(di Cristina Siccardi) Don Divo Barsotti, del quale quest’anno si celebrano i cento anni dalla nascita (1914-2006), pur essendo stato prolifico pensatore e scrittore, non viene citato dalla maggioranza dei teologi. Per quale ragione?
Seppure apprezzato dalle più alte gerarchie ecclesiastiche a lui contemporanee, questo monaco mistico fu un “grillo parlante” che non ebbe paura di mettere, pubblicamente, il «dito nella piaga»:la volontà di molti uomini di Chiesa di abbracciare il mondo. Pietro Zovatto, autore dell’introduzione al libro del monaco toscano L’attesa. Diario: 1973-1975 (San Paolo, pp. 266, € 17.00) scrive:
«Anche il Concilio Vaticano II, e più precisamente nella costituzione Gaudium et spes, non sfugge all’ambiguità nel determinare il rapporto chiesa-mondo e si lascia sfuggire un’occasione unica, quella di portare la Croce al centro dell’assise conciliare. Forse i padri conciliari opinavano di non prendere di petto l’orientamento prevalente del “processo della storia” in corso verso la mondanità, mentre proprio questo “ipostatizzare la vita del mondo” (20.7.1974) è come legittimare il rifugio dell’uomo in un luogo dove non si trova che l’assenza di Dio, nella “vanità di ogni valore creato. Lo Spirito Santo sempre ha assistito la sua Chiesa, e il Concilio Vaticano II nel cambiare tutto, a cominciare dalla pietas con il “culturalismo liturgico”, fa quasi un atto di accusa allo Spirito Santo che fino agli anni Sessanta non avrebbe assistito la sua Chiesa in modo adeguato» (pp. 15-16).
L’attesa è il quindicesimo Diario di don Barsotti, in esso emergono osservazioni, riflessioni, considerazioni schiette e genuine, chiare manifestazioni di un’anima che cerca la santità propria ed è assetato di santità altrui, alla quale attingere… ma l’orizzonte è alquanto spoglio. Infatti, il 14 maggio 1975 scrive: «Chiaravalle milanese. Ho ascoltato stasera P. Leclercq. Anche i più grandi uomini quando non sono dei santi non fanno che rivelare la loro povertà» (p. 228).
Jacques Leclercq (1891-1971), moralista e sociologo, canonico e professore all’Università di Lovanio, tese a una teorizzazione del diritto naturale che, pur ispirata al tomismo, soddisfacesse le istanze della cultura contemporanea; ma don Barsotti non ha mai desiderato soddisfare le necessità della filosofia, della teologia e della cultura contemporanee, bensì quelle dell’anima, centro della vita terrena ed eterna di ogni individuo.
In molte pagine don Barsotti ci appare come un latitante della Chiesa, una Chiesa che non gli dà quel nutrimento di cui egli grida il bisogno: «Vuoto. Non si può costruire sull’acqua, né l’albero cresce e vive senza radici. Questo ci sembra oggi la Chiesa. (…) Sono legato da innumerevoli impegni che danno solo l’impressione della vita e non fanno in realtà che assicurare la morte. La scuola in seminario a giovani che non ascoltano e non si interessano; predicazione a sacerdoti, a religiosi, a suore che ascoltando hanno compiuto il loro dovere per poter continuare poi la loro vita, per mascherare così a loro stessi il deserto e il silenzio di Dio. Mio Dio, liberami da questo inganno; fammi vivere» (p. 223).
Egli si scaglia contro l’orgoglio e la superbia, contro l’antropocentrismo, contro tutto ciò che impedisce al Cristianesimo di esprimere la sua dirompente forza, ovvero la sua «passione»: senza passione, intesa sia come amore e sia come calvario, non si vive, ma si muore. «Come si salverà il mondo? Tutto sembra precipitare nel caos e nella morte. (…) La Chiesa si disfà. Che cosa ci chiede Dio per collaborare alla salvezza del mondo? Null’altro, ci sembra, che l’obbedienza e la fede, ma costano più di un martirio di sangue» (p. 221).
L’autore ci rivela tutto il suo dolore e questa sua immane angoscia, sia spirituale che intellettuale, è così alta da preferire ad essa un martirio di sangue. Eppure ci pare di intravvedere uno spiraglio di speranza: i grandi santi della Sposa di Cristo sono riusciti, da soli e con la Grazia del Signore, ad edificare la Città di Dio anche nel mondo: «Perché ci si agita tanto per quanto si fa, per come si governa la Chiesa, per quello che non si fa e si vorrebbe che fosse fatto?.. non solo i santi del medioevo potevano vivere la loro unione con Cristo e con la Chiesa senza occuparsene troppo, ma perfino i santi della Controriforma non erano, non sono stati mai eccessivamente turbati per quanto si faceva a Roma. Chi ne fu turbato non fu Ignazio ma Lutero» (p. 31). I santi, in fondo, non si preoccupano, ma si occupano di costruire là dove si distrugge. (Cristina Siccardi)