martedì 23 giugno 2015

Un nuovo modo di camminare insieme

Papa Francesco accolto nella chiesa Valdese - foto Osservatore Romano

La Stampa, 23 giugno 2015
di ENZO BIANCHI
A poche centinaia di metri dal tempio valdese che ieri ha accolto il “caro fratello Francesco” una lapide deposta una quindicina d’anni fa dalla città di Torino ricorda il pastore valdese Goffredo Varaglia, bruciato sul rogo per eresia il 29 marzo 1558. Bisognerebbe percorrerlo in preghiera silenziosa quel tratto di strada che separa corso Vittorio da piazza Castello: forse così si capirebbe meglio la portata del gesto avvenuto ieri tra le mura della chiesa valdese, quando il moderatore Eugenio Bernardini ha accolto a nome di tutti i suoi fratelli e sorelle valdesi e metodisti il “caro fratello Francesco”. Appellativo tutt’altro che riduttivo e che il papa ha visibilmente mostrato di apprezzare, cogliendolo in tutta la sua portata evangelica. E da fratello papa Francesco ha risposto a quel caloroso abbraccio che colmava secoli di incomprensioni, lontananze, diffidenze, ingiustizie e anche violenze sanguinarie. Certo, come ricordato durante l’incontro, è da almeno una cinquantina d’anni che i rapporti tra cattolici e valdesi, in Italia come nella regione del Rio de la Plata, sono improntati non solo al rispetto ma anche al reciproco riconoscimento della comune ricerca della sequela cristiana: grazie anche alla diocesi di Pinerolo e ai suoi ultimi vescovi, erano caduti pregiudizi e iniziati dialoghi e accordi perfino sui matrimoni misti cattolici-protestanti. Eppure, vedere papa Francesco accolto all’entrata del tempio valdese da alcune persone inferme sulle loro carrozzelle è stato davvero aver visto “varcare un muro eretto otto secoli fa”.
I protagonisti di ieri ne erano consapevoli e lo si percepiva dalla gioia intrisa di commozione nella quale le parole si succedevano ai canti, i discorsi ufficiali alle frasi sussurrate e ai sorrisi scambiati durante gli abbracci per nulla formali. In questa consapevolezza condivisa sono risuonate con forza le parole di papa Francesco: “Da parte della chiesa cattolica vi chiedo perdono. Vi chiedo perdono per gli atteggiamenti e i comportamenti non cristiani, persino non umani che, nella storia, abbiamo avuto contro di voi. In nome del Signore Gesù Cristo, perdonateci!”. Una triplice richiesta di perdono che conferma “un nuovo modo di essere gli uni con gli altri”, che detta il passo al “camminare insieme verso quella “comunione che precede ogni contrasto” e che lo può trasformare in quella “diversità riconciliata” evocata dal pastore Bernardini citando la Evangelii gaudiumdi papa Francesco. In questo senso va colto anche l’appello valdese in merito a due questioni teologiche particolari ancora aperte: l’essere chiamati con il termine neotestamentario di “chiesa” (anche se non nello stesso senso inteso dalla chiesa cattolica) e non con la parafrasi “comunità ecclesiale” e la possibilità di praticare “l’ospitalità eucaristica”, tuttora non ammessa per la chiesa cattolica e quelle ortodosse a causa della diversa comprensione teologica del ministero e dell’eucaristia stessa. Solo la franchezza e la fiducia di chi sente di essere di fronte a fratello permette di affrontare tematiche così delicate in una simile occasione e solo la fraternità che nasce dal Vangelo ha permesso al papa di non lasciar cadere gli interrogativi ma di accoglierli in profondità. Così nel suo discorso papa Francesco ha sempre chiamato i fratelli e le sorelle valdesi “chiesa” e ha evocato lo scambio di doni – il pane e il vino per le rispettive celebrazioni eucaristiche pasquali – avvenuto tra la diocesi di Pinerolo e la locale comunità valdese parlando di “un gesto tra le due chiese che … fa pregustare, per certi versi, quell’unità della mensa eucaristica alla quale aneliamo”.
E qui non posso tacere ciò che questo evento storico ha evocato in me che fin dagli anni universitari e prima di iniziare a vivere a Bose ho intessuto fraterni legami con diversi valdesi di Torino: ieri, ascoltando i membri della chiesa valdese e papa Francesco mi sono visto ripassare davanti il professor Subilia e i pastori Conte e Ricca – che venivano a guidare gli studi biblici per il nostro gruppo ecumenico di via Piave e che dialogavano con la prima commissione ecumenica regionale voluta dal cardinale Michele Pellegrino negli anni del postconcilio, di cui ero membro – il pastore Gay che aveva voluto essere presente a Bose per la professione monastica dei primi sette fratelli sorelle di Bose, Tullio Vinay e la sua profetica parabola di Agape… In realtà il carissimo amico Paolo Ricca, grande teologo e maestro della fede, non avevo bisogno di immaginarmelo: lo vedevo lì, nelle prime file del tempio valdese, felice di ascoltare e vedere parole e gesti che tanti prima di lui e di me, e tanti assieme a lui e a me, hanno desiderato vedere.
Non prendete queste ultime note come le confessioni di un vecchio nostalgico: sono solo un tributo alla memoria e una conferma che ieri papa Francesco e i fratelli e le sorelle valdesi che lo hanno accolto ci hanno ricordato che “ciò che tarda avverrà” e che a noi spetta affrettare il giorno della piena e visibile unità dei cristiani. È un debito che abbiamo verso la volontà del Signore ma anche verso tutti gli uomini e le donne del nostro tempo, nostri compagni di umanità.
Pubblicato su: La Stampa

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Il Papa in una città simile al suo stile

