...la ricerca della libertà
Interrogativi dopo la lettera delle 26 donne che amano i preti e la confessione di un ex-sacerdote ora sposato
MARIA TERESA PONTARA PEDERIVAROMA
“Sono stato sacerdote per 17 anni, dai 24 ai 41 anni, dal 1982 al 1999. E mi è sempre piaciuto fare il prete, l’ho sentito come il senso più profondo della mia vita: ho cercato di vivere con radicalità quella scelta. A un certo punto, la vita mi ha presentato il conto. Il ‘problema affettivo’ mi è scoppiato fra le mani”. Inizia così il racconto di una vita da ex-prete, ora sposato, pubblicata sulla cronaca di Milano di Repubblica. Fiorenzo De Molli, milanese, traccia le coordinate di una “vita affettiva non in sintonia con la vita sacerdotale”, con una scelta di celibato, non pienamente maturata lungo il cammino di preparazione. E oggi, a distanza di quindici anni, il suo grazie va in particolare a tre persone: innanzitutto la moglie che ha saputo metterlo davanti a un bivio, dopo avergli dichiarato di essersi innamorata; “E tu che fai?”, il suo vescovo, il cardinale Martini, e don Franco Brovelli, allora responsabile dei giovani preti, che han saputo accompagnarlo alla “sua” nuova scelta, alla dispensa e al matrimonio.
E Fiorenzo, oggi marito e padre felice (due figli di 12 e 8 anni) ha una richiesta da rivolgere a quelle ventisei “donne che amano dei preti” che hanno scritto quella lettera al Papa: “Date loro lo spazio e tutto il tempo necessario, ma chiedete loro di arrivare a una scelta. La più chiara e la più limpida possibile. E poi rispettate quella scelta. Siamo chiamati a vivere alla luce del sole: è un diritto dei preti, ma soprattutto è un diritto vostro».
E qui sta tutta la "devastante sofferenza" che emerge dalle parole della lettera delle ventisei al Papa: è il grido di chi sta vivendo una delle situazioni più umilianti in cui può trovarsi una donna (se non si tratta di una libera scelta), la condizione di amante o di prostituta. Discutibile, anche se comprensibile, la via d’uscita che quelle ventisei donne sembrerebbero ipotizzare: l’abolizione dell’obbligo del celibato e la possibilità per i loro partner di sposarsi, pur restando preti.
Probabilmente la via più lontana, vista la tradizione di secoli da parte della Chiesa cattolica in senso contrario ai loro desideri: più facile ipotizzare un’apertura all’ordinazione dei ‘viri probati’, uomini già sposati cui potrebbe essere concesso di diventare preti, pur restando all’interno della loro famiglia, alla stregua dei pastori anglicani accolti in casa cattolica perlopiù con moglie e figli. Eppure la loro ipotesi sarebbe ‘un’ modo per uscire da una logica di doppiezza, purtroppo non così rara.
“Le grandi scelte devono essere pagate e pagate a caro prezzo”, scrive però Fiorenzo. Abbandonare la tonaca significa innegabilmente lasciare qualcosa anche dal punto di vista economico e sociale: “Oggi so che devo guadagnare uno stipendio per mantenere i miei figli, so che devo risparmiare, pagare il mutuo. Non sono più don Fiorenzo e questo ti toglie un sacco di potere, uno stipendio sicuro, un alloggio, l’autonomia decisionale”. Lui non ha rimpianti, ma sa cos’ha lasciato: “Mi manca il celebrare la messa, la facoltà di confessare e di dire Dio ti perdona. La vita che faccio oggi, è un po’ il proseguimento di quel che facevo prima, al servizio dei poveri. Da prete andavo in galera e avevo i rom in parrocchia, così come oggi mi occupo di profughi e di emarginati”.
Una via diversa da quella ipotizzata dalle ventisei compagne della lettera, una vita, per semplificare, che dopo lungo discernimento ha “optato” per un amore personale piuttosto che a quello universale, ma identica è la condivisione d’intenti con la lettera: quel desiderio di “vivere alla luce del sole” o “di rompere quel muro di silenzio e di indifferenza” che mantiene le bocce ferme (così almeno non si rompono). Certo è difficile generalizzare: percorsi e sensibilità sono e restano eminentemente personali (e solo un’adeguata preparazione di “crescita” umana e affettiva possono far emergere con chiarezza il destino della propria vita), ma, come notavano Torresin e Caldirola, autori dei una lunga riflessione su “Il prete innamorato” (Settimana 18/2014) “la situazione più frequente e pericolosa è quella di adattarsi a una doppia vita”.
