mercoledì 13 novembre 2013

Papa Francesco, chi sei?



Jorge Bergoglio si racconta

Pubblichiamo uno stralcio del libro "Jorge Bergoglio. Il Papa si racconta". Conversazione con Francesca Ambrogetti e Sergio Rubin (Firenze, Salani, 2013, pagine 220, euro 12,90) nuova edizione aggiornata di El Jesuita (Ediciones B, 2010). Il brano è tratto da una delle appendici — Da Buenos Aires a Roma — in cui gli autori raccontano come hanno vissuto la giornata del 13 marzo 2013.
(Francesca Ambrogetti) 
Tutti gli argentini si ricordano dov’erano e cosa facevano nel pomeriggio del 13 marzo 2013. A las cuatro de la tarde. Di sicuro nessuno in Argentina dimenticherà mai dov’era e cosa faceva il 13 marzo, alle quattro del pomeriggio di un radioso giorno di fine estate, mentre a migliaia di chilometri di distanza calava la sera su Roma e il cardinale protodiacono annunciava al mondo intero il nome del nuovo Papa.
Come tanti altri, io ero di fronte allo schermo del televisore: attendevo che il fumo proveniente dal camino su cui erano concentrati tutti gli sguardi diventasse chiaro e venisse proclamato il Gaudium magnum perché la poltrona di Pietro non era più vacante. Nella redazione Ansa di Buenos Aires, sede centrale dell’agenzia per l’America Latina, seguivamo in diretta la trasmissione dal Vaticano, con una lista dei candidati più probabili. Tra questi, quasi alla fine, figurava anche Jorge Mario Bergoglio. Difficile distinguere tra desiderio e intuizione, ma — contro ogni logica, soprattutto per una questione anagrafica — ho sempre pensato che avesse delle buone possibilità. Tuttavia non sono riuscita a capire bene l’annuncio e quando ho sentito la parola Francesco ho pensato si trattasse di un cardinale con quel nome, e non che il nuovo Papa avesse scelto di chiamarsi così in onore del “poverello di Assisi”: il santo più amato dagli italiani e da quasi tutti i cattolici. Mentre dalla strada si levava un assordante coro di clacson — la sede dell’agenzia si trova nel centro nevralgico di Buenos Aires, a poche centinaia di metri dalla cattedrale — e la notizia del Papa argentino faceva il giro del mondo, ho vissuto qualche momento di incredulità. Era mai possibile che il cardinale con cui insieme a Sergio avevo trascorso lunghe ore per scrivere la sua storia, lo stesso che aveva accettato di condividere con noi ricordi e pensieri, che ci aveva emozionato con aneddoti personali o divertito con una battuta, fosse davvero diventato la massima autorità della Chiesa cattolica, nonché un imprescindibile punto di riferimento per il mondo intero? A questa incredulità è seguita una grande preoccupazione per la responsabilità ricaduta sulle sue spalle e per il compito impegnativo che lo attendeva in un momento così difficile per la Chiesa. Un sentimento che lo stesso Papa Francesco si è incaricato di cancellare all’istante, grazie al sorriso con cui ha salutato la folla riunita in piazza San Pietro, alla pace e alla fiducia espresse dal suo volto e alla corrente di empatia che con la massima naturalezza si è generata tra il Vescovo di Roma e il popolo che lo acclamava. A tanti chilometri di distanza, ho percepito che per conquistare tutti era bastato un semplice saluto: quel “buonasera” che tante volte doveva aver sentito dire nella sua famiglia italiana. Dopo non ho avuto più molto tempo per pensare. Il mio cellulare e il centralino dell’Ansa hanno cominciato a squillare all’unisono e hanno proseguito ininterrottamente per un bel po’ di ore. Giornalisti di tutto il mondo avevano trovato nei motori di ricerca il riferimento al libro El Jesuita, pubblicato nel 2010, in cui Jorge Bergoglio parlava per la prima volta della sua storia, del suo pensiero e della sua visione della Chiesa e del mondo. Sergio si trovava a Roma, e a Buenos Aires io ero diventata la persona più facile da raggiungere per parlare di una figura