« Donna
non si nasce, lo si diventa. Nessun destino biologico, psichico,
economico definisce l'aspetto che riveste in seno alla società la
femmina dell'uomo: è l'insieme della storia e della civiltà a elaborare
quel prodotto intermedio tra il maschio e il castrato che chiamiamo
donna »
(S. de Beauvoir, Il secondo sesso, 1984, p. 325)
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Oggi 7 marzo la Chiesa celebra la memoria liturgica delle sante Perpetua e Felicita, martiri.
Di seguito il racconto che documenta come hanno rivendicato i loro diritti di donne (cristiane) già un pò di secoli fa.... Quindi molto, ma molto tempo prima di Simone de Beauvoir.
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PASSIONE DELLE SANTE PERPETUA
E FELICITA
(Tertulliano ?)
1. Come le gesta degli
antichi campioni della fede furono scritte quali documenti della grazia
divina a edificazione dell’uomo, affinché leggendole e rappresentandoci alla
mente i fatti, ne onoriamo Dio e ne caviamo conforto per noi stessi: così è
opportuno tramandare anche i nuovi esempi, che non meno degli antichi
possono giovare all’uno e all’altro scopo. Infatti anche questi un giorno
saranno antichi e torneranno necessari ai posteri, sebbene nel loro tempo
presente godano minore autorità mancando di quel prestigio che l’antichità
attribuisce ai primi. Del resto, se la vedano essi, coloro che l’una e
medesima potenza dell’unico Spirito Santo giudicano secondo l’antichità del
tempo: ma, se la manifestazione della grazia ha avuto la sua pienezza per
disposizione divina in quest’ultima epoca, si dovrebbe pur ritenere che gli
esempi recenti e ultimi rivestano un significato anche maggiore. Dice il
Signore: “Negli estremi giorni spanderò la virtù del mio Spirito su ogni
carne vivente, e i loro figli e figlie proferiranno vaticini; sopra gli
schiavi e le schiave mie spanderò il mio Spirito: i giovani contempleranno
visioni, i vecchi avranno rivelazioni nel sogno” (Gioele 3, 1-5 e Atti 2).
Pertanto anche noi, che riconosciamo e onoriamo le profezie e le visioni
nuove e rivolgiamo ogni altra operazione dello Spirito Santo ad
ammaestramento della Chiesa, alla quale fu mandato per distribuire tutti i
suoi doni spirituali a ciascuno secondo la disposizione di Dio, reputiamo
necessario raccontarle e leggerle in comune a gloria di Dio. Così non
accadrà mai che alcuno per ignoranza o poca fede abbia a credere che la
grazia di Dio si sia manifestata solo agli antichi, sia confortando al
martirio, sia nel dono di rivelazione; poiché Dio opera senza interruzione
secondo le sue promesse, a documento di chi non crede e a beneficio di chi
crede.
Vi presentiamo dunque, o
fratelli e figlioli, anche noi “ciò che abbiamo udito e veduto e toccato con
mano” (1 Giovanni 1, 1. 3.); affinché voi che siete stati presenti ai fatti,
ricordandoli ne diate gloria al Signore; quelli poi che ora soltanto vengono
a conoscerli per via di udito, vivano in spirituale unione coi santi
martiri, e per mezzo loro, col nostro Signore Gesù Cristo, a cui è dovuta la
gloria e l’onore per i secoli dei secoli. Amen.
2. Furono arrestati i
giovinetti catecumeni Revocato e Felicita sua compagna di schiavitù,
Saturnino e Secondino. Era fra loro poi anche Vibia Perpetua di condizione
patrizia, allevata accuratamente, sposata secondo il costume delle matrone.
Vivevano ancora suo padre e sua madre, e aveva due fratelli, di cui l’uno
era pure catecumeno. Essa aveva un bambino alle poppe (infantem ad ùbera) e
toccava presso a poco l’età dei ventidue anni. Lo svolgimento del suo
martirio fu narrato tutto da lei stessa, così come lo lasciò scritto di sua
mano e di mente sua.
3. Essa dunque così narra:
“Mentre ancora mi trovavo in custodia libera, e mio padre voleva ad ogni
modo piegarmi colle ragioni, e mosso dal suo affetto persisteva nel suo
tentativo di farmi apostatare, gli dico:
‘Padre, vedi tu, per
esempio questo vaso qui, o quell’orcio, o altro qualunque?’
