domenica 4 maggio 2014

Il gesuita che insegna a morire



A colloquio con padre Alfon Deeken dal 1959 missionario in Giappone.

(Cristian Martini Grimaldi) Il suo ultimo libro ha venduto 50.000 copie solo in Giappone, Living Well, Laughing well, Dying well. Lui è il gesuita tedesco Alfons Deeken, professore emerito dell’università Sophia a Tokyo. Lo incontro proprio qui (l’intenzione di fondare un’università gesuitica in Giappone era uno dei desideri di Francesco Saverio), in una sala della Casa dei gesuiti. Ancora oggi a 82 anni, Deeken, fa il giro del Giappone portando le sue lezioni sull’“educazione alla morte”, per le quali ha ricevuto numerosi premi e prestigiose onoreficenze come il Kikuchi Kan Prize (importante riconoscimento nel campo della cultura giapponese) e l’Ordine al merito della Repubblica Federale di Germania. Deeken è presidente onorario della Japanese Association of Death Education and Grief Counseling che ha fondato nel 1983. Dice scherzando, «Tutti dobbiamo pensare alla nostra morte! Pensa che da poco sono uscite le ultime statistiche del ministero della Salute giapponese, e dicono che il tasso di mortalità in Giappone è ancora del cento per cento!».
Nato in Germania del nord nel 1932, già a otto anni si ritrova ad affrontare l’evento che prima o poi segna la vita di ciascuno: la morte di un familiare. Si trattava della sua sorellina minore, di soli quattro anni, malata di leucemia. «I nostri genitori ci hanno sempre insegnato che la morte non è la fine di tutto. Mia sorella l’ultimo giorno della sua vita ci strinse le mani e disse: ci vedremo di nuovo, in paradiso questa volta! Mi impressionò molto la sicurezza con la quale lo disse, in fondo era solo una bambina di quattro anni. Da quel giorno, anche se avevo ancora otto anni, cominciai a pensare al fatto che tutti dobbiamo morire. Ma ci furono anche altri momenti in cui la morte la vidi da vicino. Ad esempio durante la guerra. Io vivevo nel sudovest di Bremen, dove la nostra casa fu distrutta dai bombardamenti e molti miei compagni di scuola morirono per le bombe incendiarie. Tutto ciò mi fece pensare all’esistenza di due tipologie di morte: c’è la morte inevitabile, quella di mia sorella minore ad esempio. E poi c’è la morte evitabile, come quella della guerra, causata dal solo volere dell’uomo».
Cosa la spinse qui in Giappone?
Come molti miei predecessori lessi una biografia di Francesco Saverio e decisi di diventare un prete cattolico. Ma c’è stato anche un altro fatto che mi convinse. Nella mia adolescenza in Germania c’era l’uso di raccomandare lo studente più meritevole per essere educato nelle scuole d’elite dei nazisti e diventare quindi un futuro leader del regime. Quando il preside della mia scuola mi informò che ero stato selezionato io risposi con determinazione: «Non ci andrò!». Risposi così perché ispirato dalla storia di un giovane giapponese di soli dodici anni che nel 1597 era tra i 26 martiri di Nagasaki. Lui si chiamava, Ibaragi Ludovico. La storia narra che mentre il ragazzo stava per essere crocifisso un samurai gli si avvicinò dicendogli: «Stai per essere condannato a morte per la tua fede nel cristianesimo, ma se rinunci ora al tuo credo io sono disposto ad adottarti e potrai continuare a vivere!». Ibaragi guardò l’uomo con grande serenità e rispose: «Sarebbe invece meglio se anche tu ti facessi cristiano e mi seguissi in Paradiso». Fu così che sentii anch’io di seguire la mia coscienza piuttosto che le raccomandazioni del preside dell’Istituto, rinunciai alla scuola d’élite e decisi di visitare a tutti i costi il Paese che aveva prodotto quel ragazzo dotato di tale carisma e coraggio.
Quando entrò nella Compagnia del Gesù?
Subito dopo le scuole superiori. Presi quindi un master in Filosofia all’università di Monaco e mi imbarcai per l’Estremo oriente su una nave francese che salpava da Marsiglia, era il 1959. L’aereo a quel tempo era un lusso per pochi. Passammo attraverso lo stretto di Suez. Era una nave mercantile molto lenta, si fermava in tutta una serie di porti prima di arrivare a destinazione.
Le vie gesuitiche verso l’Asia non sono poi cambiate di molto, anche allora Xavier e gli altri dovettero affrontare un lungo viaggio sulle navi mercantili portoghesi che andavano trafficando in spezie e altri prodotti. Le mete commerciali principali allora erano Goa, Malacca, Macao, e Nagasaki, lei da dove passò?
Passammo per Bombay, Singapore, Manila, Hong Kong e infine Yokohama. Geograficamente parlando non è cambiato molto.