fino a quel momento sconosciuta ai più. Il terremoto era già avvenuto — sebbene con minore intensità — poche settimane prima, l’11 di febbraio, quando Benedetto XVI aveva annunciato senza preavviso la sua decisione di rinunciare al pontificato, come non accadeva da almeno seicento anni. Prima di mettersi in viaggio per Roma per partecipare al conclave inaspettato, il cardinale argentino aveva sottolineato in una dichiarazione Ansa il gesto rivoluzionario di un Papa ritenuto a tutti gli effetti un conservatore. Ma non aveva voluto fare pronostici, né parlare del nuovo Pontefice. Eppure dodici anni prima, nell’aprile del 2001, in un incontro a Buenos Aires con alcuni corrispondenti dell’Associazione Stampa Estera, Jorge Bergoglio aveva accettato di definire il profilo che secondo lui doveva avere il nuovo Papa. «Un pastore» aveva dichiarato con grande enfasi. Forse senza intuire, soprattutto perché nominato cardinale solo da due mesi, che anni dopo sarebbe toccato proprio a lui assumersi questo ruolo. E per di più in una situazione tanto complessa e delicata, difficile da immaginare all’epoca. L’idea di scrivere un libro su Jorge Bergoglio era nata in quell’occasione. Più che altro per l’impressione che aveva suscitato in tutti noi, un gruppo di giornalisti di diverse fedi e nazionalità, il contrasto tra la sua grande semplicità (era arrivato in autobus, solo e vestito come un semplice sacerdote) e il profondo acume con cui aveva risposto alle nostre domande. Non si era limitato a parlare della crisi argentina che sarebbe scoppiata solo pochi mesi dopo, ma anche del contesto internazionale e della sua visione della Chiesa. Un breve incontro in cui aveva dimostrato di vedere con estrema lucidità cosa stava accadendo nel Paese e nel mondo, e in cui ci aveva rivelato non solo ciò che pensava e sapeva, ma anche ciò che sentiva. Per realizzare il libro abbiamo dovuto attendere alcuni anni. L’incontro con i corrispondenti stranieri era un’eccezione: Jorge Bergoglio non era propenso alle interviste, e quelle concesse nel corso della sua vita ecclesiastica sono assai poche. Ancora oggi ci chiediamo come siamo riusciti a convincerlo a parlare di se stesso, della sua storia, delle sue idee e di come immaginava che dovesse essere la Chiesa. Dall’estremo Sud, l’Argentina si affaccia sulla fine del mondo, quella menzionata da Francesco nel suo primo messaggio. La notizia che il primo papa non europeo della millenaria storia della Chiesa fosse argentino ha risuonato con vigore da Ushuaia, nella Terra del Fuoco, la città più australe della Terra, fino ai pittoreschi villaggi del Nord, sperduti sulla cordigliera delle Ande, in cui il Paese incontra l’America Latina: la regione con la maggior percentuale di cattolici del pianeta aveva ricevuto con entusiasmo la notizia di aver finalmente dato un Pontefice alla Chiesa. In uno dei nostri incontri gli abbiamo chiesto quale fosse il suo posto nel mondo. Ci ha risposto senza un attimo di esitazione: Buenos Aires, la città in cui è nato, in cui ha sentito la vocazione e cominciato a esercitare il ministero sacerdotale. La città in cui pensava di trascorrere gli ultimi anni di vita dopo il ritiro, in una casa di riposo per sacerdoti a Flores, il suo quartiere, dove spesso si recava in visita e dove, si dice, aveva già scelto la sua stanza. Ma tutto è cambiato il 13 marzo del 2013, quando ha scoperto che adesso anche Roma è il suo posto nel mondo; o Lampedusa, dove si è imbattuto nuovamente nel dolore, o Rio de Janeiro, dove aveva appuntamento con il futuro, o qualsiasi altro posto in cui ci sia bisogno di consolazione e di speranza. E come se non bastasse, ha trovato anche il posto migliore, che non è segnato su nessuna cartina geografica: il cuore di milioni di cattolici, ma anche di molte persone di altre religioni, e perfino di non credenti.

L'Osservatore Romano