‘Lo vedo’, risponde.
Ed io a lui: ‘Può esso
forse chiamarsi con altro nome che il suo?’.
‘No’, dice.
‘Così pure io non posso
chiamarmi in altro modo se non ciò che sono, cioè cristiana’.
Questa mia risposta lo
mosse ad ira; mi si rivolse contro e pareva mi volesse cavare gli occhi; si
limitò tuttavia a dirmi molte male parole, indi se ne andò confuso coi suoi
argomenti ispirati dal diavolo. Per alcuni giorni in séguito non lo vidi più
e ne ringraziavo il Signore, perché lo starne lontana mi era di sollievo.
Frattanto, proprio in quell’intervallo di pochi giorni ricevemmo il
battesimo; allora lo Spirito mi suggerì che non dovessi attendermi altra
grazia dell’acqua battesimale se non la forza di resistere ai tormenti
corporali, pochi giorni dopo fummo chiusi in prigione. Ne fui spaventata;
non avevo mai provato l’orrore di simile oscurità. Fu un giorno doloroso!
V’era un calore insopportabile, prodotto dal gran numero di persone quivi
ammucchiate; vi si aggiungevano le villanie della soldataglia, e per estrema
miseria ero straziata dal pensiero del mio bambino che avevo lasciato a
casa. Allora i diaconi Terzo e Pomponio, che, benedetti, si curavano della
nostra sorte, distribuendo mance ottennero che per alcune ore fossimo fatti
uscire a ristorarci nella parte più comoda del carcere. Usciti dunque dalla
prigione, eravamo tutti a nostro agio; potevo così allattare il mio bambino
che veniva meno per inedia. Mentre mi curavo di lui, conversavo con mia
madre e rivolgevo parole di conforto a mio fratello; a tutti e due poi
raccomandavo mio figlio. Soffrivo perché li vedevo costernati per causa mia;
così stetti in afflizione per molti giorni. Ottenni che il bimbo restasse
con me nella prigione; presto lo vidi rimettersi in forze, onde fui
sollevata dalla dolorosa apprensione per la vita di lui. D’allora il carcere
mi divenne comodo come un palazzo, né più desiderai d’essere in alcun luogo
fuori di là.
4. Mi disse allora mio
fratello:
‘Signora sorella mia, ormai
hai acquistato tanto merito da poter chiedere a Dio di mostrarti in visione
se avverrà il martirio o se saremo dimessi’.
Io sapevo di avere
rivelazioni da Dio per i molti favori che ne avevo ricevuti, onde piena di
fede glielo promisi dicendogli:
‘Domani te lo farò sapere’.
Lo domandai infatti e mi fu
mostrata questa visione. Vidi una scala eretta nell’aria; era
straordinariamente grande e coll’un dei capi arrivava fino al cielo; ma era
stretta, sì che non vi si poteva salire che uno alla volta. Sui fianchi
della scala erano confitti arnesi di ferro d’ogni sorta: v’erano pugnali,
lance, uncini, sciabole, spiedi, sicché se uno vi saliva distrattamente e
senza volgere gli occhi verso l’alto, veniva straziato e lasciava brandelli
di carne attaccati a quei ferri. Ai piedi della scala stava straiato un
drago di mostruosa dimensione; questo attendeva al varco quanti passavano
per salire la scala, e così li atterriva per impedire loro la salita. Per
primo vi ascese Sàturo, che ci aveva fatti cristiani e poi per nostro amore
s’era offerto spontaneamente alle guadie, non essendo egli presente prima,
quando fummo arrestati. Egli giunse fino alla sommità della scala, poi si
rivolse e ci disse:
‘Perpetua, vieni; io ti
aiuterò, ma guardati dai morsi di questo drago’.
Dissi: ‘Nel nome di Gesù
Cristo, non mi farà alcun male’.
E subito quello, quasi
avesse paura di me, abbassò lentamente la testa ai piedi della scala stessa:
onde io vi posi sopra il piede premendogli la testa quasi fosse il primo
gradino. Presi a salire; giunta sopra, vidi un estesissimo giardino. In
mezzo sedeva un uomo dai capelli bianchi, vestito da pastore, grande, in
atto di mungere le pecore. Intorno a lui molte migliaia di persone vestite
di bianco. Alzò egli il capo, mi guardò e disse:
‘Sii la benvenuta, o
figlia’.
