venerdì 30 maggio 2014

Un angelo in prigione



L’incredibile storia di madre Atonia Brenner, fondatrice dio un ordine religioso dopo due divorzi e sette figli, passata dal lusso di Beverly Hils a servire il Signore fra i detenuti violenti del Messico
 di Andrea Galli
L’ album dei fondatori è pieno di storie sorprendenti e improbabili. Quella di madre Antonia Brenner, che si è spenta lo scorso 17 ottobre a 86 anni, è certamente una di queste: ha fondato una famiglia religiosa, le Serve eudiste dell’undicesima ora, dopo metà della vita trascorsa in uno degli angoli più esclusivi d’America, Beverly Hills, e l’altra metà all’interno di una delle prigioni più violente del Messico, a Tijuana, avendo alle salle non uno ma due divorzi, e con sette figli ancora in vita. Una di quelle storie le ricordano come Dio sa trarre il bene più grande anche dai fallimenti esistenziali e di come le sue vie sono veramente infinite.
Mary Clarke, questo il suo nome di battesimo, era nata a Los Angeles il 1 dicembre del 1926, la seconda di tre figli. Aveva perso la madre all’età di tre anni ed era cresciuta legatissima al padre Joseph, figlio di immigrati irlandesi, un tipo di grande fede con un’altrettanta grande voglia di uscire  dal cono d’ombra della povertà: dopo aver superato la Grande Depressione stringendo i denti, si era arricchito durante la guerra come fornitore di materiale da ufficio per l’esercito. Mary era cresciuta nella cittadina residenziale di Beverly Hills, fra il Jet set di Los Angeles, si era innamorata diciottenne di un amico del fratello maggiore e a diciannove anni si era sposata.Il suo primo figlio era morto durante il parto, un’esperienza che l’aveva traumatizza ma le aveva fatto scoprire la consolazione della preghiera. Erano seguiti altri due figli, ma dopo soli tre anni si era separata: il desiderio di arricchirsi aveva portato il marito Ray a ricorrere alla scorciatoia del gioco d’azzardo, con debiti crescenti e la distruzione della pace domestica. Mary aveva cercato di tenere in piedi il rapporto, ma alla fine era stato Ray a voler togliere gli ormeggi. Desiderosa di dare comunque una figura paterna ai propri figli, nel 1950 si era risposata con un giovane uomo d’affari, Cari Brenner.
L’unione fu feconda per quando riguarda la prole, con cinque figli, molto meno nell’intesa coniugale. Il rapporto si raffreddò nel tempo, lui sempre più preso dal lavoro, dalla vita sociale nei golf club, lei alle prese con sette figli da allevare e la ditta che aveva ereditato dal padre. Intanto Mary sentì un richiamo sempre più forte e intimo: quello della carità. Aveva sempre portato con sé l’anelito ad alleviare le sofferenze altrui, una generosità che le aveva instillato il padre, ma che nel tempo era diventata una vera e propria urgenza. Ad aiutarla ad affrontare quegli anni fu un sacerdote di Los Angeles, Anthony Brouwers, impegnato in diverse attività missionarie: capì la sua “stoffa” spirituale, così come la sua difficile situazione familiare e la convinse a vivere quest’ultima con fede, confidando nei disegni di Dio.
Dal fallimento alla chiamata
Mary iniziò a spostare le sue energie dalla ditta, che finì per vendere, al supporto alle attività della “Caritas” locali. Il suo garage divenne un centro di smistamento di vestiti, medicinali, abiti raccolti da ogni dove e distribuiti ai più bisognosi. Fin che un giorno, nel 1965, ricevette una telefonata che fu il germe della sua seconda vita. Un altro sacerdote californiano, venuto a sapere del suo impegno per i poveri, le chiese di unirsi a lui in uno dei suoi periodici viaggi poco al di là del confine con il Messico, a Tijuana, per portare aiuti alla popolazione e soprattutto ai carcerati di quello che era il penitenziario più caldo del Paese, La Mesa.
Tijuana era già avviata a diventare lo snodo del traffico di droga dall’America latina agli Stati Uniti, terminale di ogni tipo di attività illecita e luogo di incontro/scontro tra i vari cartelli criminali. Mary, che non parlava una parola di spagnolo, che con i suoi occhi azzurri, la pelle cerulea e il suo bon ton da “californiana bene” sembrava un’aliena in quel girone infernale, si sentì invece misteriosamente attratta da quel posto. Quando anche il suo secondo matrimonio finì – Carl si risposò – e quando i figli si resero autonomi, nel dolore e nello smarrimento capì che avrebbe voluto consacrare il resto della vita a Dio e al prossimo.
