giovedì 8 maggio 2014

Papa Francesco in libreria.




Parole e silenzio

Venti titoli. Comincia da giovedì 8 maggio la distribuzione nelle edicole italiane dei libri della collana «La biblioteca di Papa Francesco» che — edizioni Rcs per il «Corriere della Sera» in collaborazione con «La Civiltà Cattolica», a cura di Antonio Spadaro — riunisce venti tra le opere più lette e amate da Bergoglio, tutte pubblicate con prefazioni inedite. Anticipiamo parte della prefazione del primo libro, Tardi ti ho amato di Ethel Mannin.
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La crisi educativa come opportunità: sono rimaste impresse a molti le parole che Papa Francesco pronunciò a Cagliari, nel settembre scorso, alla Pontificia Facoltà di Teologia della Sardegna. Parole che rivelano conoscenza e attenzione verso un mondo, quello della scuola, che Bergoglio ha a cuore da decenni.

Il suo magistero in tema «non è calato dall’alto, in modo astratto e deduttivo — scrive Fulvio De Giorgi, curatore del volume Francesco. La mia scuola (Brescia, La Scuola, 2014, pagine 128, euro 9,5) — bensì nasce dalla riflessione e dal discernimento su esperienze vissute in prima persona. Prima di assumere il ministero pastorale, da vescovo (nel 1992) e poi da Papa (nel 2013), Bergoglio ha sperimentato pienamente la vita di scuola: come allievo e come insegnante». Il volume, che esce alla vigilia dell’incontro di sabato tra il Papa e il mondo scolastico italiano, raccoglie i suoi testi più significativi in tema.
L’attenzione per le parole e i gesti del Pontefice è sempre notevole, come dimostrano le pubblicazioni a lui dedicate che continuano a uscire. L’intento di alcune è di rendere il vescovo di Roma uno stimolo quotidiano di preghiera e riflessione. È il caso, ad esempio, del libro di Marco Pappalardo Buonasera! 365 pensieri di papa Francesco (Torino, Effatà, 2013, pagine 143, euro 9), che, calendario alla mano, offre per ogni giorno un pensiero di Francesco con cui meditare.
Simile il taglio di Francesco. La gioia di ogni giorno (Milano, Mondadori, 2014, pagine 159, euro 14), a cura di Giuliano Vigini. Il libro, che raccoglie omelie pronunciate da Bergoglio negli anni precedenti l’elezione al soglio pontificio, dimostra l’assoluta linea di continuità nello spirito e negli obiettivi tra don Jorge e Papa Francesco. «Ciò che colpisce — scrive Vigini — è constatare come il Papa di oggi sia tutto già qui».
In questa continuità, un ruolo importante, accanto alle parole, lo svolge il silenzio. «Il silenzio c’insegna a parlare — scriveva infatti Bergoglio nel 1987 — dà forza alla parola, la quale, per questo silenzio che implica, non è mero rumore (cfr. 1 Corinzi, 13, 1). Il silenzio c’insegna a parlare perché conserva dentro di noi il fervore religioso, l’attenzione verso lo Spirito Santo. Il silenzio custodisce la vita dello Spirito Santo in noi». E prosegue: «I mezzi di comunicazione di massa ci fanno entrare in ciò che potremmo chiamare l’“alluvione delle parole”. Io domando: sono capace di vivere senza radio? Per quanti giorni? C’è un consumismo di parole: parole dolci, seduttrici, obiettive, colleriche… di ogni tipo. Parole che cercano di introdursi rumorosamente nel nostro cuore e non danno nulla alla verità».
Questi brani (in una nostra traduzione) sono tratti dalle Consideraciones para el tiempo de Navidad, quarto capitolo del libro Reflexiones espirituales sobre la vida apostólica (Buenos Aires, Ediciones Diego de Torres, 1987) che uscirà in Italia prima di Natale con la Emi. La stessa editrice bolognese ha appena pubblicato, diviso in tre parti, il resto delle Reflexiones con i seguenti titoli: La croce e la pace. Meditazioni spirituali; Chi sono i gesuiti. Storia della compagnia di Gesù e Il desiderio allarga il cuore. Esercizi spirituali con il Papa.

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Ricordi di uno studente di cinquant’anni fa. E il professor Bergoglio portò un romanzo...