Poi mi chiamò; e mi porse
tanto come un boccone di panna rappresa di quel latte che stava mungendo; lo
ricevetti con le mani giunte e lo mangiai. Tutti i circostanti dissero:
‘Amen’.
Al suono di quella parola
mi risvegliai, e ancora mi pareva di inghiottire un non so che di dolce.
Riferii il sogno a mio fratello; da quello comprendemmo che il martirio ci
attendeva tra poco; onde ci disponemmo ad abbandonare ogni speranza di
questo mondo.
5. Pochi giorni dopo si
sparse la voce che saremmo stati interrogati. Giunse frattanto dalla città
mio padre; era quasi sfinito dalla costernazione. Venne su da me per tentare
di farmi mutar proposito e prese a dirmi:
‘Abbi pietà della mia
canizie, o figlia; abbi pietà di tuo padre, se pure sono degno d’essere
chiamato da te con questo nome; se ti ho allevata con queste mani sino al
fiore dell’età, se ti ho prediletta su tutti i tuoi fratelli! Guarda tua
mamma e la tua zia materna; guarda il tuo figliolino, che non potrà
sopravviverti. Lascia codesto tuo proposito che sarebbe la morte di noi
tutti, che non potremo più parlare a fronte alta, se si oserà toccarti!’.
Diceva queste cose mosso
dal sentimento paterno e dal suo cuore; prostrato ai miei pedi mi baciava le
mani, piangeva e non mi chiamava figlia, ma signora. Io soffrivo vedendolo
in quello stato e pensando che egli solo di tutta la mia famiglia non fosse
in grado di godere per il mio martirio. Lo consolavo dicendogli:
‘Quando sarò su quel palco
accadrà quello che Dio vorrà; sappi che ormai non apparteniamo più a noi
stessi, ma a Dio’.
Se ne andò via da me tutto
pieno di tristezza.
6. In uno dei giorni
successivi, durante il pasto, fummo condotti via d’improvviso per
l’interrogatorio. Arrivammo alla piazza; s’era sparsa la voce di noi in
tutte le adiacenze, e tosto accorse una folla innumerevole. Salimmo sul
palco; gli altri furono interrogati e confessarono la fede. Venne la mia
volta. Sopravvenne allora mio padre col mio bambino tra le braccia; mi
trasse indietro supplichevole disse:
‘Abbi pietà di questo
bambino’.
Il procuratore Ilariano,
che esercitava allora il potere esecutivo in sostituzione del proconsole
Minucio Timiniano che era morto, mi disse:
‘Abbi riguardo dei capelli
bianchi di tuo padre, e di questo tenero fanciullo! Offri un sacrificio per
la salute degli Imperatori’.
Risposi: ‘Non lo faccio’.
Ilariano disse: ‘Sei tu
cristiana?’.
Risposi: ‘Sono cristiana’.
Mio padre mi si faceva
addosso per farmi rinnegare; Ilariano comandò di trascinarlo via e per di
più lo fece cacciare a bastonate. Mi dolse il caso di mio padre, mi parve di
sentire quei colpi sulle mie membra; mi piangeva il cuore per quella sua
miseranda vecchiaia. Frattanto il procuratore pronunziò la nostra sentenza
condannandoci alle fiere. Contenti ritornammo alla prigione. Il mio bambino
soleva starmi alle poppe e restare con me in carcere; onde io tosto mandai
il diacono Pomponio perché chiedesse il piccino a mio padre. Questi non
volle consegnarglielo. E come piacque a Dio, il bambino cessò di domandare
la mammella, e io fui libera dall’infiammazione che ciò cagionava, né più
fui oppressa dalla cura del fanciullo e dal dolore delle mammelle.
7. Dopo pochi giorni,
mentre tutti siamo in orazione, m’uscì di bocca il nome di
Dinòcrate;
stupii, che non m’era mai sovvenuto di lui se non allora, e mi dolsi
al
ricordar i suoi casi. Sentii che Dio mi favoriva e che dovevo pregar
per
lui. Cominciai a farlo molto intensamente implorando con sospiri il
Signore.
