martedì 27 maggio 2014

Come nel giorno di Pentecoste




(Giovanni Maria Vian) Ha un significato profondo e impegnativo il fatto che le ultime parole pronunciate da Francesco in Terra santa siano state quelle dell’omelia nella messa celebrata nel Cenacolo. Una tradizione antica, infatti, identifica questo semplice e suggestivo ambiente ora di impianto medievale con la piccola sala dove Cristo cenò per l’ultima volta con i suoi e dove, cinquanta giorni dopo quella Pasqua, lo Spirito scese su Maria e sugli apostoli dando inizio al cammino della Chiesa.
Al Cenacolo il Papa ha concelebrato con i vescovi di Terra santa — che sono stati sempre con lui in questi tre giorni — per rendere visibile anche in questo modo la comunione tra Roma e comunità cattoliche di riti diversi, che vivono in situazioni anche molto difficili ma restano vitali. E Francesco ha raccomandato ancora una volta una Chiesa che esca, sull’esempio degli apostoli i quali, dal luogo dov’erano riuniti con Maria, uscirono per annunciare le opere di Dio.
Questa memoria è il fondamento della missione della Chiesa, che è preoccupazione costante del Papa, come è stato confermato anche dalla conferenza stampa sul volo di ritorno. E proprio il riferimento a Dio è il filo che lega un viaggio fitto di segni destinati a restare nella memoria di tanti, e non solo dei credenti: Francesco che immerge la sua mano nelle acque del Giordano prima di abbracciare i profughi palestinesi, iracheni e siriani, la preghiera davanti al muro che taglia Betlemme, l’omaggio alle vittime del terrorismo e il chinarsi per baciare le mani dei sopravvissuti alla tempesta indicibile della Shoah.
Segni che indicano con chiarezza la «politica papale», che prende le parti di ogni essere umano sofferente e che da Paolo VI — in una meditazione scritta poche settimane dopo l’elezione — venne definita come «iniziativa sempre vigilante al bene altrui». Lo hanno capito le guide più sagge della regione, che durante il viaggio hanno coinciso nel riconoscere appunto l’autorità morale del Pontefice e a lui si erano rivolte per tentare il superamento di una situazione sempre più insostenibile. Così è nato l’invito in Vaticano a Mahmoud Abbas e a Shimon Peres per invocare da Dio la pace.
Ed è proprio la preghiera, quella insegnata da Gesù ai suoi, a permettere di entrare davvero nel viaggio del Papa e a unire tra loro i due momenti forse più espressivi del pellegrinaggio. Il Padre nostro, da Francesco trascritto in spagnolo — come l’ha imparato da sua madre, ha voluto spiegare — sul foglio che ha lasciato nel Muro occidentale è infatti stato recitato nella basilica del Santo Sepolcro dal vescovo di Roma insieme a quello di Costantinopoli. Due fratelli che si sono abbracciati ricordando e ripetendo l’incontro di mezzo secolo fa a Gerusalemme tra Atenagora e Paolo VI.
In una liturgia semplice e solenne, dopo la proclamazione del Vangelo in greco e in latino, il vescovo di Roma e quello di Costantinopoli hanno detto insieme in italiano il Padre nostro, poi ripetuto ad alta voce da tutti i presenti, ciascuno nella propria lingua. In una mescolanza che non è confusione ma piuttosto — come a Pentecoste — celebrazione, nella varietà, dell’unico Dio, amico degli uomini.

L'Osservatore Romano

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AsiaNews 
(Bernardo Cervellera) L'invito del pontefice a ospitare i leader israeliano e palestinese in Vaticano è un primo segno di "successo" del viaggio in Terra Santa. L'incontro che si terrà forse in giugno sarà un incontro "di preghiera". Papa Francesco crede alla forza dell'invocazione (...)