lunedì 19 maggio 2014

La coscienza del proprio niente e il desiderio del compimento


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A proposito dell’artificiale contrapposizione tra misericordia e dottrina, o tra pastorale e dottrina, anche in vista del prossimo Sinodo sulla famiglia, sono rimasto colpito da queste parole di don Luigi Giussani dedicate in particolare al sacramento della confessione.
A. Tornielli
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La coscienza del proprio niente e il desiderio del compimento
«Tu di fronte al Mistero come vai? Vai facendo patti? Vai facendo un contratto? Vai “preparandoti” e quindi dicendo: “Adesso io ho il diritto di venire ad accostarti”? Ti accosti al Mistero mettendo a posto tu le cose prima e poi dicendo: “Adesso dunque Tu sei costretto ad accettarmi qui”? Sarebbe una pretesa e una presunzione».
«Accostarci al Mistero richiede una cosa sola: la coscienza della nostra inettitudine, che è più che nullità, della nostra incapacità fondamentale e del nostro tradimento continuo, della nostra povertà colpevole, della nostra manchevolezza voluta, del nostro venir meno, della nostra incapacità connivente, del nostro essere niente. Ma la parola “niente” non dice ancora quel che siamo. Esiste soltanto questa come condizione: la consapevolezza di quello che si è, e basta. Per accostarsi al Mistero esiste solo questa necessità».
… « Cristo ha lasciato nella nostra esistenza una permanenza di sé sotto determinati aspetti. La Confessione e la Comunione sono i due aspetti fondamentali con cui noi accostiamo il Mistero: due aspetti fondamentali, perché stanno l’uno all’inizio e l’altro al fondo del nostro atteggiamento. Ma è una dialettica, sono fattori dialettici di un solo atteggiamento. Quella del pubblicano che se ne andò fuori dal tempio perdonato – e non dice affatto il Vangelo che lasciò di fare il gabelliere e perciò di truffare, non lo dice – è certamente, come ho detto stamattina, la pagina di Vangelo più chiara da questo punto di vista».
«La Confessione, per venire nel dettaglio, non può essere considerata in questa guisa che sto per dire; nella guisa che sto per dire può essere considerata la Confessione se è una pratica di pietà per il moralismo solito. Cioè: “Io, per andare, per accostarmi alla Confessione, devo essere deciso a lasciare questa roba qui, altrimenti sono un impostore, sono ipocrita: vado là e so che dopo un’ora io posso ancora sbagliare; se avrò occasione, dopo tre minuti, io sbaglierò ancora. Allora, andrò alla Confessione quando io avrò deciso”. Io ti domando che necessità c’era che venisse il Mistero di Dio nella tua vita, se tu sei già capace di decidere da te. Oppure, uno pretende di arrivare alla Confessione secondo una modalità interiore, secondo uno stato di sentimento, che implica già una conversione: che uno pianga amaramente i suoi falli, che uno senta angosciosamente il suo sbaglio. Ma dico che, se sei già cambiato, è inutile che ci vai. È un sigillo formalistico quello che tu pretendi; infatti, è un formalismo».
«Invece, è ben altro che questo. Tu vai a quell’incontro perché non sei capace di niente, non sei capace, quindi, innanzitutto, di decidere il bene. Vai a quell’incontro perché tu sei bloccato dal tuo errore; perciò vai a quell’incontro come a una cosa estranea a cui sei impermeabile, e tu sei pieno del tuo sentimento cattivo; pieno sei, e vai a quell’incontro proprio perché – unica condizione – riconosci d’essere un pover’uomo. Per riconoscere di essere un pover’uomo, un inetto, un poveraccio, un disgraziato, per riconoscere di essere ingiusto – questa è la parola più discreta, ma anche più chiara – per riconoscere di non essere te stesso, per riconoscere questo, occorre che tu riconosca quel “più” di cui sopra, che tu riconosca che appartieni, le tue azioni appartengono a un contesto più grande che non tieni presente, che non puoi tenere presente; occorre che riconosca questo e riconosca di non farcela tu a metterti a posto, che tu non sei capace assolutamente di lasciare questo o quest’altro, che non sei capace di far nulla. Questa è la precondizione, solo questa. E vai a gridare, a chiedere che questo si muti».