Subito la notte seguente ebbi questa visione. M’apparve Dinòcrate
che usciva
da un luogo scuro dov’eran parecchi altri; era oppresso e arso di sete,
col
viso macilento e scolorito; aveva la faccia deturpata da una piaga,
come era
quando morì. Questo Dinòcrate era stato mio fratello carnale,
vissuto fino
ai sette anni; aveva contratto una malattia che lo condusse a mala
morte per
un tumore alla faccia, sì che la sua morte aveva destato grande
ribrezzo in
tutti. Avevo dunque pregato per lui, ed ora me lo vedevo innanzi, ma
fra noi
due vi era una grande distanza, sì che non potevamo avvicinarci
l’uno
all’altra. Quivi nel luogo ove stava Dinòcrate era una vasca piena
d’acqua,
con un parapetto più alto della statura del fanciullo; Dinòcrate vi
si
protendeva in atto di voler bere. Mi rammaricavo che quella vasca
abbondasse
così di acqua, mentre egli non avrebbe potuto berne per l’altezza
della
sponda. Mi svegliai e compresi che mio fratello pativa. Ma avevo
fiducia di
poter sollevare la sua sofferenza e pregai per lui ogni giorno, fino
a che
fummo trasferiti nella prigione militare, perché dovevamo scendere a
combattere colle fiere durante lo spettacolo castrense per il
natalizio di Geta Cesare. Feci orazione giorno e notte, con sospiri e
lacrime, per
ottenere che quel mio fratello mi fosse salvato.
8. Il giorno che rimanemmo
legati in prigione mi fu mostrata questa visione. Mi apparve lo stesso luogo
veduto la prima volta, e quivi Dinòcrate tutto ben ripulito e sano, coperto
di belle vesti, d’aspetto allegro. Al posto della piaga appariva la
cicatrice. V’era la vasca che avevo già prima veduta, ma con la sponda
abbassata tanto da arrivare a mezza statura del fanciullo, il quale vi
poteva attingere a suo piacere. Sul parapetto era una fiala d’oro ricolma
d’acqua. Dinòcrate si apprestò e prese a bere da quella, e mentre beveva non
diminuiva l’acqua della fiala. Quando fu sazio dall’acqua si mise a
trastullare, come sogliono fare i bambini, allegro. A questo punto mi
risvegliai, e compresi che egli aveva finito di soffrire.
9. Di lì a pochi giorni un
soldato attendente di nome Pudente, che era preposto alla custodia delle
carceri, cominciò a dimostrarci grande stima; s’era convinto che in noi
fosse grande virtù. Così lasciava entrare molte persone a farci visita, ed
era un gran sollievo reciproco per noi e per i nostri visitatori. Intanto si
avvicinava il giorno dello spettacolo pubblico; allora venne mio padre. Era
sfinito dal dolore; prese a strapparsi la barba, gettarsi ai miei piedi
prostrato fino a terra; malediceva gli anni suoi e dava in tali lamenti da
far pietà a ogni cosa creata. Io mi struggevo per quella vecchiaia
sventurata.
10. Il giorno prima del
combattimento nostro ebbi questa visione. Mi parve che venisse da noi il
diacono Pomponio e che fermatosi alla porta del carcere battesse fortemente.
Uscii incontro a lui e gli aprii la porta. Era vestito di una bianchissima
tunica fluente, e portava calzari variati di molti colori.
Mi disse:
‘Perpetua, t’aspettiamo,
vieni’.
Indi mi prese per mano e ci
avviammo per sentieri scoscesi e tortuosi. A fatica giungemmo finalmente
trafelati dinanzi all’anfiteatro; mi condusse fino nel mezzo dell’arena
dicendomi:
‘Non temere: sono qui io a
soffrire in tua compagnia’.
Indi uscì. Vidi un’immensa
folla che mi guardava meravigliata. Sapendo io d’essere condannata quivi
alle bestie, mi stupivo che quelle non venissero sguinzagliate contro di me.
Allora mi uscì incontro un certo egiziano, brutto di aspetto, e si accinse a
combattere con me assistito da compagni che gli facevano da scudieri.
Intanto vidi venire alla mia volta alcuni leggiadri giovinetti e schierarsi
in mio soccorso. Mi svestii dei miei abiti e fui trasformata in maschio. I
miei aiutanti allora presero a farmi massaggi con olio, come suol farsi agli
atleti prima della lotta; vedevo frattanto di contro a me quell’egiziano che
si voltolava sull’arena. Nel punto stesso vidi farmisi incontro un uomo di
grandezza smisurata, tale da oltrepassare la parte più elevata
dell’anfiteatro; aveva una tunica fluente di porpora percorsa da due
fascette davanti; e portava calzari variati fatti d’oro e d’argento. Egli
reggeva in una mano una bacchetta come sogliono portarla i maestri
gladiatori e nell’altra un ramo verdeggiante con mele color d’oro. Impose
silenzio e disse:
‘Questo egiziano, se avrà
vinto costei, la ucciderà con la spada; se invece essa vincerà, riceverà
questo ramo’.
