Si parla molto di misericordia, ma troppo poco di pentimento. Eppure, come ha notato più volte il Papa, non possiamo ricevere misericordia da Dio, non possiamo essere perdonati dei nostri peccati, se non riconosciamo le nostre colpe, se non siamo pentiti e decisi a correggerci.
Parimenti, per corrispondenza e analogamente si potrebbe dire, anzi si deve dire con franchezza contro un certo misericordismo o perdonismo corrente, che finisce per essere connivente col peccato o col torto subìto, che non possiamo essere misericordiosi e perdonare chi, avendoci offeso volontariamente, non si pente e non ci chiede perdono, pronto a riparare. Si perdona chi si pente , non chi non si pente, anche se è vero che non possiamo essere perdonati, se non perdoniamo.
Esiste, come sappiamo, un sacramento del perdono, nel quale chiediamo a Dio perdono e perdoniamo chi ci ha offeso; e questo è il sacramento della Penitenza o Confessione. Penitenza di che cosa? Evidentemente dei nostri peccati, non delle opere buone o degli errori involontari o dei peccati degli altri. Confessione di che cosa? Evidentemente, come ho appena detto, dei peccati e non delle altre cose.
Eppure – chi vi parla confessa da quarant’anni – è incredibile il numero di persone che in confessionale, più per ignoranza che per malizia, e soprattutto anziani, cattolici dalla fanciullezza, fanno tranquillamente quelle cose che ho appena denunciato e spesso si meravigliano o a tutta prima non capiscono – alcuni rimangono contrariati o si irritano – se richiamo con garbo il penitente ai suoi doveri e gli ricordo la verità o essenza di quel momento sacro, unico e speciale che stiamo celebrando alla presenza di Dio.
E’ incredibile l’ignoranza che spesso si manifesta in queste occasioni. Molti non sanno cosa dire o parlano delle loro opere buone, dicono di “non aver fatto nulla di male”, si lamentano di torti subìti, e sono invece abili nel descrivere i peccati degli altri, parlano di peccati già perdonati o cose che non c’entrano.
Negano di aver avuto mai cattive intenzioni o cattiva volontà. Non distinguono il peccato dallo sbaglio, la colpa dall’errore, il volontario dall’involontario, il conscio dall’inconscio, la passione dalla volontà, la debolezza dalla malizia, il male di colpa dal male di pena, lo scrupolo inconsistente dalla colpa reale, il peccato dubbio dal peccato certo, il peccato veniale dal peccato mortale.
Confondono il peccato col peccatore e non sanno collegare la giustizia con la misericordia. Mancano di giusti criteri per valutare le loro colpe. Alcuni dicono: mi faccia delle domande. Come se uno andasse dal medico e gli dicesse: dottore, io non so che male ho. Mi faccia delle domande. E tralascio il resto.
Non conoscono i loro doveri, ma seguono la morale del mondo. Non badano a illuminare e istruire la coscienza o a seguire gli insegnamenti della Chiesa, ma si fanno una morale per conto proprio ed è logico allora che dicano di non avere peccati. Sono convinti di essere sempre e comunque perdonati. Dio è buono, non castiga e perdona sempre.
In una parola: non sono affatto pentiti, ma vengono in confessionale per assicurare il confessore, credendo di farlo contento, che sono stati buoni e per avere conferma, approvazione o incoraggiamento a continuare a fare quello che già stanno facendo. Esattamente il contrario di quello che dovrebbero fare in confessionale. Che confessioni verrebbero fuori in queste condizioni, se il confessore li assolvesse? Assolvere da che cosa? Confessioni assolutamente nulle, dannose ed anzi sacrileghe.
Il problema oggi è che si è fragili e poco convinti nel fare il bene, ci si pente di fare il bene, non si è fedeli agli obblighi assunti, non ci si ricorda dei propri doveri e si è sedotti dal male, dai cattivi esempi e dai cattivi maestri, ci si arrende davanti alla violenza delle proprie passioni con una vana fiducia nella divina misericordia e si cede alle insidie ed alle illusioni del demonio.
Viceversa, esiste un’arrogante sicumera ed ostinazione, a volte inveterata, nel fare il male scambiato per il bene, una fedeltà assoluta ad una molteplicità di idoli. Facce di bronzo, magari ebbre di successo mondano, per le quali nessun richiamo e nessun appello sortisce effetto.
