di Stefano Magni
In Italia, la cosa è passata abbastanza inosservata. Ma senza che ce ne rendessimo conto, a New York una giudice stava inavvertitamente per dare inizio all’atto 1 del Pianeta delle Scimmie: il riconoscimento di pieni diritti umani a due scimpanzé.
La giudice della Corte Suprema dello stato di New York, Barbara Jaffe, il 17 aprile scorso aveva infatti firmato il ricorso dell’associazione animalista Non Human Rights Project (Progetto per i diritti non umani, Nhrp) per liberare due scimpanzé di proprietà dell’università Stony Brook di Long Island, dove sono usati come cavie da laboratorio. Il problema è che, nel documento firmato dall’alto magistrato, si riconosceva il diritto all’habeas corpus per gli animali da loro difesi. L’habeas corpus (“che tu abbia il corpo”) è la formula con cui si riconosce il divieto di incarcerare una persona umana, finché il giudice non ritenga che vi siano concreti elementi di accusa. Riconoscendo l’habeas corpus a due scimmie, in modo quasi del tutto subliminale, i due scimpanzé avrebbero dovuto essere immediatamente “scarcerati” dal loro proprietario e trasferiti in una riserva naturale in Florida. Ma, quel che ha contato di più, dal punto di vista degli animalisti della Nhrp, è stato il principio: il riconoscimento della personalità giuridica a un animale. L’associazione ha ovviamente colto l’occasione per farsi pubblicità, inviando la notizia a tutti i giornali americani. “(la sentenza, ndr) E’ un grande passo avanti verso ciò che cerchiamo di ottenere: il diritto alla libertà fisica per gli scimpanzé e per altri animali cognitivamente complessi”, aveva dichiarato subito, alla rivista Science, la direttrice di Nhrp.
Il 21 aprile successivo, non appena i tempi tecnici lo hanno consentito, la giudice Barbara Jaffe ha emendato il suo ordine, cancellando le parole “writ of habeas corpus” (mandato di habeas corpus), spiegando che “la loro (delle scimmie) personalità, è ancora oggetto di dibattito, al momento”. Immediatamente dopo, la giudice Jaffe ha ripreso pubblicamente gli animalisti Nhrp per le notizie scorrette che avevano diffuso. “Le speranze e i sogni di milioni di scimpanzé si sono infranti in un istante”, ironizzava il New York Post nel suo editoriale di mercoledì scorso. La causa andrà avanti, comunque. L’udienza è prevista per il prossimo 6 maggio e la rappresentanza legale per le due scimmie è comunque contemplata dalla legge. Sui diritti umani ai non umani, sarà per la prossima volta.
Questa vicenda è degna di nota, perché la battaglia animalista per riconoscere diritti umani agli animali (diritti alla libertà e alla vita) sta procedendo su diversi fronti paralleli e in più di un Paese occidentale. La prima grande organizzazione che mira a riconoscere questi diritti è il Gap, Great Apes Project (progetto grandi scimmie), che mira a garantire la vita e la libertà ai grandi primati, con capacità cognitive avanzate, quali i gorilla, gli scimpanzé, gli orangotango, i bonobo, “i nostri parenti più stretti nel regno animale”, come si legge nell’introduzione del loro sito Web. Il Gap esiste dal 1994, ha condotto una campagna ricca di successi che, da anni, produce i suoi effetti sulla legislazione dei paesi occidentali.
La Nuova Zelanda è stata la prima nazione, nel 1999, a introdurre una legge per il “benessere animale” (Animal Welfare Act). La Spagna è stata la prima in Europa a introdurre una legge analoga nel 2008. A livello Ue, esiste ora anche una convenzione per la protezione degli animali domestici, che vieta gli abusi nei loro confronti. Nel 2012, la American Association for the Advancement of Science ha firmato una “Dichiarazione dei diritti dei cetacei” con cui chiede vengano applicati i diritti di vita e libertà a balene e delfini. Alla base di questa richiesta troviamo sempre la capacità cognitiva dell’animale: “Una serie di studi scientifici hanno scoperto che le balene e i delfini siano capaci di abilità cognitive (come la risoluzione di problemi, la comprensione di un linguaggio artificiale e un comportamento sociale complesso) che indicano che questi cetacei siano più complessi, sia da un punto di vista intellettuale che emotivo, di quanto si pensasse in passato.
I difensori dei diritti animali non mirano a ottenere la piena uguaglianza con gli uomini, ma solo la garanzia ai diritti negativi fondamentali: non essere ucciso, non essere maltrattato, non essere sfruttato, torturato o controllato per servire gli scopi dell’uomo. Chiaramente non si parla di diritto di voto. Questa concezione del diritto, che può anche essere condivisibile per certi versi: l’uomo è custode del creato, anche in una visione cristiana della natura ed ha dei doveri di rispetto nei suoi confronti, quindi i maltrattamenti gratuiti nei confronti degli animali sono comunque condannabili. Il problema, semmai, è nella radice filosofica. Riconoscere diritti agli animali, vorrebbe dire slegare i diritti ai doveri. L’animale ha dunque diritto alla sua vita, ma non ha alcun dovere nei confronti dell’uomo o di altre specie. Se un gorilla, in base a un suo ragionamento cognitivamente complesso, dovesse decidere di sfondare il cranio di un turista, cosa succede? Oggi la scimmia verrebbe abbattuta, ma un domani avrebbe diritto a un avvocato? E con che motivazioni si può dimostrare la sua intenzione di uccidere, o la sua capacità di intendere o di volere? Ad ogni diritto corrisponde un dovere, in tutte le legislazioni, fin dai Dieci Comandamenti, che sono un elenco di doveri, che si tramutano in diritti negativi se applicati al prossimo (il comandamento “non uccidere” è il diritto alla vita, “non rubare” è il diritto di proprietà, per fare due esempi concreti). I diritti animali rafforzerebbero ancor di più il principio secondo cui al diritto non corrisponde alcun dovere. Tradotto in soldoni: fai quel che vuoi e se rompi non paghi (paga qualcun altro al posto tuo). Un principio molto pericoloso, anche se applicato all’uomo.
Utile ribadire, poi, che la filosofia di fondo dei paladini dei diritti animali è sempre quella eco-centrica: tutte le specie animali che fanno parte di un ecosistema sono da considerarsi sullo stesso piano, dunque tutte sono meritevoli di diritti. La centralità dell’uomo scompare. E’ una sorta di suicidio culturale: siamo pur sempre noi esseri umani gli unici che hanno la capacità di decidere chi ha diritto e chi no, quale essere può vivere libero e quale può essere ucciso. Porci sullo stesso piano delle scimmie, oltre che essere irreale, è anche un atto profondamente masochista.