Indi si ritirò. Ci
appressammo l’un altro e cominciammo il pugilato. Quegli voleva afferrarmi i
piedi; io gli sprangavo calci sulla faccia. Mi sentii allora sollevare in
aria, e presi a percuoterlo come se i miei piedi non poggiassero sul
terreno. In un istante che quegli esitò giunsi le mani incrociando le dita,
gli serrai così alla testa e lo percossi sul viso, indi atterratolo gli posi
un piede sul capo. La folla prese a gridare; i miei fautori cantavano. Mi
appressai al maestro dei gladiatori e ricevetti da lui il ramo. Mi baciò e
mi disse:
‘Figlia, la pace sia con
te’.
Allora m’avviai per uscire
verso la porta Sanavivaria. In quel punto mi svegliai; compresi che dovevo
combattere non con le bestie, ma col diavolo, ma mi tenevo sicura della
vittoria.
Queste sono le cose da me
fatte fino alla vigilia dello spettacolo; quanto allo svolgimento di questo,
lo descriverà chi vorrà”.
11. Anche Saturo benedetto
fece conoscere una sua visione da lui stesso narrata per iscritto.
“Mi pareva
–
dice
–
che avessimo già sofferto il martirio e fossimo già usciti dalla carne
mortale e che quattro angeli ci trasportassero verso l’oriente, senza che le
loro mani ci toccassero. Procedevamo non coricati con la faccia all’insù, ma
come se ascendessimo una facile erta. Usciti dal mondo inferiore, fummo
avvolti da immensa luce. Io dissi a Perpetua, che mi stava al fianco:
‘Ecco quello che il Signore
ci prometteva; siamo giunti ormai al promesso bene’.
Mentre eravamo portati da
quei quattro angeli, ci si offerse alla vista una grande spianata che aveva
l’aspetto di un giardino, con cespugli di rose e fiori d’ogni genere.
V’erano alberi che si ergevano all’altezza di un cipresso, e le foglie
cadevano da quelli continuamente. In quel giardino apparvero altri quattro
angeli più splendidi dei primi; quando ci videro, ci fecero riverenza e
dissero agli altri angeli:
‘Ci sono, ci sono!’.
ed erano pieni di meraviglia. I quattro angeli
che ci portavano, presi da timore, ci deposero; indi a piedi cominciammo a
percorrere per la lunghezza d’uno stadio un’ampia strada, fino a che
incontrammo Giocondo, Saturnino e Artassio, i quali in quella medesima
persecuzione erano stati bruciati vivi. Con essi era anche Quinto martire,
morto nel carcere. Domandavamo a loro dove fossero gli altri. Gli angeli ci
dissero:
‘Entrate prima, andate a
salutare il Signore’.
12. Ci appressammo a un
recinto le cui mura parevano fatte di luce; sull’entrata di esso stavano
quattro angeli. Questi entrarono e indossarono candide vesti. Entrammo noi
pure e udimmo voci in coro che cantavano:
‘Santo, Santo, Santo’,
e non cessavano di
ripeterlo. Vedemmo quivi la figura di un uomo tutto bianco, dalle chiome
color di neve, dal volto d’adolescente. Non vedevamo i suoi piedi. A destra
e a sinistra di lui stavano quattro anziani; dietro di essi ve n’erano molti
altri. Ci avanzammo pieni di meraviglia e giungemmo ai piedi del trono. I
quattro angeli ci sollevarono; baciammo in volto quel personaggio ed egli ci
passò la sua mano sul viso.
Gli altri anziani dissero:
‘Alziamoci’.
Ci alzammo, ci demmo a
vicenda il bacio di pace. Gli anziani ci dissero:
‘Andate a divertirvi’.
Io dissi a Perpetua: ‘Il
tuo desiderio è compiuto’.
Mi rispose: ‘Siano rese
grazie a Dio, perché lieta fui nella carne mortale, ed ora qui la mia
letizia è accresciuta’.