«Il dolore non è un sentimento, nella Confessione, è un giudizio, è il riconoscere che l’azione non fu amore, non fu libertà, non fu apertura al “più”, non fu parte di un contesto, ma pretese e pretende essere legge a se stessa. Il dolore è un giudizio e il proposito non è un programma di cui tu sei padrone (non è che improvvisamente tu sei diventato padrone di te stesso!). Sarebbe inutile, un evacuare il Mistero di Cristo, sarebbe un salvarti da solo. Il proposito è esattamente il grido dell’ultimo residuo di sincerità in te: “Io non sono capace, Dio, cambiami tu. Io non so come fare, non so come agire, non so come cambiarmi, salvami tu!“. Il proposito è quest’ultimo residuo di sincerità che, non trovando in sé la soluzione riconosciuta necessaria , grida al Mistero di Dio, alla potenza di Dio. Perché questo è evidente: che Dio è più potente, è più grande la potenza di Dio della nostra inettitudine, della nostra malvagità».
«È più grande la misericordia di Dio che il peccato. Questo non vuol dire che Dio sia mentitore e dica: “Sei bravo quando sei cattivo”. Dio non consacra una tua bontà quando vuoi il male; Dio ha bisogno solo d’un punto d’appoggio in te, di un’infinitesimale punto di verità per costruirci sopra, con la sua potenza, la tua conversione. Per ricrearti! È solo la potenza di Dio che ti può ricreare, ma ha bisogno di un punto, un punto solo di verità in te. Perché Dio non può costruire su una menzogna. E questo punto infinitesimale di verità in te sta nella sincerità di quella domanda, e basta».
«La Confessione è una preghiera, perciò una domanda, non un programma stabilito. L’unica clausola è la sincerità di questa domanda. Questa sincerità, io vi chiedo se non può esserci anche in uno che si senta in una situazione così irretita che è sicuro di continuare a sbagliare! Se uno, perché si sente irretito in una situazione, non va a confessarsi, fa due gravissimi errori: prima di tutto, in fondo, avvalla più completamente la sua situazione negativa, la ispessisce; in secondo luogo, si allontana anche dalla religione, sempre di più. È la logica traiettoria del peccato: invece che rimanere un atto cattivo, diventa una storia cattiva, e il termine di questa storia è la menzogna. Uno abbandona anche la verità, anche se va ancora in chiesa, ma è tutto un vuoto di adesione e di riconoscimento».
«Perciò, anche per uno irretito in modo tale che capisce di non riuscire a cavarsela, che è sicuro di sbagliare ancora, l’ultimo residuo di verità di se stesso qual è? È quello di gridare a Dio: “Dio, cambiami tu, perché io non sono capace di cambiarmi da me. Fa’ quel che vuoi di me, perché io non sono capace di cambiarmi. Io tra un’ora sbaglierò, stasera sbaglierò, domani sbaglierò“. Non è una norma che sto dandovi; cioè: “Mettete pure in preventivo di sbagliare sempre, basta che gridiate a Dio così”, perché non sarebbe un grido sincero. Il grido è sincero, la domanda è sincera quando realmente uno non può far diverso, non riesce a far diverso; questo grido è sincero quando uno è tutto proteso a fare quello che può fare, anche a tagliar corto, se riesce. Non è l’eliminazione della tua collaborazione, è la constatazione realistica della situazione della tua energia, della tua condizione».
