venerdì 3 aprile 2015

La sentenza.




Nuovo tweet del Papa: "La Croce di Cristo non è una sconfitta: la Croce è amore e misericordia." (3 aprile 2014)

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Quella iscrizione sopra la testa

(Carlo Carletti) Nel succedersi degli eventi che scandiscono i dies paschales — come narrati nei Vangeli — si può cogliere un particolare di carattere giuridicamente normativo spesso non adeguatamente considerato dai commentatori antichi e moderni nel suo significato cogente in riferimento all’azione processuale che condusse alla condanna del Nazareno: è l’iscrizione che fisicamente — prima appesa al collo, poi disposta in prossimità della croce — doveva accompagnare il percorso di Gesù di Nazaret dal Sinedrio al Calvario. I Vangeli, seppure con evidenti diversità nell’estensione del racconto e nel dettaglio delle informazioni, riferiscono infatti di un testo iscritto commissionato da Ponzio Pilato, senza accennare però alla sua funzionalità giuridica. Nella procedura penale romana era previsto che il giudice, riconosciuta la colpevolezza dell’accusato e pronunciata la condanna, dettasse il titulus — trascritto su una tabella — cioè la motivazione della sentenza e il nome del condannato. 
La descrizione più dettagliata della iscrizione destinata a Gesù si trova nel Vangelo di Giovanni, non a caso tramandato come testimone oculare dell’evento descritto: «Pilato scrisse (scilicet fece scrivere) un’iscrizione (titulus/títlos) e la pose sopra la croce. Vi era scritto: “Gesù il Nazareno, re dei Giudei”. Molti giudei lessero questa iscrizione (ancora titulus/títlos), poiché il luogo dove fu crocifisso Gesù era prossimo alla città. Era scritta in ebraico, in latino, in greco» (Giovanni, 19, 19–20). 
Nei sinottici il riferimento a questa iscrizione è presentato in termini più succinti e con qualche difformità rispetto alla versione di Giovanni anche in relazione al testo dell’iscrizione e alla sua denominazione. Matteo (27, 37–38) riporta «e imposero sulla sua testa la causa (cioè il capo d’accusa) scritta: “Questo è Gesù re dei Giudei”», laddove — come evidente — l’iscrizione è implicitamente definita con il contenuto per il contenente; Marco (15, 26), il più conciso, annota «e vi era l’iscrizione con il motivo (della condanna) iscritto: “Il re dei Giudei”»; Luca (23, 38–39) infine riporta: «E c’era anche una iscrizione sopra di lui, scritta in greco, latino ed ebraico: “Questo è il re dei Giudei”». 
Nell’ottica del diritto penale romano e della tipologia, della funzionalità, della tecnica esecutiva di un prodotto epigrafico, l’iscrizione tramandata dai Vangeli suggerisce alcune osservazioni che possono consentire di leggere più lucidamente ruolo e significato dell’inserimento di un testo epigrafico nell’evento ultimo della Passione. 
In primo luogo, dal punto di vista tecnico e statico, è oggettivamente impossibile pensare a una iscrizione collocata al di sopra di un dispositivo cruciforme, con struttura e morfologia di patibulum (cioè in forma commissa o patibolata, cosiddetta a tau). 
Non a caso nella tradizione figurativa seriore, è generalmente rappresentato nella tipologia immissa o capitata (la cosiddetta “croce latina”), la sola che avrebbe potuto consentire l’esposizione dell’iscrizione, che nella tradizione iconografica a partire dal V secolo, è appunto rappresentata come una tabellina rettangolare collocata sulla sommità del palo verticale (stipes) della croce che sopravanza l’asse orizzontale, il patibulum. 
In secondo luogo, tenuto conto che si trattava di un testo trilingue (greco, latino, ebraico), l’iscrizione doveva probabilmente estendersi almeno su tre righi e, coerentemente alla sua funzionalità (anche giuridica) doveva prevedere di necessità la scrittura per esteso del nome del condannato e del capo d’accusa; pertanto nessun motivo plausibile avrebbe potuto giustificare l’esposizione di un acronimo — come ad esempio il seriore Inri — come poi veicolato dalla tradizione figurativa successiva, anche se nella testimonianza più antica si trova la forma, comunque abbreviata, Rex Ivd scritta entro una tabellina rettangolare posta al di sopra della testa di Gesù, come documentato in una capsella eburnea del British Museum risalente al 420–430: in questo caso — come evidente — viene riproposta la versione ellittica dell’iscrizione, come tramandata da Marco (15, 26) e Luca (23, 38–39), che non menzionano il nome del condannato (Iesus) né il suo etnico (Nazarenus).
Se, infine, come specificato nel Vangelo di Giovanni, «molti Giudei lessero questa iscrizione», si può ragionevolmente supporre che l’iscrizione fosse collocata in una posizione strategicamente funzionale alla lettura o almeno a una sua immediata percezione visiva. Escluso che potesse trattarsi di un titolo lapidario, è lecito immaginare una iscrizione effimera, destinata cioè dopo l’uso a non essere conservata: dunque un titulus albo/rubro pictus tracciato su supporto probabilmente ligneo, disposto o ai piedi della croce o, più probabilmente, appesa a una asta — una sorta di labaro — collocata a fianco o dietro il patibulum e più in alto rispetto a esso, così da apparire appunto come posta sopra la testa. 
Questa collocazione era comunque susseguente e diversa rispetto a quella del momento della condanna — non riportata dai Vangeli ma prevista dalla legislazione romana — in cui la scritta con il capo d’accusa doveva restare appesa al collo del condannato nel percorso al luogo del supplizio, dove sarebbe stata poi rimossa e collocata su altro supporto accanto o sopra il patibulum. 
È quanto sembra potersi intuire da una lettura comparata dei passi evangelici: Matteo riporta «la posero sopra la sua testa», Luca «sopra di questo» e dunque non necessariamente deve intendersi, come proposto nella traduzione della Bibbia di Gerusalemme, «sopra la sua testa», ma forse più genericamente sopra o in contiguità con il crocifisso. Marco non ne fa cenno; Giovanni dice «la pose sopra la croce». 
Queste informazioni, sebbene tra loro non conformi e talvolta tecnicamente ellittiche, giustificano tuttavia l’ipotesi ricostruttiva di una iscrizione appesa a un’asta e collocata dietro o a fianco della croce. Questa possibile soluzione è anche imposta dalla morfologia dello strumento di supplizio, che si presentava nella forma di una crux commissa, in tutto corrispondente a quella di uso corrente nel mondo romano. 
Questa tipologia trova una conferma convincente in un graffito parietale tracciato nel I secolo in una taberna di Pozzuoli, prossima all’anfiteatro. Si tratta di una crocifissione: su una croce commissa è appesa una donna, il cui nome Alcimilla è tracciato all’altezza della testa. 
L’eccezionale rappresentazione, trattata in termini estremamente realistici, seppure rozzi e approssimativi, non presenta nessun elemento che possa far pensare a una intenzione derisoria o blasfema da parte dell’esecutore — come nel graffito derisorio del Palatino — anche perché il crudo realismo della scena è sottolineato da un’altra iscrizione contestuale che menziona il luogo, la città di Cuma (Cumis), dove il supplizio dovette consumarsi. 
È verosimile che la scena rappresentasse l’esecuzione capitale di una donna avvenuta nell’anfiteatro di Cuma in occasione di uno spettacolo gladiatorio, di cui si conserva l’annuncio a Pompei in un edictum muneris, testualmente riportato in una iscrizione murale dipinta sulla facciata di un sepolcro fuori porta Nocera (Corpus inscriptionum latinarum, IV, 9983a): «Venti coppie di gladiatori e le loro riserve combatteranno a Cuma il primo, il cinque e il sei ottobre: ci saranno i condannati alla crocifissione (cruciarii), il combattimento con le fiere (venatio) e il velario (vela)».