Anzi, si offendono, convinti di aver ragione loro e pretendono di farvi da maestri. Magari sono dei relativisti e si atteggiano a liberali e tolleranti; ma guai a dar loro torto. Non hanno dubbi, non si mettono in discussione, non si pentono, con tutta la retorica della “conversione”, che da cinquant’anni sentiamo dovunque ripetere in ogni occasione.
Ma nessuno o ben pochi si convertono dal protestantesimo o da altre religioni o dall’incredulità al cattolicesimo. Semmai sono i cattolici che si fanno protestanti o altro, conservando magari l’etichetta di “cattolici”. Ognuno ha i propri maestri indiscutibili, che prevalgono sul Papa, sul Magistero della Chiesa, sulla Scrittura, sulla Tradizione, o addirittura su Gesù Cristo, oppure è maestro a se stesso; il che è ancora peggio.
Il pentimento è quell’atto del volere e a volte anche del pensare – la metànoia, della quale parla S.Pietro (At 3,19) – , sotto l’impulso della grazia, per il quale la volontà cattiva rende se stessa buona sulla base della coscienza della propria colpa, la quale, colta adesso chiaramente con certezza nella propria bruttezza, viene respinta ed odiata, mentre nel peccato precedente essa aveva sedotto la volontà, che si era fatta cattiva. Il pentimento poi è sincero, quando il penitente è pronto a riparare il mal fatto. Abbiamo qui le opere della penitenza.
Tale conversione o mutamento del volere è accompagnato e causato da un salutare e caratteristico dolore spirituale e a volte anche emotivo; è come se l’anima stessa si sentisse ferita – la Scrittura parla di cuore “intenerito”, “sbriciolato” o “spezzettato”, tecnicamente si dice cuore “contrito” -, dolore più o meno intenso a seconda dell’entità della colpa, ben distinto dalla sofferenza o male di pena; è un dolore per la colpa, accompagnato da un caratteristico senso di confusione e di vergogna, che può manifestarsi anche esteriormente col rossore del volto[1], uno stato di disagio o un peso interore salutare, che stimola il soggetto a liberarsi invocando la divina misericordia.
Il dolore per aver peccato, caratteristico del pentimento, si esprime tradizionalmente con le famose diverse formule ufficiali dell’”atto di dolore”, che il penitente solitamente recita prima di ricevere l’assoluzione sacramentale, ma anche è caldamente raccomandabile che egli lo reciti spesso per conto proprio, come pia pratica per essere perdonato dai peccati veniali.
Questo atto liturgico va recitato con devozione e non biascicato in fretta e meccanicamente, magari storpiando le parole, come purtroppo fanno molti, i quali sembrano scambiare questo atto squisitamente religioso con la consegna del biglietto ferroviario al controllore: non leggiamo tutto ciò che vi è scritto; l’importante è che il biglietto sia forato. Vorrei vedere se costoro si comportano così quando vanno a ritirare i soldi in banca o quando si fanno visitare dal cardiologo.
La presenza del disagio interiore o il sentire il rimprovero della coscienza che ci accusa di aver peccato, sono certo in se stessi tormentosi – il cosiddetto “rimorso” -, ma sono un utile campanello d’allarme, che ci indica che dobbiamo curare il nostro spirito, che dobbiamo pentirci e riparare, trovando così la pace.
Se invece questo avvertimento manca in chi pur sa di aver peccato, allora si ha la cosiddetta “sfrontatezza” spavalda, che respinge il pentimento ed anzi si vanta del male fatto, come se avesse fatto bene. Classica la domanda ipocrita: “Che male c’è?”.
Certamente, se questo peso non viene tolto col pentimento, esso schiaccia l’anima, e questa, se non si pente, può avere la sensazione di liberarsene con una atto di superbia o di ateismo, il quale però viene in qualche modo a render cronico quel male, che col pentimento si sarebbe potuto togliere.
Viceversa, il cuore che non compie questo atto, è detto dalla Scrittura “cuore indurito” o “di pietra”. Il pentimento nasce dall’umiltà e dall’onestà. L’impenitenza, per converso, è effetto della superbia o della presunzione.
