mercoledì 28 maggio 2014

La profezia di Yves-Marie Congar



Chi sa cosa avrebbe detto – o meglio cosa avrebbe scritto, data la sua penna prolifica – Yves-Marie Congar, se fosse ancora in vita, dopo un po’ più di un anno dall’elezione di Papa Francesco! Cosa avrebbe detto della scelta del nome Francesco? Della spiegazione di Bergoglio della scelta del nome? Del primo giovedì santo nel carcere minorile? Del compleanno celebrato con i poveri? Dell’utilitaria “papale”? Dell’umile croce sul petto? Della sosta vicino al “muro del pianto” palestinese? Dell’appello continuo al ritorno alla semplicità e alla sobrietà evangelica?
Il teologo che ha preso le difese dei prêtres ouvriers contro un rifiuto indiscriminato, ricordando che “un problema va compreso, non va condannato”, sicuramente rimarrebbe incantato da un Papa che parla di «una Chiesa povera e per i poveri». L’approvazione di Congar non ha bisogno di essere supposta o ipotizzata, basti guardare il suo piccolo libroPour une Église servante et pauvre del 1963 per capire la consonanza della sua visione con quella incarnata e invocata da Papa Francesco. Il volume viene presentato al pubblico italiano dall’Editrice Qiqajon della comunità di Bose, con una prefazione di Enzo Bianchi, priore della comunità. In appendice al testo di Congar si trova la versione integrale del cosiddetto “Patto delle catacombe”.
Il testo riproposto dopo circa 60 anni mantiene una sorprendente freschezza, una freschezza che «circolava – come nota E. Bianchi – in tanti ambienti ecclesiali, dai vescovi del “patto delle catacombe” ai primi gruppi biblici laici, ai teologi giudicati sospetti solo pochi anni prima a persone già allontanatesi dalla chiesa che ritrovavano stimoli per riaffacciarvisi e lasciarsi interpellare dall’energia inesauribile del vangelo».
Quale povertà?
L’appello alla povertà rivolto da Congar alla Chiesa non è un invito banale a un pauperismo spettacolare e – paradossalmente – esibizionista. Non è neppure fine a se stesso, ma è strettamente connesso al servizio verso i fratelli, e per rendere ragione della speranza. Forse le parole conciliari rendono in poche battute l’afflato profondo e profetico dell’invito di Congar: «Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendersi la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza» (Lumen Gentium 8). La testimonianza della povertà non è sfoggio pelagiano, ma è una conformazione cristica apportatrice di salvezza. Se è spiritualità, lo è perché strettamente agapica, cristologica e soteriologica.
La sfida del saggio di Congar è quella di porre e di proporre alla Chiesa le sfide che lei stessa, riecheggiando il Vangelo, da sempre mette di fronte al cristiano singolo come ideale di vita: il perdono ai nemici, preferire i mezzi poveri, riconoscere la tentazione dello spirito di possesso e di potere (15). Per fondare questa aspirazione, Congar costruisce la sua riflessione su un doppio binario biblico e storico, condensando una lettura e una visitazione dei testi scritturistici più importanti che devono forgiare il volto della sposa di Cristo. Il farsi piccoli ed ultimi, la scelta prioritaria della diakonia verso i più poveri e “i più piccoli” tra i fratelli di Gesù, essendo il discepolo non semplicemente uno scolaro che riceve un insegnamento, ma «uno che imita il maestro e ne condivide la vita» (29). Lo stesso Cristo invita esplicitazione all’imitazione della sua figura di  maestro e signore che lava i piedi ai suoi amici. In quest’esortazione Congar vede un ordine solenne e quasi una «ordinazione» (35).
L’evoluzione storica dell’idea di chiesa
Il saggio di Congar traccia l’evolversi di questa freschezza e radicalità evangelica dalla Chiesa dei martiri fino all’epoca della redazione del volume. In questa sede, il teologo dominicano nota come la liturgia antica non conosce una separazione tra l’io di chi presiede e la comunità. L’autorità, affermata e praticata (basti pensare a sant’Ignazio d’Antiochia), non distingue, bensì ordina il vescovo al servizio della comunità. Tale volto di autorità è riassumibile nella confidenza di san Cipriano: «Mi sono dato la regola, fin dall’inizio del mio episcopato, di non decidere nulla secondo la mia opinione personale, senza il vostro parere (presbiteri e diaconi) e senza il consenso del popolo». La Chiesa antica, pur struttura canonicamente, esprimeva una grande docilità allo Spirito che parla tramite il carisma delsensus fidelium.
