“Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità” (Is 52,13; 53,12).
Una delle questioni intriganti che si pongono per lo storico che si occupi di medicina ed ospedali è questa: come mai l’antica Grecia, che ha generato grandi medici, non ha pensato all’istituzione ospedaliera?
Se osserviamo la fine del mondo antico e i primi secoli del Medioevo europeo, notiamo un fatto curioso: i monaci, da Cassiodoro ai benedettini, trascrivono e studiano i testi di Galeno e dei medici greci, il cui insegnamento e le cui intuizioni rischiavano altrimenti di scomparire dal ricordo degli uomini; nello stesso tempo danno vita a luoghi di ospitalità, di cura, di sostegno al loro prossimo che contengono in nuce l’ospedale futuro, ma di cui in verità non vi è pressoché traccia nel pensiero e nell’azione dei maestri greci.
Per capire perché questo sia accaduto, come mai la civiltà greca abbia posto le basi della medicina, ma solo la civiltà cristiana abbia dato vita all’ospedale (senza il quale la medicina stessa non sarebbe mai potuta decollare), occorre passare dal piano storico a quello teologico.
La medicina, infatti, nasce dall’intelligenza umana, dalla sua volontà di comprendere e di interrogare la realtà, dopo aver compiuto un atto di fede nei suoi confronti, dopo averla cioè dichiarata intelligibile. La medicina, insomma, nasce dal Logos, risponde al desiderio naturale di conoscere. I greci hanno potuto dare il loro notevole contributo, dunque, proprio perché erano filosoficamente predisposti: perché ritenevano, ben più di altri popoli, che la realtà fosse cosmos, e che la divinità fosse identificabile con il Logos, ovvero con la ragione. I greci erano essenzialmente dei contemplativi, e ponevano l’attività intellettiva ben al di sopra della virtù concretamente fattiva.
Come spiega molto bene Marco Fasol nel suo Eros greco e amore cristiano (Fede & Cultura, 2011), nella speculazione di Aristotele Dio è “pensiero che pensa se stesso”, cioè un Dio che contempla se stesso: “Il Dio aristotelico viene amato, ma non ama attivamente, perché dovrebbe piegarsi, chinarsi verso qualcosa di inferiore: è un Dio che pensa, ma non parla, non si rivela all’uomo, perché non ne ha bisogno. È contento della sua perfezione”.
Analogamente in Platone “non è concepibile nella divinità una discesa verso l’umano, anche perché questa implicherebbe in Dio una mancanza di qualcosa, e questo non è ammissibile nel mondo degli dèi. Dio è perfetto, completo in se stesso, e quindi non prova desiderio o eros per qualcosa o qualcuno di cui sia privo”.
Semplificando: se gli dèi popolari dell’Olimpo sono troppo umani, infidi, falsi, meschini come gli uomini, gli dèi dei filosofi sono troppo lontani e inaccessibili.
Nella filosofia greca l’oggetto di amore deve essere degno: Dio dunque è degno di amore, e magari lo sono in qualche modo gli eroi, i grandi uomini (“buoni e belli” nel contempo), ma non certo gli umili, i brutti, gli ignoranti…
Questo è ancora più chiaro nelle filosofie ellenistiche, che hanno come obiettivo l’atarassia, l’apatia, la mancanza cioè di passioni, di desideri, di moti dell’animo. Epicuro, per intenderci, ereditando l’intellettualismo socratico e aristotelico, crede negli déi, ma li considera totalmente disinteressati, estranei alle vicende umane e, nella loro autosufficienza, felici. Di conseguenza propone ai suoi seguaci la ricerca dell’aponia, cioè la soppressione del dolore fisico, e la ricerca dell’atarassia: la beatitudine umana starebbe in una perfetta autarchia, analoga a quella delle indisturbate divinità iperuraniche. Basterebbe questo – nota Fasol – “per scoraggiare qualsiasi ulteriore ricerca sul tema dell’amore in età ellenistica”.
Ben diversa, invece, appare la concezione biblica di Dio: già nell’Antico Testamento Egli non solo non è come quello di Aristotele, che “non ama perché si abbasserebbe verso esseri inferiori”, ma neppure come quello di Epicuro, e di tante altre religioni antiche, che si disinteressa dell’uomo.
Al contrario Dio ha scelto un popolo, lo ama, lo riprende, e con esso si “fidanza” e si “sposa”. Ancora più sconvolgente è la novità portata dal Vangelo dove “il primo comandamento” è “amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutta la forza. E il secondo è questo: amerai il tuo prossimo come te stesso…”. Fasol commenta che Gesù gerarchizza e “lega insieme” i due comandamenti, e “questo non era mai accaduto”.
Nel Vangelo di Giovanni, quindi, Dio appare come Logos (con una chiarezza ben maggiore rispetto alla intuizione ancora confusa del pensiero greco), ma anche come Amore: “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1Gv 4,7-8).
Ma non è ancora tutto: quel Dio contemplabile del mondo greco, che pensava a se stesso, autosufficiente e lontano, sceglie di farsi uomo, di prendere carne: di divenire, come dice Isaia, “sfigurato”, senza “né apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi”, “uomo dei dolori che ben conosce il patire”.
Ecco, contemplando questo Dio sofferente, la civiltà cristiana ha ripreso, salvato e portato avanti la scienza medica greca, e nello stesso tempo ha però saputo creare anche luoghi fisici nuovi, gli ospedali, dove tutti, ricchi e poveri, belli e brutti, potessero trovare rifugio e sostegno.
Francesco Agnoli
da La grande storia della carità