reputano che l’istituto papale non sia in accordo con le Sacre Scritture».
La disponibilità a una data comune sulla Pasqua potrà essere davvero significativa sulla strada dell’unità?
«È difficile rispondere. Intanto è un tassello non secondario. Certo, ritengo ne dovranno seguire di ulteriori. Ognuno a suo tempo. Ma credo che il Papa saprà come fare».
Già il Concilio Vaticano II cercò una data comune.
«È vero. Ma poi non si arrivò a una soluzione. Ed è una cosa triste che i cristiani celebrino la medesima festa in momenti separati. Ogni seprazione o divisione, del resto, è motivo di tristezza».
A suo avviso dietro l’annuncio dato ieri da Francesco ci sono soltanto motivazioni di stampo ecumenico?
«Le ragioni ecumeniche sono evidenti a tutti. Inoltre mi sembra di poter rilevare anche dei motivi dettati dalla necessità di arrivare a una testimonianza comune. L’arrivo a una data uguale per tutti è anche in questo senso un aiuto».
La Repubblica,