Papa Francesco davanti alla Sindone
La Stampa, 21 giugno 2015
di ENZO BIANCHI
            Arriva a Torino e torna alle sue radici. Torna in quella città da cui il nonno Giovanni, astigiano di Portacomaro, con la moglie Rosa e il figlio Mario ventenne, entrambi militanti dell’Azione cattolica, partono nel 1929 per l’Argentina, lasciandosi alle spalle un’Italia già ammaliata dal fascismo. Ma quale Torino e quale Piemonte ritrova il figlio di monferrini Bergoglio? E, in particolare, quale comunità ecclesiale lo accoglie come padre e pastore della chiesa cattolica? Torino e la sua chiesa sono forse il luogo geografico e spirituale che meno sentono come “venuto dalla fine del mondo” questo papa argentino: ne conoscono infatti le radici, il dialetto, la cultura legata alla terra e all’operosità, l’attenzione agli ultimi, la sobria schiettezza.
            Papa Francesco abbraccia una città tra le più secolarizzate d’Italia, fiera di una consolidata mentalità industriale, avvezza a un approccio laico e civile alle problematiche sociali, fervente di attività che la pongono come capitale culturale. Una città che ha conosciuto importanti flussi migratori e le conseguenti difficili integrazioni, dapprima tra italiani di regioni diverse, poi tra costoro e gli immigrati provenienti dal Magreb, e più recentemente ancora, quelli arrivati dai paesi dell’Europa dell’est. Se l’unità statale d’Italia è partita da Torino, potremmo dire che a Torino esiste ormai da decenni un laboratorio per l’unità multietnica e multireligiosa della nostra società: non sono tante le città che hanno creato e sostengono un “Comitato interfedi” – prezioso lascito delle Olimpiadi – e che anche in questa stagione di rifiuto dello straniero non cedono alla demagogia e continuano, anche come istituzioni civili, a predisporre spazi e studiare soluzioni per una pacifica convivenza. Forse questo atteggiamento è uno dei frutti dell’esigua ma storica presenza di minoranze come la comunità valdese e quella ebraica (quanti, perfino tra i torinesi, sanno che la stessa Mole, divenuta simbolo della città, era stata progettata per essere una sinagoga?).
            E, al cuore di questa città che ha fama di discrezione, laboriosità e ordine, ma anche di affettata cortesia e di eccessiva ponderazione nell’intraprendere strade nuove, papa Francesco incontrerà una chiesa che non da oggi ha tratti e caratteristiche di profonda sintonia con lo stile e la sollecitudine pastorale proprie del suo pontificato. Basti pensare alla mai tramontata tradizione dei “santi sociali”: dalla cura innovativa e paterna di don Bosco per i giovani delle famiglie più disagiate alla sollecitudine per gli “scarti” umani di cui si è fatto carico il Cottolengo con la sua “Casa della Provvidenza”, dall’amorevole assistenza del Cafasso per quei carcerati considerati la feccia della società alla coraggiosa intraprendenza per alleviare le sofferenze dei più poveri del tortonese don Orione. Ma anche la dimensione missionaria, la sollecitudine per l’annuncio del vangelo al di là di recinti e steccati, così indispensabile per la chiesa di ogni tempo e ogni luogo e così cara al ministero di papa Francesco, trova a Torino una presenza storica di assoluto rilievo come i missionari e le missionarie della Consolata che il fondatore Allamano volle affidare alla Vergine venerata nel santuario posto al cuore non solo topografico della città sabauda.
            Storicamente più vicini a noi come dimenticare il domenicano albese Giuseppe Girotti che proprio a Torino verrà arrestato per aver prestato soccorso a una famiglia ebrea e da lì condotto a Dachau dove morirà al termine di una prigionia atroce ma di radiosa eloquenza? Anche di padre Michele Pellegrino, indimenticato pastore della chiesa di Torino negli anni dell’immediato post concilio, restano oggi profonde tracce nel tessuto ecclesiale di Torino. La sua attenzione ai poveri, la sobrietà della sua vita personale, la sua fame e sete di giustizia, la sua pratica quotidiana della misericordia sono tratti che lo accomunano a papa Francesco così come il titolo, il metodo di stesura e il contenuto della sua famosa lettera pastorale Camminare insieme emergono oggi con una freschezza sorprendente e una sintonia palpabile con le parole e i gesti di papa Bergoglio.
            Ma la chiesa di Torino e del Piemonte è anche la porzione di chiesa cattolica italiana che da sempre si confronta – fino a centocinquant’anni fa purtroppo avremmo dovuto dire “si scontra” – con la più antica minoranza cristiana non cattolica presente nel nostro paese: la chiesa evangelica valdese. È segno grande della sollecitudine ecumenica di papa Francesco l’aver voluto inserire nel programma delle sue due giornate torinesi la visita al Tempio valdese: è il fraterno abbraccio a cristiani che hanno saputo restare saldi nella fede ricevuta dai padri e vivere con coerenza e sacrificio la loro sequela all’unico Signore Gesù Cristo.
            Unico dispiacere personale è il fatto che papa Francesco non riesca a visitare quella sua e mia terra del Monferrato, quella terra che abbiamo imparato ad amare come “madre terra”. Ma sostando in preghiera davanti al Volto della Sindone – icona del Cristo morto e sepolto in attesa della risurrezione e immagine di ogni essere umano vittima e sofferente in attesa della liberazione – celebrando l’anniversario della nascita di san Giovanni Bosco, visitando i fratelli e le sorelle valdesi, papa Francesco visita il cuore di una città in cui il Vangelo non ha cessato di risuonare e, al contempo, visita quelle periferie dell’esistenza umana che la cura del buon pastore non ha mai dimenticato.
Pubblicato su: La Stampa