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Pilato tra Anatole France e Joseph Ratzinger. Se il desiderio di pace uccide la giustizia

(Sabino Caronia) «Che cos’è la verità?» è la domanda di Pilato a cui Gesù non risponde (se non nell’apocrifo Vangelo di Nicodemo dove dice: «La verità è dal cielo»). Gesù non ha risposto, scrive Kierkegaard, perché la sua vita era la risposta — non a caso, l’anagramma di quid est veritas è est vir qui adest.Sul tema dell’Ecce homo si pensi invece alle pagine del racconto Le procurateur de Judée di Anatole France. Vecchio, amareggiato, Pilato incontra un amico conosciuto in Giudea quando era procuratore e a lui racconta le sue disgrazie di amministratore, vittima del proconsole Vitellio. «Chi difenderà la mia memoria?» chiede. L’amico, più frivolo, ricorda una ballerina incontrata in una bettola di Gerusalemme — il cui nome, Maddalena, non viene pronunciato — finita tra i fedeli di un giovane taumaturgo, Gesù il Nazareno. «Ti ricordi di quest’uomo?» chiede l’amico. Pilato aggrotta le sopracciglia. Poi, dopo qualche istante di silenzio, mormora: «Gesù? Gesù il Nazareno? No, non ricordo». 
È interessante anche quanto scrive sullo stesso tema Helen K. Bond nel suo libro dedicato al funzionario romano. Il governatore esce dalla stanza senza aspettare una risposta; non si tratta di un moto di irritazione verso il prigioniero, sottolinea Bond, ma il segno che Pilato fa parte di quel mondo che rifiuta Gesù.
In proposito, Georg Ratzinger nel suo volume Mio fratello il Papa ricorda la lettura delle opere di Gertrud von Le Fort, quella «poetessa della trascendenza» — secondo la felice definizione di padre Ferdinando Castelli — autrice, tra l’altro, di un romanzo, La moglie di Pilato, dove si narra di Claudia Procla che, rimasta vedova, sogna le voci che nei secoli ripeteranno il nome del marito nelle formule liturgiche. E proprio al procuratore di Giudea, e alla domanda «che cos’è la verità?», Joseph Ratzinger ha dedicato alcune delle pagine più belle del suo Gesù di Nazaret. Dopo aver osservato che Pilato siamo tutti noi e che la sua è una domanda «nella quale effettivamente è in gioco il destino dell’umanità», conclude: «Alla fine vinse in lui l’interpretazione pragmatica del diritto: più importante della verità del caso è la forza pacificante del diritto, questo fu forse il suo pensiero e così si giustificò davanti a se stesso (...). La pace fu in questo caso per lui più importante della giustizia (...). Per il momento tutto sembrò andar bene. Gerusalemme rimase tranquilla. Il fatto però che la pace, in ultima analisi, non può essere stabilita contro la verità, doveva manifestarsi più tardi». Quello di Cristo, come riconosce anche il Pilato di Bulgakov, è il «regno della verità». Gesù qualifica la testimonianza alla verità come l’essenza della sua regalità.
L'Osservatore Romano