Papa in Terra Santa: Tempo di segni - Artigiani di pace - Il realismo di Francesco
(Jorge Milia) Tempo di Segni - Francesco che tocca il muro di Betlemme mentre prega. Francesco con Bartolomeo. Il patriarca che lo prende per mano perché il pavimento è scivoloso. Francesco con gli israeliani, con i palestinesi, con i giordani. Francesco, il Papa, che incontra, abbraccia e prega con musulmani ed ebrei.
Il vicario di Cristo non solo guarda e si stupisce della situazione della Terra santa, ma si ribella anche contro l’oppressione e la mancanza di dialogo tra quanti vivono lì senza riuscire a spiegarsi perché è così da tanto tempo, perché tanta discordia, perché tanto sangue.
Il Papa non ha esitato a dire che ritiene necessario che tutti abbiano «il coraggio della generosità e della creatività al servizio del bene», perché sarà questa premessa a permettere di giungere al «riconoscimento da parte di tutti del diritto di due Stati a esistere e a godere di pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti».
Durante l’incontro con Mahmoud Abbas, il Papa ha deplorato un conflitto che si protrae da oltre mezzo secolo e nel quale, «anche quando fortunatamente non divampa la violenza», l’incertezza della situazione produce «insicurezza, diritti negati, isolamento ed esodo di intere comunità, divisioni, carenze e sofferenze di ogni tipo». Ma a muovere il Santo Padre è stata la sua «vicinanza a quanti soffrono maggiormente le conseguenze di tale conflitto» e per questo ha affermato con veemenza che «è ora di porre fine a questa situazione, che diventa sempre più inaccettabile, e ciò per il bene di tutti».
Ed è qui che i cronisti legati ai canoni del politicamente corretto si domandano: può il capo di uno Stato pronunciarsi in modo così categorico sulle relazioni tra altri due Stati? Ma non è sicuramente questo a preoccupare il Papa. Forse Francesco si è domandato come sia possibile che in tanto tempo nessuno sia riuscito a raggiungere la pace. O forse il conflitto dà frutti a quanti sanno mantenerlo nel tempo?.
Le frontiere, le barriere fisiche, preoccupano Francesco molto meno dell’uomo che soffre. Il suo monito non s’impegola nella questione territoriale, ma mira al riconoscimento dell’esistenza dell’uomo con un senso cristiano e, all’interno di tale esistenza, al riconoscimento del dolore, dell’ingiustizia e della negazione della dignità umana. Francesco ha invitato le parti, ha invitato palestinesi e israeliani a dialogare. Ha invitato i capi di Stato. Non è stato il primo a farlo. Ma lui li ha invitati ad andare oltre, li ha invitati a pregare. E questo pregare insieme non ha precedenti. Colui che chiede continuamente a tutti i cattolici «pregate per me» fa un passo enorme nell’invitare quanti sono su fronti opposti a pregare per la pace, ma anche ad andare oltre, a pregare insieme a coloro che la situazione mantiene su fronti opposti.
E tutto ciò in un mondo in cui la preghiera sembra diventata, e non solo per i cattolici, una semplice password della propria fede, svalutata con il tempo. La richiesta «pregate per me» ne ha cambiato e attualizzato il significato. Francesco ha restituito ai cattolici la preghiera o, detto in modo diverso, ha restituito i cattolici alla preghiera, ma lo ha fatto anche con tutto il mondo. Le altre religioni non lo vedono come un antagonista, ma come un maestro.
La ragione è semplice, la sua gestualità è quella del primo passo. Non ipotizza che l’altro possa farlo per primo, lo fa lui. Preghiamo per lui.
Artigiani di pace
(Christopfer J. Hale, «Time» il 27 maggio) È difficile sostenere che Papa Francesco non sia il miglior politico al mondo dopo il suo viaggio in Terra santa quest’ultimo fine settimana. In cinquantacinque ore, il settantasettenne vescovo di Roma ha visitato tre Paesi, pronunciato quindici discorsi, piantato due alberi e tenuto una conferenza stampa rivoluzionaria di quarantacinque minuti. Con un fine settimana pieno di momenti di successo, potrebbe sembrare un po’ audace affermare che uno spiccava tra tutti. Ma se ce n’è uno che avrà un impatto duraturo sulla regione, è la sorpresa domenicale di Papa Francesco.
Mentre celebrava la messa all’aperto a Betlemme, Francesco, in modo del tutto inatteso, ha invitato il presidente israeliano Shimon Peres e il presidente palestinese Mahmoud Abbas in Vaticano a giugno, per un incontro di preghiera e di dialogo. Nel giro di un’ora entrambi avevano accettato.
L’apertura riuscita di Francesco è stata particolarmente rimarchevole se si considerano gli sforzi falliti degli Stati Uniti, all’inizio della primavera, per avvicinare le due parti al tavolo e dare inizio a discorsi di pace negoziati. A ogni modo, questa potrebbe essere la spinta di cui aveva bisogno il segretario di Stato John Kerry per ravvivare questo processo di pace, che è stato largamente fermo negli ultimi quattro anni.
Quasi subito, però, i commentatori hanno cercato di sminuire l’incontro. Daniel Levy ha detto a «The New York Times» che l’incontro non avrebbe «significato niente in termini di un quadro globale». David Horovitz, editore del «Times» d’Israele, ha aggiunto che «sarebbe ingenuo pensare che vedere Peres, Abbas e il Papa fare qualcosa insieme cambierà il mondo». Ha tuttavia ammesso che l’incontro aiuterebbe «lo sforzo per favorire un atteggiamento mentale differente tra israeliani e palestinesi».