«Ricordatevi quella pagina di Marshall, che racconto sempre a questo punto; è una pagina molto acuta e a mio parere definitiva come chiarezza. L’abate Gaston, protagonista del libro “A ogni uomo un soldo”, deve confessare quel tedesco che i partigiani francesi hanno preso e che deve essere ammazzato; siccome è cattolico, e tutto tremante, concedono, pur essendo comunisti, che faccia la confessione. L’abate Gaston dice: “Ragazzo mio, confessati bene, perché devi crepare. Allora, che hai fatto?”. E quello naturalmente dice: “Le donne”. “Allora adesso ti pentirai, perché devi comparire davanti al tribunale di Dio”. E quello, che è lì impacciato: “Come faccio a pentirmi? Era una cosa che mi piaceva, se ne avessi l’occasione lo farei anche adesso. Come faccio a pentirmi?”. Allora all’abate Gaston, che è tutto preoccupato perché non riesce a mandare in Paradiso quell’individuo, a un certo punto viene un lampo di genio e dice: “Ma a te rincresce che non ti rincresca?”. E quello fa, spontaneamente: “Sì, mi rincresce che non mi rincresca”. Questo è l’ultimo residuo di verità in quell’individuo, è il riconoscimento del vero. Su quell’infinitesimale spunto Dio costruisce la difesa dell’uomo. “Padre, non sanno quello che si fanno” – dopo tre anni di persecuzioni che aveva avuto da loro».
«Siete inescusabili, se non andate a confessarvi. Inescusabili, perché non è quel che avete fatto, non è lo stato d’animo, quello che vi tiene lontano dalla Confessione… È prima di tutto il tradimento di voi stessi, non di Gesù Cristo o di Dio, secondo l’accezione della tradizione in cui siete stati educati. Prima ancora, cioè, è Dio e Cristo, Dio e la sua Rivelazione, in quanto inscritti nella vostra umanità, nella vostra carne, è il “più” che rinnegate. È la menzogna contro se stessi, è il peccato contro la verità. Questo è il punto radicale. Questo vi tiene lontano dalla Confessione: il non desiderio del bene, il non accettare di chiedere il bene, solo questo.Non il fatto che prevedete, a meno di un miracolo, che domani sbaglierete ancora, perché il miracolo può avvenire e lo dovete chiedere se volete il bene, se volete il “più”, se volete essere veri. Il miracolo può avvenire fra vent’anni, quando la concubina morirà. Non importa, dico: non è per avvallare evidentemente una linea di adulterio sistematico, è per centrare, focalizzare la questione nel suo cuore, nella sua verità ultima, nella sua essenza».
«Voi state lontani dalla Comunione non per lo stato d’animo o perché non sentite – e allora dite che sarebbe un’ipocrisia. Siete sì ipocriti, ma non perché sarebbe ipocrisia; siete ipocriti perché l’ipocrisia è dir di no a quello che è in noi, magari timido perché intimidito, pieno di paura perché impaurito, tutto nebuloso e vago, perché non è stato alimentato ed educato dalla vita sociale in cui siamo, ma che pur c’è. È perché dite di no a questo “più”, schiacciate sotto i piedi questo “più”, vi inibite continuamente il meglio di voi stessi, non desiderate il bene, per questo state lontani dalla Comunione. E siete ipocriti quando dite: “Sto lontano perché sarebbe ipocrisia”. Perché l’accostarsi alla Comunione è un grido, è il grido di un povero, il grido di un derelitto, che non capisce e non sente più nulla, e perciò ricorre alla forza, al Mistero, alla potenza che fa tutto e che lo convertirà; ricorre a quel Mistero di Dio diventato uomo, inseritosi nella sua vita, che lo ha raggiunto a parole e a fatti col Mistero della Chiesa e che gli dice: “Sono qui”, e che ha cambiato tanti e perciò potrà cambiar te. Un giudizio e un desiderio del bene, un grido verso il bene: questo è la Comunione. Non è uno stato d’animo, un sentimento, un piacere, una sincerità da commerciante».
Appunti da una meditazione di don Luigi Giussani agli Esercizi spirituali di Gioventù Studentesca della Svizzera. Friburgo, novembre 1967; da “Tracce” N. 9, ottobre 2005