Il pretendere di essere perdonati senza rinunciare alla colpa e quindi senza pentirsi, può sembrare, come in Lutero, un atto di fiducia in Dio, ma in realtà è un atto di superbia, che non vuol convertire la volontà dal male al bene, e vogliamo che Dio coonesti le nostre colpe, quasi fossimo noi e non Lui la regola suprema del bene e del male.
E’ possibile pentirsi di atti che in realtà non sono peccati o non sono male, credendo che siano peccati. Certo, se si è in buona fede, si è scusati e si compie un atto soggettivamente buono, anche se in se stesso superfluo. E così è possibile non pentirsi di un atto chè in sè è male, ma che non si sapeva essere male. Anche qui indubbiamente il soggetto è innocente. E’ chiaro che se poi il soggetto viene a sapere che si tratta di un peccato, pecca se compie quell’atto.
Il pentimento suppone un giudizio lucido e obbiettivo della coscienza. Capita invece che alcuni avvertono solo un vago turbamento, che assomiglia al senso di colpa, con tendenza ad esagerarne l’entità, senza però che essi sappiano con sicurezza oggettiva se hanno o non hanno peccato e incerti se la volta precedente sono stati o non sono stati perdonati. Sono gli scrupolosi.
Qui il pentimento non è un atto autentico di virtù, ma è un fenomeno psicoemotivo morboso, che va curato non con la confessione, ma spingendo il paziente a cancellare quello stato emotivo, facendo emergere la coscienza della sua innocenza ed abituando il paziente ad un giudizio oggettivo; nei casi gravi per mezzo della psicanalisi.
Altra forma di falso pentimento è quella dei recidivi, i quali per pigrizia si adagiano nel loro vizio, per cui, quando peccano, non fanno un fermo proposito di non peccare più, contando in modo sleale e furbesco sull’assoluzione sacramentale o in generale sulla misericordia divina.
E’ vero che il peccato veniale è ripetitivo, inevitabile anche nei santi e capita spesso, ma dev’essere tolto con perseveranza, sincerità e diligenza ogni volta, almeno con atti penitenziali privati, anche se non ci si confessa, così come l’assunzione quotidiana di un farmaco va fatta con diligenza e continuità, anche se si sa che i sintomi del male torneranno.
Mi è parso bene ricordare il concetto del pentimento nella visione cattolica, giacchè ce lo siamo piuttosto dimenticato. Se non sono pentiti quei pochi che vengono a confessarsi, che faranno gli altri? Siamo davanti ad una situazione disastrata, alla quale occorre rimediare con urgenza. Il buonismo, che assicura che tutti si salvano, comunque vadano le cose, è una droga dello spirito, oltre ad essere un’eresia.
“Pentitevi e cambiate vita” (At 3,19) è la prima esortazione che Pietro fa a coloro che si stavano avvicinando al Vangelo. Insegnare a confessarsi e saper confessare sono compiti precipui del sacerdote. Se i fedeli non sanno confessarsi e non si curano della propria anima, o intendono la confessione alla rovescia, certo può dipendere dalla loro negligenza o disobbedienza ai confessori.
Ma sono convinto che la causa principale di questa crisi del confessionale è data dal fatto che i confessori sono pochi e che tra quei pochi mi domando quanti prendono sul serio e con competenza questo delicatissimo ministero, quanti si prendono cura veramente da buoni medici, delle anime accecate, addormentate, ingannate, angosciate, frastornate, tentate, smarrite, disorientate, peccatrici. Occorre che questi medici dello spirito si dedichino con maggior cura e preparazione alla salvezza delle anime.
Il confessore deve essere accogliente e caritatevole; ma il penitente dev’essere preparato e in particolare deve essere pentito e precisare di quali peccati è pentito. Limitarsi a riconoscersi genericamente peccatore non basta. Deve precisare, dopo aver fatto un opportuno esame di coscienza, così come quando si va dal medico, non basta dire che si sta male, ma si deve dire esattamente qual è il proprio disturbo; altrimenti, come il medico potrebbe curarci?
[1] Da notare però che questo fenomeno può essere causato anche da falsi sensi di colpa in soggetti innocenti ma impressionabili. Sarebbe quindi sbagliato dedurre l’esistenza di una colpa da questo semplice fatto esterno. Cf i rossori della Lucia dei Promessi Sposi.