venerdì 16 maggio 2014

L'uomo del vero dialogo con l'islam


Paul Bhatti, l'uomo del vero dialogo con l'islam
di Marco Respinti

Con gli islamici si riesce certamente a dialogare, anche in un Paese-limite come il Pakistan. Così martedì sera, a Bergamo, Sara Fumagalli, coordinatrice delle missioni dell’Umanitaria Padana Onlus, che ha promosso l’incontro, ha accompagnato la testimonianza di Paul Bhatti. L'esperienza di Bhatti, però, ex ministro federale per l'Armonia nazionale e le minoranze, oggi presidente dell'APMA, All Pakistan Minorities Alliance, va oltre. 《Ci sono valori comuni importanti》, dice a La nuova Bussola Quotudiana, 《su cui si può concretamente costruire la convivenza fra cristiani e musulmani. Il primo di tutti, inderogabile, è il pieno rispetto della vuta umana».
Medico con esperienze di lavoro in mezza Europa, già allievo dell’Università di Padova e dell’Università Cattolica belga di Lovanio, missionario nei molti luoghi della sofferenza vera, Paul Bhatti è il fratello di Shahbaz (1968-2011), caduto per mano talebana tre anni fa per il solo fatto di essersi seriamente preoccupato dei “reietti” tiranneggiati dal potere pakistano in qualità di ministro per le Minoranze religiose e di essersi per una vita intera battuto in favore dei cristiani pakistani perseguitati, sfidando i malvagi e accettando la croce. A “furor di popolo” Paul Bhatti subentrò allora al fratello, abbandonando la professione e rientrando stabilmente in patria. La sua esistenza corre sempre sul filo del rasoio; le minacce alla sua vita si ripetono; ma Paul, come Shahbaz, non demorde. Sa quale potrebbe essere il prezzo, e, come suo fratello, ha messo tutto in conto. Ciò che strabilia è la sua serenità.
Di Shahbaz i vescovi pakistani hanno avviato l’iter di canonizzazione. La Chiesa Cattolica indica ai cristiani i santi perché sono modelli da imitare, e il “modello Shahbaz” è fra i più attuali. È infatti il primo martire della libertà religiosa, magari un giorno il patrono. La libertà religiosa, infatti, non è u aspetto del relativismo, secondo l’idea che una fede varrebbe un’altra. Al contrario ‒ come ha sottolineato Marco Invernizzi, responsabile lombardo di Alleanza Cattolica, che a Bergamo ha introdotto l’ospite pakistano ‒, è il diritto primo e non negoziabile dell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio di cercare con onestà il rapporto fondante con il proprio Creatore (religione) e di esercitare appieno la prima caratteristica di quella somiglianza (libertà). Garantire all’uomo la libertà religiosa è dunque una messa in pratica seria, doverosa e necessaria della dottrina sociale della Chiesa, e proprio per questa la più concreta e sensata alternativa ai due mostri dell’ora presente: il fondamentalismo della religione impazzita (vedi l’islamismo della galassia jihadista) e il fondamentalismo della religione atea (vedi il laicismo aggressivo del “mondo libero”).