La scelta era sicura, l’obiettivo pure, ma la via molto meno: pensare che una congregazione religiosa potesse accogliere una cinquantenne con due divorzi alle spalle era una pia illusione. Pensò quindi di andare avanti da sola. Nel 1977 si recò in chiesa e fece una promessa di castità e servizio. Confezionò un velo da suora, se lo mise in testa e pochi mesi dopo bussò alla porta del carcere chiedendo di poter dare un aiuto, ma a tempo pieno: chiese di poter vivere proprio accanto ai detenuti, non solo di visitarli.
Con il Rosario fra i narcotrafficanti
La Mesa, come altre prigioni messicane, era organizzata come una piccola città murata: al centro una specie di piazza/mercato, con chioschi e negozietti, attorno la parte delle celle, con i boss che disponevano di appartamenti accessoriati e i poveracci stipati in stanzoni sudici. Le guardie vigilavano a distanza su una comunità che per gli affari correnti in pratica si autogestiva (per capire la scena può essere di aiuto un film del 2012 con Mei Gibson, Viaggio in Paradiso). Madre Antonia, questo il nome che Mary scelse in onore del suo antico mentore Anthony Brouwers, ottenne un angolino di pochi metri quadrati dove dormire, con una doccia senz’acqua calda, e da lì iniziò la sua missione.
All’esterno organizzò una casa per ospitare i familiari dei detenuti che venivano a far loro visita da ogni angolo del Paese, e dove potevano soggiornare coloro che una volta scontata la pena non sapevano dove andare. A La Mesa iniziò invece ad aggirarsi raccogliendo sfoghi e bisogni, e cercando di aiutare i più deboli: chi a livello legale, chi con qualche somma di denaro per la famiglia, chi con una visita da qualche buon medico o dentista, battendosi nel frattempo per il miglioramento delle condizioni carcerarie. Anche cercando di fermare i frequenti abusi: quando vedeva un agente umiliare un detenuto, lo apostrofava con il dito puntato: “Non dimenticare che è Cristo che hai fra le mani”.
Abbracciava tutti ricordando loro che erano figli amati dal Padre, regalava rosari e Vangeli e invitava a pregare. Diventò insomma I’ “Angelo della prigione”. Ai suoi figli e agli amici che negli Stati Uniti le chiedevano se non fosse impazzita, rispondeva: «II carcere mi ha liberato», e ripeteva una sua massima: «II bene è come un boomerang: quello che fai per gli altri ritorna sempre indietro». Si guadagnò il rispetto di assassini e capi mafia – fu lei a placare una delle più violente rivolte nella storia di La Mesa – che non ave va paura di guardare in faccia, dicendo loro che sarebbe arrivato il giudizio di Dio e chi dovevano pentirsi.
Non è mai troppo tardi per amare Dio
II suo impegno alla fine fu riconosciuto anche dalla Chiesa. Nel 1991 fu il vescovo e San Diego, Leo Maher, a dirle che avrebbe dovuto dar vita a una famiglia religiosa. Nel 1997 ebbe il consenso della diocesi di Tijuana e nel 2003 il vescovo Rafael Romo Munoz riconobbe le Serve eudiste dell’undicesima ora, un istituto ispirato carisma del francese san Giovanni Eude (1601 -1680) e rivolto a donne tra i 45 e i 65 anni chiamate a una vita di consacrazione dopo quella matrimoniale, perché vedove o divorziate. Donne chiamate in extremis ovvero dopo quell’”ora decima” a cui a venne la chiamata degli apostoli Andrea Giovanni secondo il Vangelo.
Oggi le suore sono una trentina, divise tra Messico Stati Uniti, a Tijuana hanno la casa madre dove tutte si ritrovano una volta all’anno per il rinnovo dei voti (non fanno voti perpetui). Non sono molte anche perché, vista l’età media avanzata, diverse religiose sono già morte. Ma, come ci dice al telefono suor Lillian Manning, che dirige il le centro a Lockhart, in Texas – anche lei con un sofferto divorzio alle spalle e cinque figli – sono attive e fiere di ricordare a chi porta nel cuore l’amore per i poveri, per i carcerati, per gli ammalati, per gli ultimi per i tutti i figli di Dio che sono abbandonati, che non è mai troppo tardi per servire il Signore».
Fonte: Il Timone n.130 febbraio 2014