Ma ridurre l’incontro di giugno a un atto meramente simbolico significherebbe non comprendere il ruolo che la religione può e dovrebbe svolgere nell’affrontare questioni politiche ed etiche difficili. Nel corso dell’intera storia del mondo, profeti religiosi hanno indicato la strada in situazioni tese per fare avanzare pace e giustizia. Nel secolo scorso, Gandhi, Martin Luther King e san Giovanni Paolo II ci hanno mostrato che la testimonianza religiosa può vincere una guerra senza alzare un dito.
Anche di recente, lo scorso settembre, Papa Francesco e la Chiesa cattolica hanno esibito i loro muscoli spirituali nella scia di un possibile intervento militare in Siria. Quando l’invasione sembrava ormai imminente, Francesco ha invitato la Chiesa a celebrare una giornata mondiale di preghiera e di digiuno. Durante la veglia tenuta in piazza San Pietro, Francesco ha domandato: «È possibile percorrere la strada della pace? Possiamo uscire da questa spirale di dolore e di morte? Possiamo imparare di nuovo a camminare e percorrere le vie della pace?».
Alcuni critici affermarono che la risposta di digiuno e di preghiera della Chiesa non sarebbe servita a cambiare la situazione in Siria. Ma si sbagliarono. La comunità internazionale negoziò un piano di disarmo per le armi chimiche siriane e gli Stati Uniti poterono evitare la terza importante campagna militare d’oltremare in dodici anni.
La preghiera ha davvero fatto la differenza? Difficile a dirsi. La violenza ancora sta travolgendo la Siria e il progresso verso la pace è difficile. Ma più volte, quando gli attori politici non sono riusciti a fare progressi nelle questioni più contese della società, è stata la religione a fare la differenza.
Se l’incontro di preghiera di Papa Francesco sarà il catalizzatore iniziale per riavviare i colloqui di pace in Medio Oriente e potremo in qualche modo porre fine alla violenza perpetua che tormenta la regione, allora sapremo che l’angelo Gabriele aveva ragione: «Nulla è impossibile a Dio».
Il realismo di Francesco
(Francesco M. Valiante - «Giornale di Brescia»)
C’è la diplomazia dei veti, delle ritorsioni, dei ricatti. Quella che non è in grado di tenere a freno gli appetiti dei potenti senza ricorrere alla forza deterrente delle armi perché — dichiarava sprezzante Bismarck — sarebbe come voler suonare «una musica senza strumenti». E c’è la diplomazia che ambisce a essere essenzialmente «una forma di amore per i popoli», così come la concepiva Giovanni Battista Montini ricordando nel 1951 ai futuri rappresentanti pontifici che «la Chiesa potrà avere mille vicissitudini, ma ha davanti a sé l’avvenire».
Il successo “diplomatico” del viaggio di Papa Francesco in Terra santa, unanimemente riconosciuto in queste ore dall’opinione pubblica mondiale, sta tutto in questa prospettiva di futuro: nella capacità, cioè, di guardare al destino dei popoli con occhi nuovi, liberi una volta per sempre dal retaggio, pur scomodo e pesante, del passato. Un atteggiamento che il Pontefice argentino, a lungo vescovo in una realtà sociale lacerata da contrasti e squilibri, ha interiorizzato nella sua metodologia pastorale. E che ha esemplarmente riproposto in un breve quanto importante intervento svolto a braccio durante l’incontro con i bambini palestinesi ospiti del campo profughi di Dheisheh: «Non lasciate mai che il passato determini la vostra vita. Guardate sempre avanti» ha raccomandato loro, ricordando che «la violenza non si vince con la violenza» ma «con la pace».
Nell’invito di Bergoglio a puntare in avanti non c’è ottimismo strategico o illusione in un domani sempre di là da venire. Del resto, è difficile comprendere l’ostinazione con cui il Papa insiste su questo punto restando prigionieri di logiche di corto respiro. Francesco conosce bene gli ostacoli che oggi intralciano il cammino della pace in Terra santa. E non a caso lancia il suo appello di fronte ai rappresentanti di una generazione che da qui a qualche anno avrà in eredità le sorti dello scacchiere mediorientale. Sa che nelle loro mani c’è la responsabilità del futuro. Quello di due popoli chiamati al coraggio di seppellire definitivamente rancori e rivalse. Quello di una città come Gerusalemme destinata a riappropriarsi della sua universale vocazione di “capitale delle tre religioni”. Quello di un’intera regione stanca di essere ostaggio dell’odio e della violenza.
La visione di Bergoglio è tutt’altro che “politica”, ma non per questo manca di realismo. Unito a un singolare estro e a una riconosciuta carica interiore. Lo dimostra il senso della clamorosa iniziativa di invitare i presidenti di Palestina e Israele in Vaticano: non per «fare una mediazione o cercare soluzioni» ha precisato lo stesso Pontefice, ma per pregare. Perché il silenzio dirompente della preghiera — come ha mostrato al mondo l’incontro del settembre scorso in piazza San Pietro per la Siria — e la potenza simbolica dei gesti (tra tutti la sosta al muro di divisione di Betlemme e l’omaggio alle vittime del terrorismo a Gerusalemme) appartengono a pieno diritto alla “diplomazia” montiniana dell’amore. Come ha implicitamente riconosciuto proprio l’anziano leader israeliano Shimon Peres, quando, accogliendo lunedì mattina Papa Francesco nel palazzo presidenziale, gli ha confidato: «La pace è questione di creatività e di ispirazione, e tu le porti entrambe con te».
L'Osservatore Romano