lunedì 14 luglio 2014

Martedì della XV settimana del Tempo Ordinario



In quel tempo, Gesù si mise a rimproverare le città nelle quali aveva compiuto il maggior numero di miracoli, perché non si erano convertite:
«Guai a te, Corazin! Guai a te, Betsaida. Perché, se a Tiro e a Sidóne fossero stati compiuti i miracoli che sono stati fatti in mezzo a voi, già da tempo avrebbero fatto penitenza, ravvolte nel cilicio e nella cenere. Ebbene io ve lo dico: Tiro e Sidóne nel giorno del giudizio avranno una sorte meno dura della vostra.
E tu, Cafàrnao, "sarai forse innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai!".  Perché, se in Sòdoma fossero avvenuti i miracoli compiuti in te, oggi ancora essa esisterebbe! Ebbene io vi dico: Nel giorno del giudizio avrà una sorte meno dura della tua!». 
(Dal Vangelo secondo Matteo 11, 20-24)

Il peccato di Sodoma e Gomorra non è innanzitutto, come di solito si pensa, quello di una sessualità pervertita, la sodomia per intenderci. La tradizione giudaica insiste invece sull'unica regola di Sodoma: il rifiuto dell'ospitalità, che è sempre la madre di ogni disordine, anche di quello sessuale. La trasgressione di questa legge da parte di Lot fece scoprire i due angeli che furono a visitarlo (Gen. 19, 1-4). I nomi di Sodoma e Gomorra in ebraico sono rispettivamente "il campo" e "i covoni". Nomi legati alla fecondità, alla prosperità, che evocano semi e seminagione, immagine e profezia del Messia e dell'amore. Fecondo è solo chi accoglie l'amore, chi lascia che il seme penetri e dia inizio alla vita; chi si chiude in se stesso e nel proprio egoismo cercherà nell'altro soddisfazione e gratificazione, sempre infeconde, come accade nei rapporti contro natura. Nella Scrittura appaiono molti episodi e molte profezie al riguardo. Il Cantico dei Cantici descrive in modo sublime il Signore come uno Sposo che scende nel suo giardino alla ricerca della sua amata. La parabola del seminatore ne trasmette gli echi. Non a caso, proprio tra i campi e i covoni, prima Davide e i suoi prodi, e poi Cristo con i suoi discepoli, compiendo in modo autentico e impensabile la Legge, cercano il nutrimento riservato ai sacerdoti. Laddove è stato gettato il seme della Parola attraverso l'annuncio del Vangelo, il Signore, unico e vero mediatore e sacerdote tra l'uomo e il Padre, cerca il suo frutto. Quei campi e quei covoni sono opera sua, il frutto del suo mistero pasquale annunciato dalla Chiesa. Ciascun uomo sulla terra, covoni del grande campo di Dio, è sua proprietà. Non accogliere Cristo è non accogliere se stessi, rifiutando la propria identità e l'unico senso della propria vita. "Precipitare" è allora la naturale conseguenza di una scelta, non un castigo ingiusto di un Dio ingiusto: o apriamo la porta a Cristo per accoglierlo, o spalanchiamo le finestre per buttarci giù e suicidarci, non ci sono alternative. Sì, chi non accoglie Cristo si suicida in una eutanasia dell'anima che le sottrae l'unico alimento che la fa vivere ed essere feconda. "Sodoma" e "Gomorra" richiamano a una storia d'amore tradita per superbia e autosufficienza, gli stessi peccati delle altezzose "Cafarnao e Corazin", delle emancipate "Tiro e Sidone", della ricca "Betsaida". Non c'è posto per la Grazia in chi si presume giusto, e allora "chi si crede giusto, che si cucini nel suo brodo! Lui è venuto per noi peccatori e questo è bello. Lasciamoci guardare dalla misericordia di Gesù, facciamo festa e abbiamo memoria di questa salvezza!" (Papa Francesco, Omelia a Santa Marta, 5 luglio 2013)L'unico antidoto al rifiuto di Cristo, infatti, è la costante memoria del suo amore. Insegniamo ai nostri figli a fare memoria in mezzo alla confusione nella quale vivono? Gli sposi fanno ogni giorno memoria delle opere di Dio in loro, per resistere ai terremoti della vita matrimoniale? Un sacerdote sa guardare alla sua storia e farne un memoriale di misericordia e gratuità nella messa che celebra ogni giorno, per guidare il popolo a lui affidato a contemplare, anche nelle traversie della vita, la fedeltà buona e giusta di Dio? Quel lembo di Galilea è la geografia della storia di ciascun uomo: giunge lo Sposo, l'Atteso, il nuovo Mosè, il Messia. E' Lui il Pane disceso dal cielo, la sua carne e il suo sangue sono l'unica vita. Ma questo discorso è duro, e molti, proprio lì, nella sinagoga di Cafarnao, anche tra i suoi amici e parenti, hanno cominciato ad abbandonarlo. Non lo hanno accolto sino in fondo, il loro amore era come rugiada del mattino, evaporata al sorgere del Sole di verità. Gesù non è una rosetta, magari la migliore, in mezzo ad altri filoni e ciriole. Gesù è un pane speciale, unico, al punto che senza di Lui non si può vivere, che senza di Lui la vita è morte. Che pretesa! Cafarnao, Betsaida, Corazin, non lo hanno potuto accettare: troppo ricche, troppo radical e liberali, in quella Galilea al confine tra Israele e la terra pagana, terra così incline ad assorbirne le idolatrie e a diluirvi dentro la propria fede. Cafarnao, Betsaida, Corazin, sono i nostri nomi. Siamo superbi. Le porte del cuore sono sprangate. La predicazione, i miracoli, quante volte ci hanno scaldato, emozionato, per poi essere dimenticati, strozzati dal nostro ego smisurato dato in sposo all'idolatria? E siamo "precipitati", proprio come si può constatare oggi nel sito di Cafarnao, di cui non resistono che poche vestigia archeologiche perché sprofondata nel Lago di Tiberiade. Eccoci allora così spesso soli, sfiduciati, con i nostri fallimenti a darci dolore.  