Con Shahbaz in Cielo, Paul svolge la sua missione in terra. In Pakistan la violenza è all’ordine del giorno, la miseria pure. I cattolici sono un’infima minoranza, solo il 2%, e in questo clima la Chiesa Cattolica fa quel che può. Cioè tantissimo. Solo le suore assistono i malati di mente. Solo i volontari aiutano i cristiani analfabeti e poverissimi, ai margini della società. Per tutta risposta, la famigerata legge sulla blasfemia in vigore nel “Paese dei puri” è un mannaia che cala inesorabilmente sul capo di chiunque, di norma cristiano, sia in qualche modo finito di mezzo a qualcosa. Ma Paul Bhatti non si perde d’animo. Nella desolazione più totale è convinto, come lo era suo fratello, che non tutto sia perduto per principio. Ogni volta che si scatena un pogrom contro i cristiani o un cristiano viene accusato ingiustamente, ogni volta che un villaggio viene saccheggiato, le abitazioni bruciate, la gente spogliata (e picchiata, e abusata) o le parrocchie distrutte, Paul Bhatti cammina tra la gente. Conforta i confratelli cristiani, invitandoli alla speranza fondata, e va in cerca dei leader musulmani. Non si arrende ancora all’idea manichea che i cattivi siano una causa persa.
In più di un’occasione, si è seduto fra i mullah e ha ragionato con loro. Ha spiegato che non ha alcun senso vessare, persino uccidere i cristiani in nome di Dio. Che non è questo il modo per onorare Allah. Mica sempre i musulmani lo hanno ascoltato, ma delle volte sì.
Tutti in Pakistan ricordano, ma fuori dei suoi confini pochissimi conoscono, il caso di Rimsha Masih la ragazza di Mehrabadi, un quartiere d’Islamabad, che nell’agosto 2012 finì in carcere con l’accusa di avere bruciato pagine del Corano. Rimsha, di età imprecisata (chi dice 15-16 anni, chi una ventina, all’epoca dei fatti), è affetta da Sindrome di Down. Sul suo capo pendeva la sentenza di morte dopo la denuncia urlata dell’imam della moschea locale, Hafiz Mohammed Khalid Chishti. Fu allora Paul Bhatti che prese di petto la questione. Alla fine appurò, scientificamente, che le prove fornite dall’imam alla polizia (la cenere rimasta dal rogo delle sacre pagine) era una menzogna costruita ad arte. Così il 7 settembre 2012 Rimsha è stata scarcerata e trasportata in aereo, con la famiglia, in una località segreta che ne protegge ancora la vita, forse in Canada, mentre l’imam fellone, è finito dietro le sbarre il 1° settembre, lui stesso accusato di spergiuro e bestemmia.
Anche in quel frangente Paul Bhatti ha saputo cercare e persino trovare il sostegno di alcuni musulmani, musulmani diversi dall’imam Chishti. Proprio come quando l'anno scorso fu capace di portare le autorità musulmane locali a sottoscrivere pubblicamente la condanna della distruzione di un quartiere di Lahore, Saint Joseph Colony, evacuato appena in tempo su indicazione della polizia ma raso al suolo da una folla islamica inferocita per l’ennesimo caso inventato di blasfemia. Sì, Paul Bhatti ci crede. Crede fermamente che gli uomini non siano riducibili al solo loro lato peggiore. È questo che fa di Paul Bhatti un cattolico.

