di Enrico Cattaneo
In un recente intervento (Osservatore Romano18/05/214, p. 5) il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Card. Gehrard Müller ha fatto una messa a punto molto importante sul valore che ha il Catechismo della Chiesa Cattolica e sulla sua ecclesialità. Non è un mistero per nessuno che questo documento, auspicato dal sinodo dei vescovi del 1985 e approvato da Giovanni Paolo II nel 1992, sia stato snobbato dalla maggior parte dei catechisti e dei teologi. È difficile che sia citato nelle aule delle facoltà ecclesiastiche e dei seminari. Già durante la sua preparazione ci fu una forte opposizione all’idea di un “catechismo universale”: non rischia - si diceva - di diventare un’imposizione dall’alto? Dove vanno a finire le ricchezze della singole inculturazioni della fede?
Ora il Card. Müller ne ripercorre la storia. Nel 1986 fu istituita una Commissione, composta più da “pastori” che da “studiosi”. Alla prima bozza, inviata a tutti i vescovi del mondo e ai superiori religiosi, risposero più di mille di essi. Il lavoro fu «un evento simbolico di collegialità episcopale», «un lavoro collegiale», che poi fu approvato dal Papa Giovanni Paolo II «in virtù della suprema autorità magisteriale di cui è investito»; dunque, «un buon esempio di cooperazione armoniosa tra il primato e la collegialità» (sono parole dell’allora prefetto, Card. Joseph Ratzinger). Quindi, «lungi dall’essere un’imposizione della Curia Romana, il Catechismo è il frutto della Chiesa universale. Contiene la saggezza collettiva dei vescovi di tutto il mondo, i quali rappresentano anche i fedeli delle loro chiese particolari».
Il Card. Müller si sofferma poi sui «tesori della Chiesa» racchiusi in questo Catechismo: anzitutto la Sacra Scrittura, perché, come scriveva s. Girolamo, «l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo»; poi i Padri della Chiesa, le fonti liturgiche sia d’oriente che di occidente e anche autori moderni come J.H. Newmann.
In un terzo passo, il Prefetto ricorda che «il cattolicesimo non è una filosofia, ma è una religione rivelata». Questo significa che esso non è una speculazione di tipo filosofico, che qualsiasi individuo può fare, ma una risposta a Dio che si è rivelato, prima nella singolare storia del popolo d’Israele e poi con pienezza in Gesù Cristo, che ha voluto e fondato la Chiesa. Questo “assenso” di fede però è “ragionevole”, come ricorda il Cardinale citando Paolo (Rm 12,2). Infatti, il Dio della rivelazione è lo stesso Dio della creazione, per cui non ci può essere contrasto tra fede e ragione, anche se l’assenso di fede non si basa sulla ragione, ma sull’autorità di Dio che si rivela.
Nell’ultima parte del suo intervento, il Card. Müller tocca il punto forse più difficile. Riportiamo prima le sue parole, sperando di non travisarle, e poi le domande che esse ci suscitano. Indubbiamente il Catechismo, che è stato scritto più di due decenni fa, porta i condizionamenti della storia. Significa forse che è superato?, si chiede il Cardinale. Per rispondere a questa poderosa obiezione, dice, bisogna ricordare che la rivelazione è avvenuta nella storia, e quindi la storicità fa parte della natura stessa della rivelazione: «In Cristo il Verbo eterno di Dio entra nella storia umana. Dio, facendosi uomo, applica a sé le condizioni di tempo e di spazio. Il Verbo eterno è nato in un luogo particolare, in un tempo particolare e in una cultura particolare». Questa “storicità” dell’incarnazione è condivisa dalla Chiesa. È una delle acquisizioni del pensiero moderno riconoscere che «la storicità è un elemento fondamentale della condizione umana. Noi siamo esseri storici». Di conseguenza, non ci dobbiamo meravigliare se il Catechismo porta «i condizionamenti della storia e della cultura», anzi «la storicità è uno dei suoi aspetti necessari». Sorge a questo punto un’altra domanda, altrettanto impegnativa, che il Card. Müller stesso si pone: non si cade allora «nel vicolo cieco relativismo storico»? La risposta che egli dà è una semplice indicazione, e dato il contesto di una conferenza, non poteva essere una lunga esposizione. La direzione da lui data va nella linea del linguaggio: perché un linguaggio sia comprensibile deve usare parole “condivise”, “parole pubbliche”, che operino la comunicazione, e in questo vi è evidentemente il condizionamento della storia. Ma le parole sono portatrici di un significato, e il significato è «la parola o il concetto» interiore, che «è già nel mio cuore», come diceva s. Agostino lì citato.
È proprio qui che noi vorremmo chiedere al cardinale, magari in un suo prossimo intervento, di spiegare meglio questo punto, e cioè come mettere insieme “storicità” e “verità”. Il concetto stesso di storicità è ambiguo. Oggi lo si fa coincidere che ciò che è mutevole, condizionato dai tempi e dalle culture. Se “tutto scorre” (il panta rei di Eraclito), non c’è più nulla di definitivo e di assoluto. In realtà la storia umana non è solo questo. Ci sono esigenze intellettuali, morali, giuridiche che hanno attraversato la storia e le culture. La nozione di giustizia, “dare a ciascuno il suo” (unicuique suum), elaborata dai romani 2500 anni fa è valida anche oggi, altrimenti non si farebbero le inchieste giudiziarie. Come insegnava sempre s. Agostino, c’è nella verità qualcosa di assoluto che trascende lo spazio e il tempo, e quindi anche la storia e la cultura. Se una cosa è vera, non lo è solo “per me” in “questo momento”, ma lo è “per se stessa”. Cogliere una verità, come insegnava il grande teologo Bernard Lonergan, significa cogliere qualcosa che è “virtualmente incondizionato”, e questo è l’atto del capire. La verità è un ponte verso l’eternità (o aeterna veritas, di S. Agostino!). L’atto del capire (insight) è qualcosa che viene prima dei concetti e prima del linguaggio, perché i concetti e il linguaggio nascono proprio da un atto di intelligenza. Se si trascura questo atto, si cade nel concettualismo o, peggio, nel nominalismo, dove i nomi, invece di adeguarsi alla realtà, pretendono di crearla a loro piacimento. L’atto del capire è quello che permette al medico di tradurre in termini tecnici quei sintomi che il paziente gli ha esposto con il linguaggio di tutti i giorni; è quello che mi permette di gustare le immagini dei poeti di tutte le culture e di tutti i tempi; è quello che mi permette di dire che il Simbolo niceno-costantinopolitano (che recitiamo nella Messa) non è una deviazione ontologica dalla semplicità del Vangelo, ma esprime la stessa verità intesa da Cristo e formulata dagli apostoli. Certo, nel campo della fede non basta la semplice luce della ragione naturale, occorre la luce soprannaturale, che è una grazia dello Spirito Santo, Spirito di Verità, di Sapienza e di Intelletto, come Papa Francesco sta dicendo nelle catechesi del mercoledì.