13. Uscimmo e dinanzi alla
porta trovammo a destra il vescovo Ottato, a sinistra il presbitero Aspasio,
maestro dei catecumeni; stavano l’uno in disparte dall’altro e tristi. Ci si
gettarono ai piedi dicendo:
‘Fate la pace tra noi, ora
che siete usciti dal mondo e ci avete così abbandonati!’.
Dicemmo loro: ‘Non sei tu
il nostro vescovo, e tu uno dei nostri presbiteri? Perché vi siete messi ai
nostri piedi?’.
Eravamo commossi e ci
gettammo fra le loro braccia. Perpetua cominciò a parlare loro in lingua
greca. Li conducemmo in disparte entro il giardino sotto un gran cespo di
rose. Mentre con essi conversavamo, gli angeli dissero a quelli:
‘Lasciate che si divertano;
se avete qualche contrasto tra voi due, perdonatevi a vicenda’.
Quelle parole li
rattristarono. Allora (gli angeli) dissero a Ottato:
‘Raddrizza il tuo popolo;
perché si radunano con te come gente che ritorna dal circo e agitati da
animosità partigiane’.
Ci parve poi che volessero
chiudere le porte. Frattanto cominciammo a riconoscere quivi molti fratelli
e anche molti martiri. Tutti aspiravano profumi di ineffabile soavità e ne
eravamo inebriati. In quel punto mi svegliai ancor tutto pieno di
allegrezza.
14. Queste sono le più
insigni visioni degli stessi beatissimi martiri Sàturo e Perpetua, scritte
da loro medesimi. Dio chiamò a sé poi Secondino con morte anticipata
mentr’era ancora in carcere, non senza usargli un favore, poiché gli
risparmiò le belve. Ma se il ferro non gli tolse la vita, certo gli straziò
la carne.
15. In quanto poi a
Felicita le fu riserbata dal Signore questa grazia. Essendo essa all’ottavo
mese (che, quando l’arrestarono era incinta), e avvicinatosi ormai il giorno
dello spettacolo, era in grande passione per timore che ella a cagione del
suo stato non fosse rimandata ad altra volta, non essendo permesso offrire
all’arena a supplizio le incinte; così che le fosse poi toccato di versare
il suo sangue innocente insieme con delinquenti. Anche i compagni di
martirio si affliggevano assai, nel dubbio di dover lasciare una compagna
così valente e quasi loro guida, indietro da sola nella via di raggiungere
la loro medesima speranza. Pertanto sul fare del terzo giorno prima dello
spettacolo, con le lacrime unanimi e concordi fecero orazione dinanzi al
Signore. Tosto finita l’orazione, Felicita fu sorpresa dalle doglie; e
poiché, stentando, dolorava nel parto, per la naturale difficoltà
dell’ottavo mese, uno dei soldati sorveglianti del carcere le disse:
‘O tu che ora patisci tanto
strazio, che farai quando verrai gettata in pasto a quelle belve che
disprezzasti rifiutando di sacrificare?’
E quella rispose: ‘Ora sono
io che devo sopportare questi strazi; quivi invece vi sarà dentro di me un
altro, il quale patirà per me, perché anch’io mi dispongo a patire per lui’.
Così Felicita mise alla
luce una bambina, la quale fu allevata come figlia da una sorella di fede.
16. Poiché dunque lo
Spirito Santo ha permesso, e permettendolo l’ha voluto, che si scrivesse lo
svolgimento di quello spettacolo, sebbene indegni di scrivere il restante di
sì grande gloria, tuttavia, come per eseguire un incarico, anzi un
fidecommesso della santissima Perpetua, aggiungeremo un documento della sua
costanza e altezza d’animo. L’ufficiale militare aveva preso a trattarli più
severamente, per causa delle ciarle di certi uomini vanissimi, che avevan
fatto temere non fossero i martiri sottratti dalla prigione per mezzo di
qualche stregoneria; allora Perpetua arditamente gli disse:
‘E perché dunque non
permetti un po’ di buon trattamento per noi, che, per essere destinati a
lottare nel natalizio di Cesare, siamo vittime privilegiate? Non sarà forse
tuo merito, se ci troveremo più in carne nel dì che verremo presentati
all’arena?’.
L’ufficiale si turbò ed
arrossì, e frattanto ordinò che fossero meglio trattati, sì che ai loro
fratelli di fede e agli altri fosse permesso d’entrare e di prendere cibo
con essi; perché del resto lo stesso attendente del carcere s’era convertito
alla fede.
