sabato 31 maggio 2014

Chi era il fratello del Figliol Prodigo?



di Luca Marcolivio   per Zenit
Due fratelli di diciassette e diciannove anni, orfani di madre, nel fiore della loro gioventù. Si vogliono bene, condividono ogni cosa e il padre stravede per loro.
Un giorno, poi, improvvisamente, il più giovane decide di lasciare i suoi cari e, facendosi prestare il denaro necessario, si incammina verso una destinazione ignota, senza nessuna certezza sul ritorno.
Mentre il padre accetterà il fatto con stoica e malinconica rassegnazione, la reazione del fratello maggiore è incredula, rabbiosa, carica di risentimento.
Quella del Figliol Prodigo (o del Padre Misericordioso) è probabilmente la più celebre ed amata delle parabole evangeliche (Lc15,11-32), una storia ascoltata decine di volte nelle omelie domenicali, che, tuttavia, non smette mai di commuoverci e farci riflettere.
Identificarsi in uno dei tre personaggi – il padre o uno dei due figli – è facile e ognuno di essi, in misura diversa, incarna una parte della nostra personalità.
La parabola del Figliol Prodigo, in duemila anni, ha ispirato dipinti (Bosch, Rembrandt, De Chirico), opere liriche o balletti (Ponchielli, Prokofiev) e commedie (Voltaire) ma mai un romanzo. L’assassino di mio fratello (Giovane Holden Edizioni, 2013), opera prima di Gerardo Ferrara va a colmare questa lacuna.
Trentacinquenne romano di origine lucana, forte dei suoi studi sulle culture mediorientali, sulle religioni abramitiche e sulla filosofia semitica,  Ferrara riesce nel suo intento di ricostruire lo sfondo storico e antropologico della Galilea immediatamente precristiana, con tutte le sue tradizioni, i suoi usi e costumi, senza lesinare particolari crudi e violenti, nello spirito di un certo filone veterotestamentario.
L’Autore assume il fratello maggiore come io narrante, optando quindi per una lettura complessa e “moderna” della vicenda. Nel protagonista Shimon è individuabile tutta la fragilità dell’uomo contemporaneo che vede miseramente franare ogni velleità di costruzione della sua personalità su valori “borghesi” e “di facciata”, sull’adesione ad una morale (nel caso specifico quella della legge mosaica, in particolare nel quarto Comandamento), sulla rispettabilità, sull’identificazione dell’uomo con il proprio “fare”, piuttosto che con il proprio “essere”.
Nel giovane e ingenuo David, invece, il lettore potrà scorgere l’umanità rigenerata dal dolore per il proprio peccato e riscattata dall’unico vero amore che non tradisce: quello del Padre che dolorosamente rispetta la libertà dei propri figli, anche nel loro errore, e che vibra di gioia incondizionata per la loro sola vicinanza.
Il ritorno di David, quindi, spiazzerà Shimon fino allo sgomento, infrangerà tutte le sue false certezze, lo getterà nell’abisso della disperazione e della crisi di identità, perché lo ha reso consapevole di non saper amare, fino a percepirsi, in qualche modo, come l’assassino morale di suo fratello.
Scritta in un singolare tempo presente, a metà strada il diario e un incedere cinematografico, la storia si caratterizza per una curiosa nemesi, per cui, in distinti momenti, sarà Shimon, a sua volta, a mettersi in viaggio e ad abbandonare la famiglia.
Rocambolesche avventure lo porteranno sulle tracce del fratello scomparso e Shimon, più volte, si metterà nei guai, arrivando a rischiare la vita e a commettere persino due orribili delitti. Sarà proprio questa immersione negli abissi del male e del peccato, a condurlo lungo strade mai immaginate prima e, alla fine, la redenzione si compirà, in maniera assai sorprendente, anche per il fratello maggiore.
Fedele e scrupoloso nella ricostruzione storica, L’assassino di mio fratello è articolato su un linguaggio agile e moderno. La narrazione è dinamica ma, al tempo stessa molto riflessiva ed introspettiva, richiamando in parte l’approccio dei grandi scrittori russi del XIX secolo, Dostoevskij in primis.
L’assassino di mio fratello è, in definitiva, un’opera che potrà risultare gradita a vari tipi di lettori: agli appassionati del romanzo storico, ai biblisti, agli amanti della fiction a sfondo religioso, come pure a chi è in cerca di stesso e – anche inconsapevolmente – anela al grande dono della Misericordia.

