venerdì 23 maggio 2014

Così straordinariamente ordinario



Un anno fa la beatificazione di 

(Vincenzo Bertolone) La beatificazione di don Pino Puglisi — avvenuta il 25 maggio dello scorso anno — significa che, nel cammino cristiano verso la perfezione, l’eccezione è davvero la regola. Il santo, infatti, piuttosto che una persona eccezionale, è l’incarnazione di un’esistenza ordinaria, in cui ogni aspetto quotidiano si carica di un’intensità straordinaria perché derivante dalla fede in Gesù Cristo.

Il martire, spiega bene Timothy Radcliffe, può essere «un insegnante che rimane desto fino a tardi per preparare la lezione per il giorno dopo, o anche solo qualcuno che si preoccupa di sorridere a chi è spossato, sfinito. Può trattarsi di dire sinceramente ciò che si pensa, anche se questo potrebbe rovinare la carriera o far perder e il lavoro».
Perciò un’esistenza straordinariamente ordinaria, come quella del prete siciliano beatificato un anno fa, urta chi il male — invece di odiarlo ed evitarlo — lo pratica come un fatto gratuito e quasi banale. Così erano gli esponenti della cosca palermitana di Brancaccio dei Graviano, che armarono la mano del sicario perché eliminasse quel prete. Non tanto perché egli fosse un prete “contro”, quanto piuttosto perché la sua testimonianza, fatta di annuncio evangelico, di formazione e di educazione delle giovani generazioni in un territorio ad alta infiltrazione d’illegalità, non poteva essere tollerata in quanto grave ostacolo e, come nel caso di don Pino, non poteva non generare odio criminale per la visione religiosa che egli rappresentava e incarnava.
L’ordinarietà cristiana, cioè la fede vissuta giorno dopo giorno (con i ragazzi, i giovani, le famiglie) agli occhi dei mafiosi è molto più minacciosa di ogni altra azione decisa ed avversa. Il fenomeno mafioso, che assume forme sempre nuove e trae il massimo profitto dai periodi di malessere socio-economico, non può vedere di buon occhio un uomo di fede vera e coerente, un prete che ama, predica e si prende cura dei bisogni della povera gente, ovvero tratteggia le «tre pennellate» — come le ha definite lo scorso 29 aprile Papa Francesco commentando gli Atti degli apostoli, 4, 32 nella sua meditazione quotidiana — che rappresentano l’icona di una comunità cristiana vera.
Rispetto alla mafiosità che monsignor Giancarlo Maria Bregantini tratteggiava già nel 2001 come «quella serie di atteggiamenti illegali, sottili ma subdoli, fatti di prepotenza esterna, di sottomissione culturale, di file evitate, di raccomandazioni, di bustarelle che sciolgono certe resistenze, di voti più alti a scuola, di premio senza fatica, di lavori non fatti bene ma ugualmente remunerati, di un esame scivolato all’università», Puglisi si rendeva interprete e testimone, nella sua parrocchia, di una vita cristiana ordinaria che prende le distanze dall’illegalità e si erge non solo a spartiacque tra il bene e il male, tra il grano e la zizzania, ma anche tra un “prima” e un “dopo” nella coscienza ecclesiale, posta di fronte alla questione della convivenza tra i cristiani onesti che si riconoscono nelle istituzioni civili e religiose e “cosa nostra”. Un cristianesimo così straordinariamente ordinario, insomma, da non essere decifrabile alla luce di interpretazioni meramente umane. Il cardinale Léon-Joseph Suenens scriveva: «Finché il cristiano è umanamente spiegabile, non meraviglia nessuno, non turba le regole del gioco né il conformismo dell’ambiente, ma appena vive la sua fede comincia a diventare un problema: stupisce per gli interrogativi che fa sorgere attorno a sé».
In Puglisi si ha la sintesi perfetta di un uomo di fede che cammina sulla via della santità genuina e di un uomo della prassi che compie un’opera di santificazione di tutto ciò che è creato e umano. La sua incessante opera di formazione non è un’azione “anti-mafia”, ma un’opera ordinaria di prevenzione e di lotta effettiva a ogni male. Egli diffonde con la sua umile persona il cristianesimo giorno per giorno, in tutti gli strati sociali, non soltanto con la liturgia e la catechesi, ma anche con la pastorale della strada, aperta all’esterno e ai problemi civili e sociali, tipica di una Chiesa in stato di missione nella quale ogni pastore sente su di sé la responsabilità delle persone del gregge di Cristo.
Rivolgendosi ai giovani siciliani, domenica 9 maggio 1993, san Giovanni Paolo II disse: «Gioventù della Sicilia “Alzati!”: ripete Gesù suscitando in chi l’ascolta una meravigliosa forza spirituale. Giovani che mi ascoltate, sì, egli vi invita a mettervi in piedi; vuole che ad Agrigento, nell’Isola e in tutto il mondo i giovani prendano in mano il loro e il nostro avvenire». In quest’ottica, don Puglisi è davvero prete nuovo, che traduce in scelte sociali e solidali il suo sacerdozio, specialmente nella fascia giovanile. I care è il suo motto: i diritti degli studenti, un presidio sanitario, il centro che affronta e cerca di risolvere i problemi di una situazione sociale molto disagiata. Gli interessi prioritari sono per gli “ultimi”: bambini, anziani, persone sole e sofferenti. In occasione del sinodo del 1971 sul sacerdozio, Paolo VI chiese: «Voi che cosa ne pensate del prete? Chi è? Che cosa fa? Che cosa dovrebbe fare? E come piacerebbe a voi che fosse? […]Lo vorreste emarginato, cioè escluso, finito nel nostro mondo profano e secolarizzato? Come lo giudicate? Quali sono gli aspetti del prete che vi danno fastidio? O quali, invece, vi sembrano meritare qualche interesse?».
Don Puglisi risponde a questi interrogativi impegnandosi in una precisa direzione: essere prete sempre capace di testimoniare la speranza cristiana. «Molti giovani — affermava — continuano a non avere senso della propria vita perché non hanno trovato in noi questo orientamento preciso, chiaro nei confronti e verso di Cristo. Testimone della speranza è colui che, attraverso la propria vita, cerca di lasciar trasparire la presenza di colui che è la sua speranza, la speranza, in assoluto, in un amore che cerca l’unione definitiva con l’amato». Domenica 26 maggio 2013, durante l’Angelus, Papa Francesco non ha lasciato dubbi: «Don Puglisi è stato un sacerdote esemplare (...) Educando i ragazzi secondo il Vangelo, li sottraeva alla malavita e così questa ha cercato di sconfiggerlo uccidendolo. In realtà però è lui che ha vinto, con Cristo risorto». Di lui non poteva essere scritto meglio di quanto nella Positio del 2006: «Il suo martirio è stato, semplicemente, la conseguenza non ricercata di un’umile volontà di quotidiana fedeltà al Signore e al compito da Lui affidato, anche di fronte alla prospettiva di una morte violenta inflitta da uomini dediti al male». Il martirio di don Puglisi è stato un dono di Dio, per la Chiesa palermitana e per quella universale.
L'Osservatore Romano