(Jorge Milia) Per un gruppo di adolescenti, affrontare Tardi ti ho amato (Late Have I Loved Thee), romanzo della scrittrice irlandese Ethel Mannin, non fu una faccenda allegra e nemmeno simpatica. Quando il professore ce lo annunciò, lo immaginammo, non so per quale motivo, come un passaporto per la noia. Ci disse che lo avremmo letto in classe. Ciò avvenne mezzo secolo fa, nel collegio dell’Immacolata Concezione, a Santa Fe in Argentina. Il professore di letteratura, un insegnante gesuita, che da un anno “combatteva” con noi, i suoi alunni, era Jorge Mario Bergoglio.

L’anno prima avevamo ingaggiato questa battaglia sopra la letteratura spagnola mentre in quell’anno, il 1965, l’ultimo del liceo, il campo era la letteratura argentina. Come era sua abitudine, ritenendo che limitarsi al programma scolastico non sarebbe stato sufficiente, decise di mettere a confronto le opere argentine con un romanzo di un’autrice straniera. Il tempo a sua disposizione però era limitato e forse per questo scelse uno dei libri di Ethel Mannin che lo avevano particolarmente colpito: Tardi ti ho amato appunto.
In poco tempo, tra questo professore e noi si creò una relazione speciale. Lui ci regalava libertà e noi gli rispondevamo seguendo i nostri gusti, i nostri interessi e le nostre opinioni. Forse quest’indipendenza intellettuale che avevamo acquisito al Collegio lo aveva colpito e, avendo un’idea chiara delle nostre inclinazioni individuali, aveva cercato di tracciare delle linee di confine capaci, anche, di unirci. Il romanzo di Ethel Mannin era uno di tali confini.
Qual era l’obiettivo di un lavoro di gruppo? Senza dubbio per il professor Bergoglio era importante ascoltare le opinioni di ognuno di noi. Nessuno di noi conosceva Ethel Mannin. Fu forse per questo motivo, e per il fatto che il suo libro non era un bestseller della cui lettura potevamo vantarci con gli amici, che all’inizio la prendemmo un po’ sottogamba. Siccome ignoravamo l’origine del titolo, pensammo che si trattasse di una storia sdolcinata. Ma questa impressione durò poco, e una volta iniziato il romanzo, la trama che immaginavamo noiosa si rivelò invece in un intreccio appassionante.
Lo spirito dei giovani è sensibile a certe cose e quando, in una storia come questa, l’autrice mostra una profonda conoscenza dell’anima e della sua relazione con gli affetti, commuove fino a toccare le corde più sensibili e intime. Il nostro giovane professore si era reso conto di questa particolare sensibilità, connaturata all’adolescenza, e ne approfittò per chiederci ancora più impegno e coinvolgimento. Fu allora che qualcosa cambiò.
Il contesto storico-temporale dell’opera si sviluppa fra le due guerre, in uno scenario gravato dalle perdite del passato, dalla disillusione del presente e dall’angoscia per ciò che verrà. L’azione si svolge fra l’Inghilterra, la Francia e l’Austria. Francis Sable, uno scrittore di successo, rampollo di una famiglia di alto lignaggio, vive i suoi trent’anni senza preoccupazioni, influenzato dal nichilismo tipico di una società che si trova nella zona grigia tra due grandi conflitti. Un uomo che sembra incapace di chiedere alla vita qualcosa di più, un destino diverso da quello disegnato per lui — peraltro assai generoso, considerata la situazione di povertà e disagio degli altri.
L’autrice mostra un’evidente ammirazione per la Compagnia di Gesù e per i gesuiti, tuttavia non utilizza l’opera di un gesuita come filo rosso del libro, ma quella di sant’Agostino. Alcune frasi delle Confessioni segnano infatti il percorso della storia. L’ammirazione dell’autrice per la Compagnia si manifesta in relazione a uno straordinario personaggio storico, un altro gesuita: Gerard Manley Hopkins, poeta, musicista e pittore. Un anglicano convertito al cattolicesimo. Un intellettuale che rinuncia a tutto per entrare nella Compagnia.