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Susanna Tamaro, quanta profondità in poche pagine
di Rino Cammilleri
Non c’è quasi romanzo americano che non consti di almeno cinquecento pagine. I provinciales lo sanno e si accodano. Perfino il mitico Umberto Eco, col suo Nome della Rosa, si adeguò. Ma gli americani, si sa, monetizzano tutto, non c’è da aspettarsi altro da una nazione creatasi per motivi di soldi (la settecentesca guerra d’indipendenza non fu che un’indipendenza dalle tasse britanniche). E gli «alti ideali» per cui fanno da sempre i «guardiani della democrazia nel mondo» sono solo quelli, economici, nazionali. Si badi, non c’è nulla di antiamericano in questo discorso: potendo, anche noi faremmo lo stesso. Ora, un americano medio fa questo ragionamento: se devo spendere sui venti dollari per un libro, voglio che il godimento duri almeno una settimana. Da qui la voluminosità media dei romanzi americani.
Ma un vero scrittore, a meno che non racconti una saga generazionale, non ha bisogno di centinaia di pagine. Grandi scrittori, per esempio, si sono cimentati col genere «aforisma», che per sua natura è stringatissimo. La capacità di cogliere quel che agli altri sfugge (cifra del grande scrittore) emerge meglio nella concisione. Non a caso il più grande comunicatore di tutti i tempi, Gesù, si esprimeva in parabole, cioè racconti brevissimi, storie di poche righe ognuna delle quali conteneva un universo. Per questo una delle nostre grandi scrittrici (forse l’unica), Susanna Tamaro, ha scelto di scrivere libri brevi. Anzi, sempre più brevi, come l’ultimo, Meditazioni sulla Passione, che si presenta pure in piccolo formato. Non è altro che una Via Crucis, come quelle che il papa presiede il Venerdì Santo al Colosseo: stazione, meditazione, preghiera, brano finale dello Stabat Mater.
Ma ecco la profondità della riflessione: «Ci sono frasi di Gesù che amiamo molto. Anche chi con Lui ha una frequentazione scarsa sa ripeterle senza alcun inciampo, mentre ce ne sono altre –e non poche- che preferiamo tenere in un cono d’ombra. Ci inquietano e noi non vogliamo essere inquietati, vogliamo essere rasserenati». Quando, nell’VIII Stazione, Gesù incontra le pie donne, dice loro di non piangere su di lui ma su se stesse e i loro figli. Malagrazia di Gesù nei confronti delle prefiche? Ricambia la loro compassione con una minacciosa profezia? Tamaro: «Ma la profondità del Suo sguardo sa sempre discernere tra ciò che sembra e ciò che è vero. Le lacrime della convenzione parlano di un dolore esterno, puramente scenografico. Si sfoga l’emotività, ci si sente meglio e poi tutto torna come prima». Alla meditazione segue la preghiera: «Signore Gesù, quante lacrime vuote inondano i nostri giorni! Basta guardare un qualsiasi programma televisivo per esserne travolti». No, le lacrime che veramente lavano sono quelle di «un cuore di plastica, un cuore di pietra che, all’improvviso, scopre di essere di carne (…). Prima non vedevo e ora vedo, per questo piango».
La stazione in cui Gesù è spogliato delle sue vesti genera questa preghiera: «Quando penso alla Tua nudità mi ricordo che l’ottanta per cento delle persecuzioni religiose nel mondo, ora, riguarda i cristiani. È sempre la Tua parola a suscitare l’odio di chi ama le tenebre (…). Donaci la nudità dell’innocenza, il coraggio di andare sempre incontro al male cantando». Il terremoto che segue la morte di Gesù: «I terremoti conducono a noi la forza dell’annientamento. Ciò che abbiamo costruito, in pochi istanti crolla, scompare, ritorna indistinto (…). Credevamo di avere il mondo in pugno e invece è il mondo a tenerci in pugno». Il grido di Gesù, «Dio mio, perché mi hai abbandonato?»: invece di «fare scandalo, queste Sue parole ci confortano», perché indicano che Dio sa bene che cosa spesso patiamo.
La scrittrice va oltre, e in un’altra stazione fa sue le parole di rammarico che Benedetto XVI pronunciò, a proposito della Chiesa, in una storica Via Crucis: «Signore Gesù, la Chiesa in cui il Tuo spirito continua a vivere è una barca su cui nessuno vuole più salire». Ma è interessante che, tra le cause elencate, ci siano la «troppa incapacità di parlare alla disperata solitudine dell’uomo contemporaneo» e, significativamente, la «troppa banale liturgica bruttezza». Alla prima sembra stia egregiamente ovviando la strategia comunicativa di papa Francesco, fatta, appunto, più di gesti che di parole. Per la seconda, temo che dovremo pazientare ancora un bel pezzo, anche se gli spiriti più sensibili (come la Tamaro, ma pure, a suo tempo, Agatha Christie) scalpitano insofferenti. Ma qui rischio di usare troppe parole, laddove al grande scrittore, come sappiamo, basta una laconica frase: un sasso nello stagno, e i cerchi vanno fin dove trovano orecchi per intendere.

-Susanna Tamaro, Meditazioni sulla Passione, con Nota dell’arcivescovo di Trieste, Giampaolo Crepaldi. Bompiani, pp. 93.