venerdì 8 novembre 2013

Sale, zucchero e caffè.

Sale, zucchero e caffè. L'Italia che ho vissuto: da nonna Aida alla Terza Repubblica


Sale, zucchero e caffè. L'Italia che ho vissuto: da nonna Aida alla Terza Repubblica


di Bruno Vespa


Nonna Aida è l'ispiratrice di questo singolarissimo libro di Bruno Vespa, radicalmente diverso da tutti i suoi precedenti. Una nonna che faceva di nascosto provviste di sale, zucchero e caffè per non lasciarsi sorprendere da imprevedibili emergenze come quelle della guerra, viziava il nipote prediletto, ma lo ammoniva a frequentare soltanto persone più brave e migliori di lui, contribuendo in modo determinante alla sua primissima formazione. Nel ricordo di questa donna straordinaria, Vespa racconta la storia d'Italia dalle rovine della guerra ai recenti sussulti imposti alla politica dalla condanna di Berlusconi - nella sua personalissima visione, prima di spettatore e poi, fin da giovanissimo, di testimone professionale di settant'anni di vita nazionale. I sacrifici di un paese in ginocchio, la morte prematura del padre, la rinascita e il miracolo economico vissuti nel microcosmo della provincia, il ruolo decisivo di una scuola in cui l'autorità del sapere assicurava agli insegnanti una posizione centrale nella società. La prima giovinezza sacrificata a un giornalismo troppo precoce, la diffidenza verso Roma e, poi, l'abbandono al suo fascino irresistibile. L'incredibile vicenda del concorso alla Rai nel 1968 e, da quel momento, la partecipazione da testimone-attore ai principali avvenimenti della storia italiana, dalla strage di piazza Fontana a oggi. Un diario a cuore aperto per conoscere meglio i chiaroscuri di quello che - nonostante tutto - rimane un grande paese, con il diritto alla speranza.

*

Nel nuovo libro l’intervista all’allora arcivescovo di Cracovia. Di seguito.



Nel 1977 con Wojtyla «il sovversivo»

Nel 1977 avevo proposto (e ottenuto) di fare una serie di reportage sui “duri dell’Est”, i capi dei regimi comunisti che talvolta erano più duri dei loro leader di riferimento al Cremlino. Era una pura illusione. Inutile provare con la Bulgaria e la Romania, i cui regimi erano più chiusi di quello moscovita. Prima di tentare con la Cecoslovacchia, bussai alla Polonia, che sembrava il Paese meno chiuso, se non altro per la maggioranza cattolica dei suoi abitanti.

L’occasione propizia era rappresentata dalla visita in Italia di Edward Gierek, primo segretario del Partito comunista polacco e, di fatto, massima autorità della Polonia. In questi casi era consuetudine concedere un’intervista alla “televisione sorella” del Paese ospitante e approfittai di tale opportunità. Fissata da Roma un’intervista con Gierek, la mia intenzione era soprattutto quella di incontrare gli intellettuali dissidenti e il cardinale Stefan Wyszynski, il mitico e inarrivabile primate di Polonia. Il giornalista televisivo Pierluigi Varvesi era stato un mio compagno del corso-concorso del 1968 per l’assunzione in Rai […]. Aveva agganci con la comunità polacca di Roma e mi suggerì di andare a cena con un giovane cardinale; me ne disse il cognome, che io però non riuscii per molto tempo a memorizzare […]. Incontrammo questo prelato che dimostrava i suoi 57 anni, ma era così atletico, massiccio, vivace e alla mano da sembrare più il titolare di una grossa parrocchia che il filosofo diventato arcivescovo di Cracovia.

Di lui mi colpirono due cose, che lo facevano assomigliare a certi parroci delle mie montagne: la faccia aperta e consumata dal sole e le enormi scarpe nere, che dovevano aver camminato parecchio. Mangiammo alcuni affettati e discutevamo del più e del meno, quando a Varvesi, noto fin dai tempi del corso per le sue imprevedibili intemerate da cui dovevamo proteggerlo, scappò detto: «Voi preti non dovreste occuparvi dell’educazione dei giovani a scuola. Fate soltanto danni». Il giovane cardinale scattò: «Lei dice queste cose perché vive in Italia, dove avete la libertà di scegliervi l’educazione che volete. Venga in Polonia e scoprirà che senza la scuola cattolica non esisterebbe nemmeno quel minino di libertà civile che ci viene concessa» […]. Quando il cardinale si fu calmato, gli domandai se poteva aiutarmi a incontrare Wyszynski.

Lui rispose che riteneva la mia richiesta impossibile: «Viviamo, in Polonia, un momento delicatissimo nei rapporti con il governo. Una parola fuori posto del primate potrebbe avere conseguenze imprevedibili». E aggiunse: «Se si accontenta e le va di passare da Cracovia, può fare, però, altre due chiacchiere con me». Andai, ma prima di arrivarci mi fermai a Varsavia per intervistare Jacek Kuron e Adam Michnik, i due più noti dissidenti laici rispetto al regime, fondatori del Comitato di difesa degli operai e animatori di una casa editrice clandestina. Li trovai rintanati tra immense pile di libri, con abiti sdruciti, il volto senza sorriso e un gran coraggio […]. Le mie interviste ai dissidenti fecero imbestialire il regime […]. Una sera l’ambasciatore italiano a Varsavia mi invitò a cena in residenza e, con grande cortesia, mi chiese di consegnargli le bobine delle mie interviste. Gli dissi che, naturalmente, non potevo farlo e che lui doveva rendersi ben conto dello scandalo che sarebbe derivato se si fosse saputo di questa richiesta.

Decidemmo allora di nascondere alcune pizze in albergo, altre ce le mettemmo addosso, ma se la polizia politica avesse voluto, non avrebbe faticato a trovarle. Sapevo, tuttavia, che non poteva farlo, perché l’imminente visita di Gierek in Italia ne avrebbe risentito molto. Per punirmi, lo staff del primo segretario, con il quale avevo faticosamente concordato ogni domanda, annullò l’intervista, rafforzandomi nella convinzione che quasi sempre i collaboratori sono più ottusi dei loro capi. L’episodio che fece maggiormente infuriare le autorità comuniste polacche fu però la mia visita a Cracovia nel novembre 1977 […]. Scoprii che l’arcivescovo – il giovane cardinale con le scarpe grosse che avevo conosciuto a Roma – era considerato un pericoloso sovversivo […]. Cercai di conoscere il suo mondo.

Mi recai nella redazione del “suo” diffusissimo giornale, il “Settimanale universale”: i redattori mi mostrarono i numeri che uscivano con parti delle pagine bianche perché alcuni articoli erano stati cassati dalla censura. Poi andai a Messa e non avrei mai più rivisto una chiesa così affollata, nonostante fosse una domenica qualsiasi. Quella gente non era lì soltanto per l’eucarestia: era lì per sentirsi viva, unita e libera, almeno nel pensiero e nella preghiera […]. Infine, mi presentai in casa del cardinale per l’intervista. Un’intervista politica a tutti gli effetti […]. Restai molto turbato dalla popolarità e dal carattere di quell’uomo e, quando mi accompagnò alla porta, abbracciandomi e dandomi appuntamento a Roma, gli dissi […]: «Eminenza, non sarebbe ora di avere un pontefice polacco?». Lui non se la cavò con una pacca sulla spalla, per esempio replicando che da 455 anni il papa era stato sempre italiano. Mi disse, invece: «Forse è ancora un po’ presto…». Quel giovane cardinale si chiamava Karol Wojtyla.

Bruno Vespa (Avvenire)