17. Anche la vigilia,
mentre s’intrattenevano a quell’ultimo desinare che chiamano ‘cena libera’,
lo celebravano piuttosto come un’agape (banchetto eucaristico) che come una
cena, e con solita franchezza rivolgevano la parola al popolo, minacciando
il giudizio di Dio, dicendosi felici d’andare al martirio; talora anche
prendevano in burla la curiosità dei sopravvenienti; come Sàturo, il quale
andava dicendo:
‘Eh, non vi basta il giorno
di domani? Ci squadrate con tanta curiosità, mentre ci portate odio; vi
mostrate amici oggi, voi, i nemici di domani? Ebbene, osservate con cura le
nostre facce, sì che abbiate a ravvisarci in quel giorno’.
Così tutti se ne tornavano
di là turbati, e fra loro molti si volsero alla fede.
18. Sorse il dì della loro
vittoria, ed essi uscirono dalla prigione verso l’anfiteatro, lieti e
composti in volto, come quelli che s’avviano al cielo: trepidavano, è vero,
non però di paura, ma piuttosto di gioia. Perpetua teneva dietro con passo
tranquillo, come una matrona di Cristo, come una prediletta da Dio; e la
luce del suo sguardo faceva abbassare gli occhi di tutti; così pure
Felicita, lieta d’aver felicemente partorito, per potere lottare con le
belve passando da sangue a sangue, dall’ostetrice al reziario, pronta a
purificarsi del parto con un secondo battesimo. Furono condotti alla porta e
venne loro imposto d’indossare abiti da spettacolo: gli uomini a foggia di
Saturno, le donne a mo’ delle sacerdotesse di Cèrere. Ma quella nobile donna
oppose un coraggioso e irriducibile rifiuto. Diceva:
‘Siam venuti di nostra
volontà sino a questo punto per non sacrificare la nostra libertà; abbiamo
messo la vita a pegno per non macchiarci di simili atti; tanto abbiamo
pattuito con voi’. L’ingiustizia allora s’inchinò alla giustizia, e
l’ufficiale diede licenza che fossero introdotti senz’altro così com’erano.
Perpetua cantava un salmo, già sul punto di premere la testa dell’Egizio;
Revocato, Saturnino e Sàturo facevano ammonimenti alla folla degli
spettatori. Quindi, giunti in presenza d’Ilariano, cominciarono a far gesti
e cenni, quasi per dirgli:
‘Tu colpisci noi, ma Dio
raggiungerà te’.
A quella vista, la folla
irritata, richiese che venissero straziati con staffili, passando fra le
fila dei carnefici (venatores); di che essi furono lieti, perché eran messi
in qualche modo a parte dei patimenti del Signore”.
19. Ma Colui che aveva
detto ‘domandate e riceverete’ aveva concesso a ciascuno di loro quel genere
di morte che preferiva. Difatti, quando essi discorrevano fra loro dei
propri desideri riguardo al martirio, Saturnino dichiarava di preferire le
belve, per avere una corona più gloriosa; pertanto, nello svolgersi dello
spettacolo, egli e Revocato, dopo aver affrontato il leopardo, dovevano
anche essere straziati dall’orso, sopra il palchetto. Veramente Sàturo aveva
orrore dell’orso più che d’ogni altra fiera, e sperava che un solo assalto
del leopardo l’avrebbe finito. Fu allora esposto al cinghiale; in questo,
appunto il carnefice, che l’aveva legato al palo per il cinghiale fu
azzannato in vece di lui dalla medesima fiera, sì che morì il giorno
appresso; Sàturo, al contrario, fu solo da quella trascinato per un breve
tratto. Nuovamente legato sul palchetto per l’orso, questo non volle uscir
fuori dalla gabbia. Così fu che Sàturo, rimasto due volte illeso, fu
chiamato dalla folla fuori dell’arena.
20. Per le giovani, il
diavolo preparò una vacca ferocissima, cosa veramente inusitata, quasi
volesse fare, anche con quella bestia, uno sfregio al loro sesso. Spogliate
dunque, e ravviluppate nei reticoli, esse venivano condotte nell’arena. La
folla fu presa da un senso di ribrezzo, vedendole tenera fanciulla una,
l’altra ancora fresca di parto e con le poppe stillanti. Furono allora
richiamate e rivestite con lunghe tuniche. Perpetua, acciuffata per la prima
e sbattuta, ricadde a terra supina. Messasi a sedere, raccolse i lembi della
tunica lacerata sul fianco per coprirsi il femore, più ansiosa del proprio
pudore che del proprio dolore. Indi raccolse le forcelle, si appuntò la
scomposta capigliatura: non s’addiceva davvero a una martire soffrire la
passione con le chiome disciolte, sì da sembrare far lutto nella sua gloria!