E così, per sfuggire la sofferenza, banalizziamo il male, scivoliamo sui peccati e ci auto-giustifichiamo prendendo come scudo la nostra debolezza. Ma in fondo ancora non conosciamo il pianto ed il dolore per i peccati, e ci chiudiamo così alla misericordia. Sodoma e Gomorra non potevano accogliere lo straniero perché turbava i loro standard, che erano quelli del peccato. Forse non giungiamo a chissà quali nefandezze, ma il principio è lo stesso: difendiamo quello che desideriamo fare, inzuppandolo nella melassa della libertà. Magari le ferite sanguinassero davvero dilaniandoci dal dolore! Spalancheremmo le porte al medico capace di curarci. L'arroganza, l'assolutezza nei giudizi, l'incapacità di amare e accogliere il prossimo così com'è, sono figli perversi della chiusura alla Grazia, l'unica capace di cambiare radicalmente il nostro cuore. Sono frutto di un'affezione subdola al male che desideriamo compiere. Per questo banalizziamo gli aspetti importanti e decisivi, chiudendo cuore e mente al perdono: "Dell’immagine di Dio e di Gesù, alla fine, non ammettiamo forse soltanto l’aspetto dolce e amorevole, mentre abbiamo tranquillamente cancellato l’aspetto del giudizio? Come potrà Dio fare un dramma della nostra debolezza? – pensiamo. Siamo pur sempre solo degli uomini! Ma guardando alle sofferenze del Figlio vediamo tutta la serietà del peccato, vediamo come debba essere espiato fino alla fine per poter essere superato. Il male non può continuare a essere banalizzato di fronte all’immagine del Signore che soffre" (Card. J. Ratzinger). Che fare? "Pentirsi", "convertirsi". Accogliere, oggi, di nuovo, l'amore e il perdono, la misericordia infinita di chi vuole ridonarci la verginità perduta, del Signore che ancora una volta, oggi, vuol ricrearci per una nuova fecondità.  "Tua sorella Sodoma e le città dipendenti torneranno al loro stato di prima" (Ez. 16, 55): il Capitolo 16 di Ezechiele descrive magistralmente la parabola di Israele, di Sodoma e delle sue sorelle, immagini della nostra vita. Amata e riscattata mille volte, e altrettante perduta in adulteri e idolatrie, figlie della superbia antica. Ma l'ultima parola è la misericordia, la vita nuova in Cristo: "Dopo le irrimediabili minacce, il Signore lascia risplendere l'amore. Bisogna ascoltare, ascoltare fino in fondo per arrivare all'ultima parola, il Nome del Signore! Egli è giustizia e tenerezza. Il suo essere sorprende ogni logica e ogni attesa. Come se l'attesa offerta al Santo, Benedetto Egli Sia, meritasse all'uomo il segreto del Signore, o come se il Signore desiderasse riservare a coloro che accettano di andare fino in fondo a se stessi il Suo nome di pazienza dove risplende il Perdono" (M. Vidal, L'ebreo Gesù e lo Shabbat). Ezechiele annuncia che "Anche io mi ricorderò dell'alleanza conclusa con te nella tua giovinezza e stabilirò con te un'alleanza eterna. Allora ti ricorderai della tua condotta e ne resterai confusa....tu non apra più bocca, quando ti avrò perdonato quello che hai fatto" (Ez. 16, 60.63). Come Giobbe, anche noi possiamo riconoscere la nostra stoltezza, e abbandonarci, silenziosi, alla misericordia di Dio: "Dirà il profeta Geremia al popolo ribelle: "La tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono. Renditi conto e prova quanto è triste e amaro abbandonare il Signore, tuo Dio" (Geremia 2, 19). È da questa tristezza e amarezza che il Signore vuole salvare l’uomo liberandolo dal peccato. Ma "serve una trasformazione dall’interno, un qualche appiglio di bene, un inizio da cui partire per tramutare il male in bene, l’odio in amore, la vendetta in perdono" (Benedetto XVI). Serve quest'oggi che si apre dove sciogliere umilmente un cuore contrito e umiliato nelle viscere misericordiose di Gesù. Basta solo aprire una fessura, anche di qualche millimetro, che lasci filtrare un piccolissimo fascio di luce. Il bagliore della Pasqua ha il potere di sbriciolare l'orgoglio, proprio illuminando la stoltezza della presunzione. Stringiamoci allora all'alleanza nuova ed eterna che anche oggi, nel corpo e sangue del Signore, ci viene offerta gratuitamente. Tanti miracoli sono stati compiuti nella nostra vita, il primo è questo respiro che ci tiene in vita in questo istante. Chiediamo a Dio la Grazia di non abituarci mai al suo amore: che cosa abbiamo fatto per meritare tutto quello che abbiamo? Nulla, se non credere alla menzogna con la quale il demonio ha ridipinto e stravolto i segni dell'amore di Dio, inducendoci a pensare che fossero i graffi della sua ingiustizia. Imploriamo allora il dono dello stupore quotidiano di fronte alla visita beneficante del Signore, gratuita perché immeritata: "senza meraviglia l'uomo cadrebbe nella ripetitività e, poco alla volta, diventerebbe incapace di un'esistenza veramente personale" (Giovanni Paolo II, Fides et ratio, n. 4).