domenica 26 aprile 2015

Gesù signore e servo. Il buon pastore si fa agnello



(Maurizio Gronchi) La quarta domenica del tempo pasquale è occasione per riflettere sull’immagine di Gesù buon pastore, la cui prospettiva “pastorale” si configura nell’ambito della sua vita pubblica fino a culminare nella sua morte e risurrezione, trascendendo i confini storici e geografici del suo agire terreno. Con la sua pasqua, infatti, il bel pastore (Giovanni, 10, 1-18) si fa agnello immolato (Apocalisse, 5, 6), tornando così ad assumere il profilo annunciato da Giovanni Battista, all’inizio del suo ministero messianico: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo» (Giovanni, 1, 29).
Dunque, dobbiamo volgere l’attenzione a questa duplice immagine di Gesù, e alla sua singolare trasfigurazione, per avvicinare colui che si è annunciato come guida forte e potente, per poi mostrarsi agnello mansueto e pecora muta dinanzi ai suoi tosatori (Isaia, 53, 7). In questa svolta misteriosa è racchiuso il senso autentico del ministero pastorale di Gesù. Il successo della sua azione non sta nella potenza che annienta i nemici; la sua fecondità proviene dall’apparente fallimento umano, dalla consegna inerme alla morte di croce. Con la più breve delle sue parabole, Gesù l’aveva prefigurata così: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Giovanni, 12, 24).
La vera difficoltà che debbono aver avvertito i discepoli — dopo aver ascoltato il maestro che si era definito la porta sicura dell’ovile, il buon pastore che conosce le pecore una per una, che parla loro e lo seguono perché riconoscono la sua voce — era già adombrata nell’epilogo di quella metafora. Quando verrà il lupo per minacciare il gregge, il buon pastore non fuggirà come il mercenario, al quale non importa delle pecore, perché non gli appartengono, ma nello scontro soccomberà per difenderle. Questa non poteva suonare che come inquietante prospettiva: nella sua disponibilità ad affrontare il lupo e con esso la morte, Gesù non avrebbe salvato né se stesso né il gregge. La conferma di questa disfatta verrà quando, una volta percosso il pastore, le pecore saranno effettivamente disperse (Marco, 14, 27).
Quale grado di affidabilità, dunque, poteva offrire Gesù ai suoi con l’immagine del buon pastore? Quale senso ha per noi oggi guardare a Gesù come a Colui che protegge la sua Chiesa, quando i cristiani sono perseguitati e uccisi in varie parti del mondo, senza opporre alcuna resistenza? 
Proprio in questa eroica accettazione del martirio si è rivelata, fin dai primi tempi del cristianesimo, la fecondità della prospettiva pastorale di Gesù: i suoi discepoli hanno appreso da lui il coraggio della testimonianza, la capacità di uscire da se stessi, senza protezione, confidando solamente nella sua compagnia, specialmente nell’ora della prova.
La presa di distanza da ogni forma di potere nell’affermare se stessi, in nome del Vangelo, è la costante verifica dell’autentica sequela di Gesù buon pastore, capace di trasformare la cattura in offerta, poiché la vita «nessuno me la toglie: io la do da me stesso» (Giovanni, 10, 18). A questa conversione, che avviene nel profondo del cuore del discepolo, appartiene la fecondità del dono, senza attesa di riconoscimento, aldilà di ogni pretesa di successo mondano. La paradossalità del trionfo del Vangelo si dischiude precisamente in quella che è stata la sua forza espansiva: «Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani» (Tertulliano, Apologeticum, 50, 13).
Il fatto che Gesù avesse annunciato ai suoi seguaci un destino non diverso dal proprio (cfr. Giovanni, 15, 18-20), certamente non poteva risultare confortante, e tantomeno poteva giustificare i futuri persecutori. Se di una consolazione si doveva trattare, questa sarebbe venuta in seguito dall’altro Paraclito — lo Spirito, il Consolatore (Giovanni, 14, 16) — non dal maestro, che non si poteva seguire subito, ma soltanto dopo, una volta che altri avrebbero cinto Pietro, per condurlo dove non sarebbe voluto andare (ibidem, 21, 18). 
Peraltro, coraggio ed esitazione avevano abitato contemporaneamente il cuore di Simone: da una parte, egli era pronto a dare la vita, dall’altra, fu capace di negare di conoscere il suo Signore (ibidem, 13, 36-38). Ma proprio all’interno di questa tensione polare — tra coraggio e fragilità, tra entusiasmo e debolezza — il discepolo si avventura dietro al maestro che, senza illudere con i segni di potenza che compie (perciò chiede il silenzio), annuncia la croce e promette compagnia.
In ultima analisi, la fecondità dello stile pastorale di Gesù, che emerge dalle testimonianze evangeliche, promana da quella singolare polarità propria del suo essere Signore e Servo. Come al Signore corrisponde l’immagine del Pastore che dà sicurezza, così al Servo appartiene la fragilità dell’Agnello. Da una parte, Gesù guida e conduce; dall’altra, accoglie, accompagna e segue; sempre e comunque sta in mezzo a coloro che sono riuniti nel suo nome (Matteo, 18, 20). Conforme al suo stile, il pastore della Chiesa è chiamato a ricevere dal Signore Gesù la sua stessa forma, che Papa Francesco ha così luminosamente indicato: «Perciò, a volte si porrà davanti per indicare la strada e sostenere la speranza del popolo, altre volte starà semplicemente in mezzo a tutti con la sua vicinanza semplice e misericordiosa, e in alcune circostanze dovrà camminare dietro al popolo, per aiutare coloro che sono rimasti indietro e — soprattutto — perché il gregge stesso possiede un suo olfatto per individuare nuove strade» (Evangelii gaudium, 31).
L'Osservatore Romano