lunedì 5 maggio 2014

L'uomo tra teologia e psicologia



Il mistero e l’inconscio. 

(Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto) Bruno Forte anticipa per i nostri lettori alcune delle riflessioni contenute nel suo libro Fede e psicologia in uscita con l'Editrice Morcelliana di Brescia, arricchito da una Postfazione di Luigi Janiri, docente di psichiatria nella Facoltà di Medicina dell'Università Cattolica del Sacro Cuore a Roma 
«Non è la conoscenza che illumina il mistero, è il mistero che illumina la conoscenza. Noi possiamo conoscere solo grazie alle cose che non conosceremo mai». Quest'affermazione del teologo russo Pavel Evdokimov, a prima vista paradossale, aiuta a capire quanto profondo possa essere il rapporto fra l'indagine sul mistero dell'inconscio umano, cara alla psicologia, e quella sulle profondità abissali del mistero divino, così come esso si è rivelato agli uomini in Gesù Cristo, cara alla fede e alla teologia cristiana.
La provocazione del mistero intriga entrambe, fede pensante e conoscenza della psiche; il primato dell'ignoto sul già visto e il già posseduto, fonda per entrambe una singolare condizione di povertà, che si traduce nell'esercizio dell'interrogazione, dell'ascolto e dell'umiltà, e apre a sorprese e fecondità irraggiungibili a un pensiero presuntuosamente solare, che voglia comprendere e spiegare tutto. Se la ragione moderna è stata governata dal programma-manifesto compendiato da Hegel nella formula "il razionale è il reale", la conoscenza a cui apre la parabola di trionfo e di declino di quella ragione e delle sue espressioni ideologiche è più che mai sedotta dal mistero, intrigata dall'ignoto, desiderosa e pronta per una nuova navigazione sui mari infiniti verso cui conduce lo stupore della ragione e l'umiltà dell'ascolto.
Fede pensosa e analisi psicologica, cammini spirituali aperti alle profondità divine e percorsi psicoterapeutici verso le profondità dell'umano, scoprono così potenzialità di vicinanza, per il passato per lo più ignorate e più spesso trascurate. Se è vero l'asserto di San Tommaso d'Aquino che "in fine nostrae cognitionis Deum tamquam ignotum cognoscimus" (Summa contra Gentiles, I, 49, 5), e se dunque il pensatore della fede ammette che quando avremo fatto di tutto per conoscere Dio, Egli resterà sempre al di là di tutte le possibili mete da noi raggiunte, c'è da chiedersi se non sia parimenti vero che l'uomo resterà mistero anche al termine di tutte le indagini che avremo potuto produrre per portare a parola compiuta e contemplazione luminosa l'abisso del suo cuore, che sempre invoca all'abisso. Quale reciproco apporto potranno dunque offrirsi una teologia e una psicologia, che non siano chiuse in se stesse, e che perciò sappiano farsi aperte e interrogative del Mistero, l'una in ascolto dell'altra, insieme in ascolto dell'Altro? La teologia può offrire ad una tale psicologia l'orizzonte ultimo di senso che attinge a Dio, mistero del mondo, quale è stato rivelato in Gesù Cristo: in tal modo, nell'immagine del Dio Trinità Amore essa riconosce la vocazione ultima dell'uomo e del mondo, in rapporto alla quale l'uomo può realizzarsi in una vita buona, sana e felice, anche quando dovesse essere chiamato a testimoniare nel dolore l'amore più grande, che lo sostiene e dà senso alla vita.
Per adempiere a questo compito la teologia dovrà porsi totalmente in ascolto della Trascendenza, pensiero dell'obbedienza della fede che accoglie la sorpresa e la novità dell'avvento di Dio nel cuore dell'esodo umano: solo una teologia, che sia rigorosamente e propriamente "teologica", che cioè abbia a cuore l'Eterno e parli di Dio come del suo Oggetto puro, al tempo stesso in cui riconosce in Lui il vivente Soggetto, che la raggiunge nella Parola e nel Silenzio cui si sforza di corrispondere, potrà entrare in dialogo autentico e significativo con una psicologia, che sia sorretta da una visione dell'uomo aperta al Mistero. Da parte sua, una simile psicologia offrirà alla teologia quel senso di realismo e di concretezza nei confronti della situazione umana nel mondo, che la libera da ogni possibile tentazione ideologica e la spinge a farsi coscienza critica della prassi personale ed ecclesiale, perché siano sempre animate dal primato della carità. Lungi dall'escludersi o dal confondersi le due discipline vengono così a integrarsi, ciascuna consapevole di quanto può dare e interrogativa di quanto può ricevere. L'antropologia aperta e accogliente nei confronti della Trascendenza, che costituisce il comune orizzonte nel quale è resa possibile una tale integrazione, corrisponde alla visione dell'uomo e del mondo che ispira la "svolta antropologica" della teologia, fatta propria dal Vaticano II, e che una psicologia, incamminata in direzione di una possibile apertura teologica, è chiamata incessantemente ad approfondire come elemento architettonico del suo servizio all'umanità della persona umana.
Di questo dialogo vorrei evocare le forme strutturali in un'icona, che traggo dalla tradizione ebraica. Una gustosa narrazione rabbinica narra della protesta della lettera "aleph" - la più eterea e volatile di tutte le lettere - per non essere stata scelta a iniziare il racconto della creazione pur essendo la prima lettera dell'alfabeto: la prima parola della Torah è infatti "berešit", "in principio", e l'iniziale è "beth", quadrato aperto verso sinistra, nella direzione secondo cui in ebraico prosegue la scrittura, quasi a dire che all'inizio c'è l'apertura del domandare, l'attesa di un compimento iniziato. Ed ecco la risposta data dall'Eterno alla "aleph": "Quando andrò a donare la legge sul Sinai, comincerò proprio con te". "Io sono il Signore Dio tuo" comincia appunto con "anochì", "io", la cui iniziale è "aleph". Se la conoscenza dell'uomo e del mondo inizia con la "beth" ed è perciò sempre aperta in direzione del suo sviluppo, la verità di Dio viene offerta pienamente solo a partire da quell'"aleph", iniziale dell'"Io" della Sua autocomunicazione. Il racconto ci dice così che, se la conoscenza inizia dal mistero abissale dell'essere umano, aperto e interrogativo, si compie veramente soltanto quando è raggiunta dall'offerta della verità ultima dell'uomo e del mondo, custodita nel Dio vivente. L'"aleph" viene dopo, ma illumina la "beth" che la precede: la teologia nasce solo con la rivelazione, ma corrisponde, illuminandone il più profondo dinamismo, a quanto la psicologia comprende del mistero originario dell'uomo. L'una viene prima, come la "beth" di "berešit", ma non dimentica che l'inizio di tutte le vie dell'uomo e di Dio è in quell'"anochì", carico di mistero, di grazia e di promessa: "Io sono il Signore Dio tuo..." - "In principio..." - "Aleph" rinvia a "Beth", "Beth" rinvia ad "Aleph". L'una con l'altra. Mai l'una senza l'altra. Inseparabili, mai identiche, in un dialogo che dovrà sempre restare fra la "beth" dell'inizio del mondo e l'"aleph" dell'avvento di Dio, indeducibile e sorprendente datore di senso e di vita... 

fonte: Spogli