Poi che successe?
Arrivato in Giappone presi a studiare il giapponese e venni ordinato proprio qui nel 1965. Quindi andai negli Stati Uniti dove dal 1967 al 1973 studiai alla Fordham University di New York che nella tradizione gesuitica è una vera istituzione. A New York feci una grande esperienza dell’American Hospice Movement e tutto quello che riguardava l’educazione alla morte. È grazie all’Hospice Movement che si è sviluppato un interesse per la cura del dolore spirituale dei pazienti in fase terminale. Perché proprio uno degli obiettivi degli hospice è quello di trattare il dolore in senso “totale”: cioè il dolore dal suo punto di vista fisico, psichico, sociale e spirituale. E per dolore spirituale intendo lo smarrimento di un senso dell’esistenza, un sentimento d’impotenza e abbandono, infine la morte della speranza. Tutto ciò è materia della death education.
Poi tornò in Giappone...
Quando rientrai mi resi conto che non c’era neppure un hospice e che il solo parlare di morte era considerato un tabù. Pensai dunque che fosse una grande opportunità per introdurre un’educazione alla morte nel Paese. Così fu. Ma quando iniziai a insegnare filosofia della morte nel 1977 il solo incoraggiamento che ottenni fu un secco: «Non farlo!». (Ride). Eppure ottocento studenti si iscrissero al mio corso. Fu un enorme successo, nonostante appunto intitolassi il corso «La filosofia della morte». Mi accorsi che la morte era un argomento tabù per gli anziani ma non per i giovani. Il problema era che nelle famiglie educavano i ragazzi a non pronunciare mai la parola morte. Pensa che ancora oggi a Tokyo in uno dei più famosi ospedali dove vado regolarmente per i miei controlli, i dottori hanno i loro uffici numerati 1, 2, 3, 5... ma non 4. Perché il numero 4 in giapponese suona proprio come la parola morte, shi.
Nel 1983 ha dunque fondato la Japanese Association of Death Education and Greif Counseling. Di cosa si tratta?
L’Associazione ha tre scopi principali: promuovere un’educazione sulla morte; migliorare i trattamenti di cura negli ospedali e sviluppare programmi di hospice; costituire dei gruppi di sostegno per coloro che hanno perso un loro familiare. Quando fondai l’Associazione non esisteva in Giappone alcun tipo di educazione su come affrontare la morte, il dolore o il lutto. E oggi, seppure si siano fatti dei grandi passi avanti, c’è ancora una carenza di cure spirituali, emozionali e psicologiche per i pazienti in fin di vita. Sia in Europa che in America quasi tutti gli ospedali e gli hospice hanno un cappellano o un consulente che offrono un sostegno importante al paziente. Ma in Giappone, dove i preti buddisti sono tradizionalmente associati ai riti funebri, i sacerdoti cristiani sono malvisti negli ospedali. Molti preti buddisti mi hanno confessato di essere stati letteralmente cacciati dagli ospedali, perché, dicevano, il paziente vedendoli si sarebbe potuto agitare. Ti faccio un altro esempio. Dopo il terribile terremoto del 2011 mi sono iscritto come volontario per ascoltare e sostenere coloro che erano stati evacuati dalle zone colpite dal sisma, ma la persona responsabile di organizzare i volontari mi disse: questa gente non ha bisogno di cure spirituali, ma di un posto dove dormire e di cibo. Poi però, giorni dopo, i giornali riportavano la notizia di molti suicidi tra coloro che erano stati evacuati. Allora, mi son detto, vedi che hanno bisogno di una cura spirituale! Perdere la speranza è un fatto molto più drammatico che non perdere la propria casa.
Qual era la situazione negli ospedali giapponesi quando arrivò lei?
I dottori semplicemente non informavano i pazienti terminali che avevano un cancro incurabile. E quando lavoravo nella commissione del Ministero della salute per sviluppare le linee guida mi veniva detto: «Questo è il Giappone!. E in Giappone non diciamo ai pazienti che hanno una malattia incurabile». Era il 1986. Una delle ragioni risiedeva nel fatto che semplicemente si rifiutavano di ammettere di non riuscire a curare il paziente, lo consideravano un fallimento della loro professione di medico. Inoltre pensavano che comunicare una grave notizia al malato potesse causargli depressione e addirittura portarlo al suicidio. Ma ancora più singolare è che non rivelavano la verità neppure alla moglie. Consideravano le donne troppo emotive, dicevano che non sarebbero riuscite a mantenere il segreto, sarebbero scoppiate a piangere rivelando immediatamente che qualcosa non andava. Per questa ragione l’unico della famiglia del paziente a cui veniva detta la verità era il primogenito. Ma mai la primogenita.
Perché ovviamente essendo donna sarebbe scoppiata a piangere...