In quel lontano 1965, ci trovammo anche di fronte a un baratro impossibile da colmare: quello della lingua. Una cosa era il nostro inglese di base, appreso al Collegio, tutt’altra cosa era disporre delle competenze necessarie per poterci addentrare in un testo poetico. La poesia di Hopkins non è l’opera di un timido uomo, restio a mostrare il frutto dei suoi sforzi, ma è una poesia trascendente, che come accade nella parabola del chicco di frumento cresce, fiorisce e dà i suoi frutti, anche a molti anni dalla morte dell’autore. Può risultare incomprensibile che questo diligente grecista e studioso delle lingue classiche, che lavorò all’università di Oxford, si sia tenuto per sé la propria opera in versi, almeno fino al 1918, quando il suo amico Robert Bridges ne pubblicò una parte suscitando la comprensibile meraviglia dei lettori di Hopkins.
Ma torniamo al libro. Dal nostro punto di vista Francis Sable, il protagonista del romanzo di Ethel Mannin, era un personaggio un po’ decadente, questa almeno era la nostra visione di adolescenti, motivati in quegli anni a scoprire una vocazione che ci permettesse di raggiungere un compromesso fra società e fede. Forse per questo motivo, un simile personaggio ci appariva l’antitesi di ciò che volevamo essere: viziato dall’edonismo, con una posizione socio-economica invidiabile, appartenente a una famiglia borghese benestante composta da madre vedova, fratello maggiore e sorella più piccola di sei anni, amato e protetto e protagonista di una vita sociale colma di amicizie e relazioni umane varie e tutte superficiali.
E tuttavia aveva qualcosa di seducente. Francis aveva un amore, una specie di fidanzata: la loro era una relazione poco appassionata, che non lo coinvolgeva particolarmente, con una donna affascinante, anche lei artista. Un personaggio che consideravamo “un’invidiabile svampita”, che tollerava la sua passione per l’alpinismo e sfruttava le molte prerogative concesse dalla sua classe sociale.
Il professor Bergoglio, come era suo solito, affidò a ciascuno determinati elementi della storia da approfondire. A volte, quello a cui toccava il turno di lettura saltava delle parti o leggeva subito la fine del romanzo per capire alcuni aspetti della trama. Non so se fu l’alpinismo che influenzò la nostra immaginazione di ragazzi che avevano sempre vissuto in pianura, oppure se fu il fatto che il protagonista appartenesse a una famiglia tanto importante, in ogni caso, ognuno di noi cominciò a identificarsi con Francis e a vivere la trama del romanzo.
Può sembrare singolare che l’autrice sia riuscita a far ruotare in qualche modo la storia attorno alle Confessioni di sant’Agostino, ma è quello che ha fatto. Fra l’altro, il titolo dell’opera è proprio una frase delle Confessioni. Ed è stata una scelta azzeccata da parte di Ethel Mannin. Se esiste una figura storica nella Chiesa cattolica che ha creato una vicinanza molto particolare fra uomini e donne, è proprio quella di sant’Agostino.
In Tardi ti ho amato, le frasi delle Confessioni indicano il cammino della conversione e contemporaneamente rappresentano un filo rosso che porta fuori dal labirinto. L’autrice scrive della vita, della fatalità, di come un istante possa cambiare il corso dell’esistenza di una persona, generando sensazioni ed emozioni diverse, tra cui il senso di colpa e la condanna personale che la colpa porta con sé. Il perdono, si dice, proviene da se stessi, ed è la cosa più importante e più difficile da conseguire. Proprio questo è il dramma del personaggio.
Possiamo indicare alcuni elementi con i quali l’autrice ha costruito una propria simbologia e fra questi anzitutto la montagna, che ha un significato particolare. In un certo senso la montagna assomiglia alla vita, un alternarsi di trionfi e di fallimenti, riassumibile in una sola frase: Per aspera ad astra.
Tardi ti ho amato è anche una storia di conversione e di scoperta vocazionale, nella quale la vita dei personaggi scorre in modo realistico così che molti lettori si possano immedesimare. Ogni pagina sottolinea l’idea della conversione, del cambiamento esistenziale che porta a un imminente incontro con Dio, e il risultato di questo incontro non è altro che l’allegria interiore, che riempie lo spirito.
Il romanzo richiede una lettura riflessiva, che permetta non solo di apprezzare la trama, ma anche di comprendere i molti messaggi trasmessi dall’autrice. È un libro profondo, di quelli che non si possono dimenticare facilmente. Almeno, così è successo a me, che a mezzo secolo di distanza lo ricordo ancora.
L'Osservatore Romano