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Fatwa di al Qaradawi contro le elezioni in Egitto
di Valentina Colombo

Il 26 e il 27 maggio gli egiziani dovranno recarsi alle urne per scegliere il nuovo presidente e dovranno scegliere tra due candidati: il favorito ‘Abd al-Fattah al-Sisi e Hamdin Sabahi del Fronte Popolare Egiziano. Nonostante l’esito scontato, anche se saranno molto interessanti le percentuali ottenute e soprattutto i dati dell’affluenza alle urne, la campagna elettorale è nel vivo ed è accesa.
I grandi assenti, meglio i grandi esclusi, sono i Fratelli musulmaniovvero i protagonisti indiscussi delle prime tornate elettorali, sia legislative che presidenziali, successive alla Rivoluzione del Loto. Ormai messi al bando, dichiarati organizzazione terroristica, incarcerati, processati e condannati sono diventati non solo gli acerrimi nemici del “traditore” della rivoluzione e dell’attore principale di quello che loro definiscono il “golpe militare” (al-inqilab al-‘askari) ovvero al-Sisi, ma più in generale del processo elettorale stesso.
L’11 maggio 2014 Yusuf Qaradawi, teologo di riferimento dei Fratelli musulmani ha dichiarato a latere di una conferenza a Doha, in Qatar, che partecipare alle prossime elezioni è illecito (haram). Ed ha altresì aggiunto che al-Sisi è appoggiato da Israele: “Ci sono persone come Ehud Barak che dicono di votare per Sisi, Sisi è il nostro uomo, Sisi è nostro non vostro.” Quindi la sentenza di Qaradawi è chiara: astensione, ma in caso di voto votare Sabahi.
Mashari al-Dhaydi, sul quotidiano arabo internazionale Al-Sharq al-awsat, ha illustrato i retroscena della fatwa anti-elettorale: “Qaradawi non vuole che si tengano le elezioni presidenziali in Egitto. Motivo: i Fratelli musulmani sono fuori gioco.”
Il gesto di sfida di Qaradawi ha trovato immediate reazioni da parte degli ambiti islamici cairoti. Il 13 maggio l’università islamica di al-Azhar ha definito la fatwa come “estremista e bizzarra”. Il giudizio della principale istituzione islamica egiziana è stato in seguito confermato dallo shaykh Muhammad Mukhtar, ministro degli Awqaf, che ha ufficialmente consigliato di “portare Qaradawi da uno psicologo”. Mukhtar ha commentato: “Qaradawi ha perso il lume della ragione, perché è venuto a meno il potere dei Fratelli musulmani in Egitto. Ha iniziato a emettere una serie di fatwe “mirate” che appoggiano il terrorismo e invitano alla corruzione. […] Il dolore dello shaykh non si limita alla perdita di potere dei Fratelli musulmani, nemmeno alla richiesta di allontanarlo dal consiglio degli ulema di al-Azhar, ma riguarda altresì le sue ricchezza personali in Egitto”.
Il ricorso all’arma della fatwa è senza dubbio una reazione alle dichiarazioni recenti di al-Sisi circa la propria religiosità, la stessa religiosità che aveva fatto sì che venisse scelto da Mohammad Morsi come capo delle Forze Armate. I Fratelli musulmani che dopo il cosiddeto golpe giorno lo avevano accusato di tradimento, di usare la religione per i propri fini personali e per conquistarsi l’elettorato, si sono trovati a dovere accettare una risposta decisa, semplice e chiara: “Sono un egiziano nazionalista e musulmano che merita la fiducia dei suoi concittadini”. Come ha sottolineato l’editorialista Abd al-Rahman al-Rashed, al-Sisi “non ha usato l’islam, bensì si è difeso dalle loro accuse di avere distrutto moschee, di avere incarcerato dotti religiosi, di avere privilegiato i copti”.
Ma il commento più interessante, e che dovrebbe fare riflettere sull’importanza che spesso viene attribuita, sia nel mondo islamico che in Occidente, alle fatwe, è quello di Saad al-Din al-Hilali, docente e preside della Facoltà di diritto comparato all’Università di al-Azhar. Dopo avere dichiarato che la fatwa di Qaradawi “devia dalla sharia perché la partecipazione al processo elettorale è un dovere nazionale”, precisa che “la sua fatwa esprime solo la sua opinione, perché nell’islam non esiste l’”uomo di religione”, esistono l’uomo di legge e l’uomo di scienza […] Ogni opinione legale […] non esprime una costrizione, ovvero la fatwa di Qaradawi che vieta la partecipazione alle elezioni esprime solo la sua opinione. Qaradawi si è attribuito la facoltà che ha solo Allah di rendere lecito e illecito”. Al-Hilali ha così chiarito quella che è la vera natura della fatwa che è un responso legale con valore universale, ma non coercitivo proprio in quanto espressione di un ragionamento personale.
Le parole del docente di al-Azhar e quanto è accaduto non solo in Egitto, ma anche in Siria dovrebbero servire da monito sia al mondo islamico, affinché non cada nella trappola delle cosiddette guerre di fatwe che hanno sempre più valore politico e strategico piuttosto che valore religioso, sia al mondo occidentale affinché non attribuisca a persone come Qaradawi, presidente del Consiglio Europeo per la Fatwa e la Ricerca con sede a Dublino, più valore di quanto non abbiano. Le parole di al-Hilali ci riportano a sottolineare e a correggere l’errore in cui spesso incorre l’occidente: gli imam non sono sacerdoti e l’islam non ha un’autorità dirimente come il Papa. Gli egiziani lo sanno benissimo e andranno a votare ugualmente per dimostrare, speriamo per l’ultima volta, di sapere distinguere tra il musulmano che fa il politico e lo pseudo-musulmano appartenente all’islam politico dei Fratelli musulmani.