Ciò fatto, s’alzò in piedi, e, veduta Felicita colpita, le si avvicinò
porgendole la mano per rialzarla. Così stettero alquanto, fino a che,
ammansita la ferocia della folla, furono richiamate e fatte uscire per la
porta Sanavivaria. Quivi Perpetua fu accolta da un tal catecumeno di nome
Rustico, che era stato addetto al suo servizio, e, riscossa come da sonno,
talmente era assorta e rapita in spirito, prese a volgere gli occhi attorno
e con meraviglia di tutti uscì in queste parole:
‘Ma quando dunque saremo
noi esposte a quella vacca?’.
Udito che la cosa era già
accaduta, non voleva credere, sino a che non ebbe ravvisate nella sua
persona e nell’abito certe tracce dello strazio. Chiamato quindi a sé il
fratello e quel tal catecumeno, così disse:
‘Siate fermi nella fede,
amatevi tutti l’un l’altro, né prendete sgomento dei nostri tormenti’.
21. Similmente Sàturo,
presso un’altra porta, rinfrancava il soldato Pudente, dicendogli:
‘Tutto sommato, davvero
finora, come avevo predetto, non ho ancora sentito lo strazio d’alcuna
fiera; sii fermo dunque con tutto il cuore nella fede. Ora vedrai, io mi
avanzo fin là, e sarò ucciso da un solo morso di leopardo’.
E tosto, essendo lo
spettacolo sul termine, sguinzagliatogli contro un leopardo, ne toccò una
zannata per cui fu inondato di sangue in gran copia; e, mentre, si ritraeva,
la folla gli rendeva testimonianza del secondo battesimo vociando:
‘Salvo, lavato’.
Davvero che era salvo colui
che s’era bagnato in simile lavacro! Disse allora al soldato Pudente:
‘Addio, ricordati della mia
fede e di me; che tutto questo valga non a turbarti ma a darti
animo’. Così
dicendo, lo richiese dell’anello che portava in dito, e, bagnandolo
nella
propria ferita, glielo rese come sua eredità, lasciandoglielo come
pegno e
come una memoria di sangue. Quindi, ormai sfinito, venne disteso
insieme con
gli altri nel luogo solito per essere sgozzato. La folla reclamava
che
fossero portati in vista, per seguire con i loro occhi omicidi
l’entrar del
coltello nelle carni di quelli; i martiri si rizzarono
spontaneamente e si
trascinarono fin là dove la marmaglia voleva. Già s’erano dato fra
loro il
bacio, ché ben volevano por fine al martirio con il santo rito della
pace.
Gli altri ricevettero il ferro raccolti in silenzio. Tosto rese lo
spirito Sàturo, che era asceso per primo nella scala; egli attendeva
Perpetua che
gli tenesse dietro. A questa era ancora riserbato di gustare qualche
tormento: perché il ferro le si impigliò tra le vertebre della gola.
Mandò
un forte gemito, e prese essa stessa a guidare la incerta mano
dell’inetto
gladiatore, aggiustandosi la punta alle carni. Ma forse una donna di
tanto
valore, che incuteva spavento allo spirito immondo, non avrebbe
altrimenti
potuto essere uccisa se essa non l’avesse voluto!
O martiri fortissimi e
mille volte beati! O voi veramente chiamati ed eletti per la gloria del
nostro Signore Gesù Cristo! Chiunque aspira ad aumentare, illustrare e
adorare questa gloria, ben deve leggere a edificazione della Chiesa questi
esempi, non minori di quelli passati: sì che le nuove gesta rendano
testimonianza all’unico e medesimo Spirito Santo che finora ha operato, a
Dio Padre onnipotente e al Figlio suo Gesù Cristo nostro Signore, al quale
si deve onore e potestà senza limiti per tutti i secoli.
Amen.
da: P. VANNUTELLI
– a cura di
–, Atti dei Martiri 1, Città
del Vaticano, ristampa 1962, 14-57