Ovviamente. (Ride). Oggi però, anche in parte grazie al mio lavoro sull’educazione alla morte, circa l’ottanta per cento dei dottori qui in Giappone dicono la verità ai loro pazienti in fase terminale. Una vera rivoluzione se pensiamo che dal 1986 è passata solo una generazione. Soprattutto il lavoro che ho fatto in televisione è stato molto utile a portare un cambiamento in questo senso. Nel canale di Stato Nhk una volta a settimana davo una mia lezione, questo avveniva nel 1993: il titolo era «Affrontando la morte». Da queste lezioni televisive poi è stato tratto anche un libro.
Che relazione c’è tra l’educazione all’elaborazione del lutto in Giappone e il cristianesimo?
Ho lavorato con persone che hanno perso un proprio caro o che hanno subito un forte shock per il suicidio di un familiare o un amico. Queste persone sono costrette a ripensare tutta la loro vita. Iniziano col misurarsi con le domande fondamentali dell’esistenza e questo ho trovato che sia un movente sufficiente per avvicinarsi al cristianesimo, il quale può offrire delle risposte. Se tutto “fila liscio” i giapponesi sentono che non hanno bisogno di religione. In Giappone la parola religione ha un significato molto vago, affine a quello che in occidente chiameremmo setta. Ti racconto un fatto che mi è successo recentemente. Parlavo con una persona che voleva battezzarsi e prima del battesimo io faccio sempre dei colloqui di circa un’ora per valutare le motivazioni della scelta, e una delle domande che faccio sempre è: «Cosa pensa la tua famiglia del cristianesimo?». Uno di questi ragazzi che intervistai mi rispose: «Loro odiano i cristiani!». E io, sorpreso, gli chiesi quale fosse la ragione. Lui mi disse: «Perché odiano l’Aum Shinrikyo» (ovvero la setta che ha compiuto l’attentato alla metropolitana di Tokyo del 1995). Capito? C’è una gran confusione. Inoltre tra coloro che cercano il battesimo ci sono molti disoccupati e molti lavoratori part-time che non riescono a trovare un lavoro stabile. Questa tipologia di persone ha una cosa in comune: una grande preoccupazione per come sarà il proprio futuro e un costante senso di precarietà. Non è un caso che molti di loro, data la grave congiuntura economica, non potranno godere mai di una pensione in età avanzata.
Persone vulnerabili...
Il fatto è che molte sette avvicinano i nostri convertiti per convincerli a farsi loro adepti attraverso una serie di incentivi economici e proposte di lavoro, e questo è un segnale che rivela molto del generale stato di ansia e incertezza nel futuro per una grossa fetta di popolazione giovanile giapponese.
Il Giappone è tristemente noto al mondo per le figure dei kamikaze e per l’alto numero di persone che si tolgono la vita ogni anno. Nel Paese esistono forme di eutanasia regolamentate?
L’eutanasia in Giappone è illegale. Ma adesso sempre più anziani stanno lasciando dei testamenti in cui dichiarano di rifiutare il prolungamento artificiale della vita. Il punto è che molti anziani hanno paura di diventare un peso economico per i figli. Da bambini li hanno educati in questo senso. Una volta era la donna che stava a casa e si prendeva cura dei genitori ma oggi se la donna lavora, e se le famiglia se lo può permettere, mandano i genitori in una casa di cura. Però per quelle statali, economicamente abbordabili, c’è una lista di attesa di tre anni e quelle private costano una fortuna. Ecco come, in situazioni di marginalità economica, nasce il terrore nel genitore anziano di diventare un peso per i propri figli. Tanto è vero che oggi un sondaggio ha dimostrato come i giapponesi non vogliano vivere troppo a lungo. Un cambio totale di prospettiva. Per lungo tempo l’ideale è stato quello di vivere il più a lungo possibile, ma adesso non è più così! E non per paura di soffrire le malattie della vecchiaia, ma perché nelle situazioni di marginalità economica, sempre più diffuse tra l’altro, gli anziani soli e con poche risorse economiche si sentono un fardello sulle spalle dei più giovani, e se possono scelgono di evitare questa terribile angoscia, anche a costo di dover compiere il passo fatale.
Il cristianesimo può costituire una speranza per queste persone?
Certamente. La mia esperienza di cinquant’anni in Giappone mi ha insegnato che la religione cristiana può offrire risposte importanti per coloro che devono affrontare il lutto o il dolore, non è un caso che, non solo i pazienti, ma molti infermieri e dottori hanno incontrato la fede proprio all’interno degli hospice. Negli ultimi cinquant’anni ho battezzato più di ottocento giapponesi adulti, e tra questi molti erano dottori, infermieri, vedovi e vedove. Molti di coloro che hanno perso un loro familiare, spesso in tragiche circostanze come ad esempio un suicidio, hanno scoperto quanta energia spirituale e quanta speranza deriva dal conforto di una fede e da una comunità di credenti.
L'Osservatore Romano