Il «periodo benedettino» - come ama Newman chiamare l’epoca che va da san Gregorio Magno a Sant’Anselmo - è segnato e abbellito da uomini dalla radicata spiritualità (monastica) che incarnano gli ideali stilato dallo stesso san Gregorio nella sua Regola pastorale. La convinzione di fondo è che l’uomo che esercita l’autorità deve essere un uomo spirituale, e solo in quanto tale è legittimato ad esercitarla. La convergenza tra ecclesiologia, antropologia, spiritualità, escatologia e soteriologia non era il lusso di una interdisciplinarietà accademica, ma l’espressione di una felice sintesi vitale.
L’epoca successiva, anche a causa del legittimo riscatto della chiesa dal potere temporaneo dei sovrani, sarà segnata da un progressivo giuridismo che si allontanerà gradualmente dall’antropologia spirituale (63). Il termine “chiesa” inizierà a significare sempre più l’infelice e grave riduzione della comunità cristiana e dell’insieme dei cristiani al «sistema, l’apparato, o il soggetto transpersonale di diritto, di cui il clero – o, come si dice oggi, la “gerarchia” -, ma in definitiva il papa e la curia pontificia sono i rappresentanti» (64). Tale «gerarcologia» era estranea alla Chiesa protocristiana e patristica.
Verso un recupero evangelico dell’autorevolezza
La via proposta da Congar è quella del recupero del carattere spirituale della chiesa del martiri e dei padri, mirando ad edificare la comunità fatta di uomini di Dio (72). Tale ritorno – secondo Congar – si fa sempre più necessario perché «stiamo tornando a una situazione precostantiniana in un mondo pagano, con la consapevolezza di esservi minoranza e di dovervi annunciare Gesù Cristo, noi andiamo verso un tempo in cui, senza nulla perdere delle acquisizioni valide fatte nel corso della storia, ritroveremo forme integralmente evangeliche di esercizio dell’autorità nel mondo nuovo in cui Dio ci chiama a servirlo» (75).
Congar delinea così una visione e una figura cristiana di autorità e dell’esercizio della stessa che possiamo riassumere in un’espressione di Lucien Laberthonnière che afferma (in sintonia con l’Aquinate): «L’esercizio dell’autorità, in generale, non è che una delle forme di ciò che noi dobbiamo fare gli uni attraverso gli altri e gli uni per gli altri in vista del nostro comune destino». L’esercizio dell’autorità allora si manifesta come legittimato dalla sua finalizzazione teologale e teologica. Il ministero è in vista del vivere la carità di Cristo e va esercitato secondo questa stessa finalità nel dono totale e definitivo di sé. In forma più aforistica sarebbe non dominari, sed ministrare.
Ciò non costituisce affatto una negazione o, peggio, una demonizzazione dell’autorità. Il teologo di Saulchoir non è ingenuo! Egli sa e afferma chiaramente che «sarebbe errato pensare che l’ideale del servizio nell’amore elimini ogni “potete”». Egli sa bene che nell’autentica visione evangelica vi è un posto fondamentale e fondativo dell’autorità. Un’autorità che è exousia, e che non ha bisogno di imporsi perché contiene in sé la propria legittimazione, una legittimazione volta a Cristo e da lui voluta. È solo una trasfigurazione del volto dell’autorità: non servirsi del gregge ma servirlo. Non pascolare se stessi a spese del gregge, ma offrirsi fino all’immolazione per il gregge. Il potere è necessario, ma bisogna concepirlo,  come un dovere e non come un diritto, come spiega bene il grande filosofo russo Nikolaj Berdjaev che afferma che «il potere è giusto solo se non lo si rivendica a nome proprio e della propria cerchia, ma soltanto in nome di Dio, in nome della verità». Questo potere, per essere esercitato degnamente dalla Chiesa di Cristo va salato con due condimenti imprescindibili: povertà e servizio.
In breve, il libro di Yves-Marie Congar è chiaroveggente nelle sue previsioni, profetico nella sua visione e accattivante nella sua visuale. Una lettura raccomandata.
R. Cheaib