Un elemento di certezza: oggi che papa Francesco parla di una Chiesa “ospedale da campo”, questa è un’ulteriore testimonianza delle tante ferite da accogliere con delicatezza ed empatia. Perché se non si è disposti alla scelta definitiva di Fiorenzo, il dolore è lancinante.
Ma sono molti anche quelli che hanno optato per una terza via: mantenere fede all’impegno preso un giorno in piena coscienza nelle mani del loro vescovo. Se ogni uomo/donna è fatto per amare, pochi sono quelli a non aver mai vissuto l’esperienza di un innamoramento, prima o dopo l’ordinazione. “Una delle esperienze più entusiasmanti - raccontava con gli occhi che si illuminavano, don Dante Clauser, il prete trentino dei poveri - ma la sofferenza si è trasformata in una serenità indescrivibile e in un amore ancora più grande per il Signore che mi aveva dato la forza della fedeltà”.
Perché occorre notare che il celibato per un monaco o un religioso non è una imposizione della Chiesa, ma una scelta-vocazione personale. Nessuno è obbligato a emettere i voti di povertà, castità e obbedienza, ma solo in risposta a una vocazione a cui la persona sente di poter rispondere in libertà dopo un prolungato discernimento (postulandato, noviziato, voti temporanei fanno almeno sei anni di ‘prova’!).
Diverso è il caso del presbitero diocesano: lì è la scelta-imposizione della Chiesa latina che chiede all’aspirante presbitero di riconoscere – dopo matura e prolungata riflessione – di accettare il celibato quale condizione necessaria per essere ordinato (e il presbiterato non è un diritto).
È legittimo pertanto interrogarsi sul celibato, anche alla luce dell’esperienza delle chiese riformate o del ministero dei preti protestanti che diventano cattolici (negli Stati Uniti lavorano alla pastorale sociale o familiare con ottime sensibilità), ma affiorano altre domande. Quanto il tema del celibato interviene all’interno delle crisi dei preti? È davvero così lontana l’ipotesi dell’ordinazione di uomini sposati? La ‘teorizzazione’ e la pratica della ‘doppia vita’, messa in atto da alcuni presbiteri, anche in Europa, è in grado di anticipare una riforma del ministero ordinato? E ancora: com’è vissuto il rapporto preti-donne all’interno delle nostre comunità? Esiste davvero una libertà o scontiamo secoli di equazione donna uguale peccato? Quanti preti sarebbero disposti ad accettare ‘una donna per amico’ senza incorrere in crisi di ‘prudenza’?
Tuttavia, proprio spostandosi sul versante femminile la lettera solleva alcuni dubbi sulla percezione della realtà di una coppia che decide di costruire una famiglia (e anche qui occorre un cammino di preparazione). Premesso che ogni vita a due è del tutto originale, sembrerebbe più segno di una scelta d’amore quella di Fiorenzo che ha “lasciato” una strada, se vogliamo un lavoro-missione che amava, e ha deciso per la sua donna. È ciò che fanno tanti coniugi, il cui marito/moglie è chiamato a spostarsi per motivi di lavoro (cambiando città, paese, continente), è la scelta di tante mogli che abbandonano ogni possibilità di carriera per chiedere un part-time che significa più tempo per la famiglia (e oggi non solo per i figli, ma anche per genitori anziani) o di due genitori quando la malattia di un figlio li obbliga a rivedere tutte le proprie abitudini di vita… La vita di famiglia è un continuo dono della propria vita, una continua scelta per amore.
Ma una scelta d’amore è sempre totalizzante: se un prete ama una donna, non è capace per lei di cambiare prospettiva di vita? E se una donna si accorge che il lavoro di lui diventa per l’amato così indispensabile per la sua vita quale amore più grande del dirgli “segui la tua strada”?
“Ti amo così tanto che ti lascio libero di amare un’altra, altri o il tuo lavoro più di me”.